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Emanuele Amato

Emanuele Amato

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Demon 1, recensione: Storia di suicidi, omicidi e blasfemie col sorriso sulle labbra

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“I’m the one who knocks” (WW – Breaking Bad)

Presentato da Coconino Press in anteprima a Napoli Comicon 2018, Demon è nato dalla fantasia contorta, quanto esuberante di Jason Shiga ed è un'opera composta da quattro volumi. Il titolo importato dalla Coconino è reduce da un successo non da poco: vincitore del prestigioso premio Eisner come Best Graphic Album – Reprint, Shiga non è nuovo a questo riconoscimento. L’autore, che è anche insegnante di matematica, sviluppa le proprie opere attraverso intricati e intelligenti stratagemmi che portano il lettore a dover dedurre il proseguo, grazie a divertenti ragionamenti logici. Meanwhile, ad esempio, che gli è valso l’Eisner Award, ha venduto migliaia di copie. Grazie a questo successo è stato adattato anche in una web-app che offre oltre 100.000 possibilità di storie diverse che il lettore può scegliere, già partendo dal tipo di gelato che si seleziona all’inizio.

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Le vicende raccontano le peripezie di Jimmy Yee, ragioniere che un giorno decide di togliersi la vita. Pagando una squallida stanza di un motel, scrive una lettera di addio e si impicca. Problema: si risveglia nella camera in cui si è ucciso. Perplesso e stranito, opta per un cambio di metodo. Si immerge nella vasca da bagno e si taglia le vene ma si ritrova però nuovamente vivo e sempre più perplesso. Trova nel cassetto, questa volta, una pistola. Se la punta alla testa e si spara. Nulla. Ritorna in vita. La cosa va avanti diverse volte e Jimmy non sa cosa diamine succede. Gli eventi iniziano man mano a prendere una piega insolita e del tutto inaspettata. Jimmy si ritroverà in situazioni assurde e piene di azione, sfruttando un qualcosa che inizialmente gli aveva dato più grattacapi che altro a suo favore. Le sue conoscenze matematiche dovranno aiutarlo a scappare dagli agenti federali che vogliono catturarlo vivo, per le sue capacità di non poter morire. Tutto questo mentre lascerà una scia di cadaveri sul suo percorso.

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La storia tessuta da Shiga è di una semplicità disarmante ma funziona in maniera eccezionale. L'evoluzione della narrazione scorre lineare e precisa, rendendo questo primo volume una lettura frenetica e insaziabile. Il tono tragicomico dell’avventura è molto efficace, soprattutto nelle sue sfumature esilaranti.
Le prime pagine del racconto, che affrontano il focus del suicidio, dovrebbero essere solitamente, cariche di pathos e con un alone di tristezza. In questo caso ogni suicidio è più divertente dell'altro. Questo paradosso emotivo/tematico amplifica la potenza di quest'opera. Prende la sacralità della vita, la distrugge facendo anche ridere. Ma non si tratta solo di questo. L’intento, dichiarato già dalla prefazione, è quello di esternare tutto ciò che socialmente non è desiderabile. Ogni pensiero non politicamente corretto, ogni battuta a sfondo sessuale, ogni azione deplorevole sono solo una catarsi da ciò che tiene dentro l’autore. La situazione paradossale ricorda molto alcune scene de I Simpson di Matt Groening, dove le situazioni folli possono capitare in una tranquilla giornata.

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Ad aumentare la funzionalità di ciò, c'è anche lo stile e il tratto del disegno. Shiga opta per soluzioni semplici quasi caricaturali. Omini simpatici con sfondi e colori piatti. Una scelta minimale adeguata per resa e tono. L’ispirazione stilistica richiama Chris Ware e Osamu Tezuka. La narrazione invece ha quella verve della pop culture con scansione di tempi e modalità, riprese dalle serie tv. Le griglie destrutturate, in maniera da non riempire quasi mai la pagina se non in alcuni flashback, seguono il senso delle vicende anche nel loro orientamento nella tavola, son posizionate - ovvero - in modo da rappresentare al meglio la velocità o meno della scena, dando al lettore la chiave e la scansione dei tempi di attenzione.

Coconino Press aggiunge al suo catalogo un’opera particolare e molto interessante di cui attendendiamo con impazienza il secondo volume in uscita tra due mesi.

Stigma: Storie di uomini intraprendenti e di situazioni critiche, intervista Luca Negri aka Regula size monster

Storie di uomini intraprendenti e situazioni critiche è il secondo volume in uscita per l’etichetta Stigma, sotto l’egida della casa editrice Eris Edizioni, senza però perdere di indipendenza o andare contro il proprio manifesto. È il turno dell’esordiente Luca Negri che propone una serie di storie nate da cliché e ne demolisce la struttura. Con il preorder, fino al 31 maggio, verrà inviato anche il volume Skorpia. Solo ed esclusivamente dal sito e fino a fine maggio. Abbiamo intervistato Luca che ci ha descritto un po’ la sua opera e ci ha parlato della sua esperienza con Stigma.

Prima pubblicazione cartacea per te, con un team di artisti - che seguiranno - di una portata immensa. Come ti senti a far parte del gruppo dei folli che hanno occupato il manicomio?
Davvero, è una bella sensazione. Non è facile fidarsi delle persone, soprattutto se queste non hanno lavori alle spalle che possano parlare per loro. Stigma ha voluto provarci e mi ha dato fiducia, a prescindere dal mio nome e dai miei contatti, fiera del fatto che fossi alla prima pubblicazione. La cosa mi fa sentire molto bene e mi ricorda che almeno in questo campo il nepotismo (o networking, come lo si vuole chiamare oggi) non è ancora sovrano.

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Come ti sei trovato con Stigma e quanto hai dovuto cambiare/modificare alcune storie già apparse sul collettivo Sbucciaginocchi?
Libertà assoluta, una volta approvata l'idea generale del volume come raccolta di racconti. I cambiamenti sono stati minimi, principalmente correzioni ortografiche e revisioni del lettering per omologare il tutto. Tanta fiducia può sembrare una trappola, ma non lo è stata, e i racconti originali sono quelli che mi hanno divertito di più in fase di realizzazione.

Parliamo del libro. Affronti diversi generi e i loro cliché, scardinando completamente i canoni. Com’è nata l’idea e come l’hai strutturata poi?
L'idea è nata in corso d'opera. Ho cercato di trovare un filo rosso tra le parti esistenti (che si è rivelato essere il cinema, la sua catalogazione e i suoi ritmi narrativi), dopodiché ho seguito la traccia nuova che mi sono imposto e ho lavorato per generi, i più riconoscibili, dall'horror alla fantascienza al western. La rottura dei cliché è un'altra cosa che è venuta con l'ideazione delle storie in se, e non prima. Mi piace molto riflettere sui canoni, sulle aspettative che crea una certa narrazione, e poi sviluppare di conseguenza. Ciononostante non credo che tutte le storie si costruiscano su rotture di cliché (e non devono): la storia noir è una vera e propria storia noir (anche se raccontata a singhiozzo), la fantascienza è uno spaccato cyberpunk di una vicenda più grande, la storia gangster è la cosa più cinica che abbia mai fumettato...

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Hai molto a cuore il concetto di spazio/tempo e lo si vede anche nei tuoi montaggi. Come mai questa ossessione, se possiamo definirla cosi.
Credo che derivi dal mio modo di lavorare e dai miei mezzi. Molti teorici (e autori) affermano che il cinema si faccia in sede di montaggio, e il montaggio è quel momento in cui lo spazio e il tempo si dilatano e si comprimono a piacimento: un bell'ego trip, insomma. Il montaggio per me è l'unico momento in cui sento di avere davvero il controllo della situazione, e cerco di portare questo sentimento anche all'interno della narrazione fumettistica. Per esempio, spesso, dopo aver concluso una storia, mi sono ritrovato a scambiare l'ordine di alcune pagine e/o vignette nelle tavole stesse. Ecco come nascono queste narrazioni frammentarie.

Le tue storie spiccano per una regia molto curata e cinematografica. Soprattutto abbastanza definibile nella tecnica della camera a mano. Ricordiamo che il tuo Crave è in concorso nella sezione cortometraggi dei David di Donatello. Nel medium fumetto, quindi, è una scelta voluta e funzionale solo per questo libro o in generale la usi nei tuoi fumetti come stile personale?
La costruzione delle mie vignette è spesso caotica: evito di fare gli storyboard, e uso delle shot-list (elenchi scritti di spunti visivi da tenere a mente) per costruire le tavole. La mancanza di continuità che produce questo approccio mi ricorda molto la camera a mano (quella con cui mi trovo più a mio agio in ripresa) e l'improvvisazione di un attore: c'è sempre un elemento di sorpresa nel lavoro finito, e mi piace che ci sia, mi piace che il risultato diventi una cosa a se stante, mi piace poter essere giudicato dal mio stesso lavoro. Non sopporto chi si pone come divinità benevola all'interno della propria produzione.

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Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro? Sei al lavoro su altro?
C'è una storia più lunga che voglio realizzare: una storia di guerra, d'amore e di tecnologia, ma soprattutto di guerra (Seconda Guerra Mondiale, per l'esattezza). Potete vedere il racconto bellico in Storie di uomini intraprendenti come una specie di teaser, se volete. Non dico altro, non voglio portarmi sfortuna.

La ricerca di se stessi nella profondità dello spazio: intervista a Francesco Guarnaccia

Francesco Guarnaccia è una promessa del fumetto italiano. Membro di spicco del collettivo Mammaiuto, ha già all’attivo un bel po' di pubblicazioni iniziate nel 2013, grazie all’autoproduzione, fino a From Here To Eternity per Shockdom. Esordisce con Bao Publishing con la sua spaziale, quanto profonda opera, Iperurania. Lo abbiamo intervistato durante il Napoli Comicon 2018, per ampliare un po’ la visione di questo meraviglioso fumetto.

Potete leggere la recensione di Iperurania qui.

Il tuo Iperurania è una storia fantascientifica, che però è un pretesto, per raccontare il superamento di paure. Quanto c’è di autobiografico dietro?
Di biografico c’è il 40%. Direi che non è una storia propriamente autobiografica ma prende spunto, neanche dai fatti reali, ma delle sensazioni che ho provato, che per me sono state passeggere. Non hanno minimamente influenzato la mia vita e il mio quotidiano, però, nel momento in cui mi è capitato di provarle le ho trovate interessanti per svilupparci una storia. Del buon materiale da approfondire, insomma. Quindi ho incominciato partendo dalla mia esperienza ad ingigantirla. Provare a capire se una situazione del genere, ovvero la sindrome dell’impostore, come poteva cambiare la vita nel momento in cui diventava pesante e opprimente. Comprendere quali potessero essere le conseguenze anche nei rapporti con le altre persone. Infatti poi nel libro si parla di amicizia, di rapporti con i colleghi e tutti i rapporti interpersonali, più o meno intimi. I rapporti più intimi, in questo caso, non hanno un riscontro effettivo 1 a 1, nel senso che nessuno dei personaggi del libro è il corrispettivo di un personaggio reale, però loro sono il sunto, il condensarsi di tutte le mie esperienze di amicizie che ho vissuto nella mia vita.

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Hai dato voce alla situazione di tanti artisti, coinvolgendo vai ambiti dell’arte. Come credi che sia il panorama attuale del fumetto? E come lo stai vivendo?
Io, personalmente, la sto vivendo molto bene. Cerco di essere, allo stesso tempo, molto professionale e molto amichevole, diciamo. Se questo è il termine giusto. Quello a cui tengo, però, è non mescolare le due cose. Nel momento in cui si è ai festival e si hanno rapporti personali, per me è importante anche entrare in confidenza, in intimità, nel senso del conoscere chi si ha davanti come persona. Avere dei buoni rapporti. Quando è il momento di essere professionali, tutte le questioni personali devono restar fuori. Non devono influenzare ciò che è il lavoro. Ad esempio, io preferisco tenermi più alla larga possibile da polemiche, frecciatine etc. Ritengo che facciano veramente male all’ambiente lavorativo in primis e all’ambiente in generale, poi. Bisogna scindere le cose, per quanto sia possibile. E non condivido nemmeno l’idea che spesso capita di vedere, dell’avere una sorta di squadra di appartenenza. Come se gli autori dovessero essere divisi in scuderie o team, insomma. Questo introduce un elemento di competizione. Io ho lavorato con tante realtà e sono contento e fiero di aver messo le mani un po’ ovunque. È chiaro però, che a volte si trovano delle situazioni più stabili, un po’ per alchimia quasi. In questo momento sono molto soddisfatto del lavoro svolto con Bao e sicuramente collaborerò in futuro con loro, anche se non voglio precludermi niente. Soprattutto mi piace pensare che sia possibile lavorare insieme pur collaborando con realtà distanti, senza che l’una escluda l’altra. Tornando alla domanda principale, se l’ambiente lo si vive in modo sano, è veramente ricco e prospero. Non bisogna cadere prede di isterismi e critiche distruttive.
La sindrome dell’impostore, nel libro, assume due forme diverse, in contesti diversi. Mi spiego meglio. Uno all’interno proprio dell’ambiente di appartenenza, che sia settore della fotografia, fumetto o altri campi artistici, c’è dell’invidia da parte dei colleghi. C’è la competizione. Non quella sana ma quella malsana. Infatti quello che tento di dire nel libro è che la competitività in realtà può essere una cosa molto positiva se presa in un certo modo. Che ti spinge a migliorare.
Poi c’è un altro sentimento che è rivolto all’esterno dell’ambiente artistico. Riguarda quello che una persona, che fa un lavoro più tradizionale, prova per chi invece fa un qualcosa che ama. Questo anche in maniera contraria. Nel senso chi fa un lavoro che ama fare, si autoinnesca poi dei sensi di colpa. Per cui chi vive di un lavoro che reputa divertente, si può sentire in difetto verso persone che magari si spaccano la schiena. In realtà la soluzione dovrebbe essere quella di avere una serenità verso sé stessi. Inoltre, se fai un lavoro che ti piace e ti diverte, all’esterno non viene più percepito come un lavoro. Si ha un non riconoscimento di esso, perché non stai lì a soffrirne. Questo avviene più per autodifesa che per cattiveria, vorrei sottolinearlo.

Hai un metodo particolare di strutturazione della tavola. Ti ispiri a qualche artista in particolare? Quali sono le tue influenze artistiche?
Ovviamente la tavola e la messa in pagina sono asservite alla storia. È impossibile per me dire che le cose sono scisse. È chiaro che tutto ciò che voglio sperimentare e far entrare in pagina è funzionale alla storia. In generale resto sempre abbastanza sorpreso quando mi dicono che sono particolarmente sperimentale .A me non sembra, o quantomeno, le mie vignette sono regolari.  Tutto il libro ha una continua dilatazione e decompressione delle vignette. È un gioco di avvicinamento e allontanamento. Quindi ci sono pagine super piene e tante splash-page e doppie splash. Mi piace questo metodo perché mi permette di dare tanto ritmo alla storia. Comprimere, decomprimere e, per me. la grandezza della vignetta è un segnale del soffermarsi, un’indicazione precisa, temporale direi, o comunque di importanza. In realtà sto dicendo delle cose abbastanza fondamentali, basiche oserei.
Per le ispirazioni, faccio molta fatica ad identificare quali sono le mie influenze per la scrittura e quelle per la messa in pagina. Per la regia delle storie, ecco. Per il riferimento stilistico invece devo citare Bryan Lee O’Malley, che non riesco a separarmene come assimilazione e, negli anni, la scena degli artisti indie inglese, quelli sotto l’ala della Nobrow Press. Tra i miei preferiti direi senz’altro Luke Pearson e Sam Brosnan. Uscendo invece dall’ambiente del fumetto, faccio molto riferimento al mondo dell’animazione. La recente scena dell’animazione 2D: Gravity Falls, Adventure time, sono tra quelle che più mi prendono.

Cosa dobbiamo aspettarci per il prossimo futuro?
Allora, con Bao per ora stiamo a vedere Iperurania e ancora dobbiamo parlare del futuro. Nell’immediato, invece, la mia preoccupazione è terminare Il Cavaliere e il Serpente. È una storia a cui tengo tantissimo e voglio assolutamente portare al termine. Dopodiché ho un paio di storie in serbo. Forse troppe, quindi sto cominciando a pensare all’idea di scrivere anche per altre persone e vedere come va. Lavorare con dei disegnatori per mettermi alla prova, perché nonostante io sia molto geloso delle mie storie, sono arrivato nel momento in cui forse alcune storie dovrei deciderle di non farle se dovessi disegnarle tutte io, quindi non mi va di accantonarle. Allora meglio affidarmi a qualcuno di cui mi possa fidare e farle venire alla luce.

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Ultimissima. Il prodotto finito di Iperurania, come ti sembra? Te lo aspettavi in questo modo oppure c’è qualche appunto che avresti visto diversamente?
Allora io ho lavorato in digitale. Ho fatto una progettazione vera del libro. Prima di cominciare a lavorare alle tavole, avevo già perfettamente in mente le misure e il formato. Ciò nonostante, lavorare in digitale, ti provoca uno sfasamento totale dalla realtà. Tremendo. Per avere un minimo di corrispondenza mi son stampato le tavole in casa per comprendere come stesse venendo visivamente e come poteva apparire. Per avere un responso immediato, per controllare se ci fosse un particolare da modificare, tipo. Ma non è comunque sufficiente. Quando vedi il libro è altro. Quindi anche se sapevo in anticipo tutto, quale sarebbe stato l’aspetto del libro finito, non riuscivo a visualizzarlo fin quando non l’ho avuto tra le mani. Solo in quel momento ho avuto una visione chiara. Quando è capitato è stato veramente sorprendente. Il lavoro di stampa e tipografico è stato veramente eccezionale. Sono riusciti ad avere una corrispondenza tra i colori del mio schermo e quelli della carta, impressionante. Sono veramente soddisfatto della forma fisica di questo libro. Io all’università ho studiato design del prodotto, quindi anche questo mi ha regalato particolare attenzione sull’oggetto-libro e devo dire che Bao ha fatto un qualcosa di fantastico. Poi sono particolarmente feticista su questo aspetto, lo cerco e lo apprezzo in quello che compro. Non è neanche un valore aggiunto, ma un valore fondamentale che ogni libro dovrebbe avere. La progettualità del libro ha il potere di offuscare o massimizzare la bellezza di quello che è stato fatto.

Iperurania, recensione: Dai dilemmi interiori allo spazio profondo

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Potete leggere l'intervista a Francesco Guarnaccia qui.

“L’artista è uno spirito ingordo che vive di e per altra vite”

Francesco Guarnaccia è un giovane autore, conosciuto principalmente per il suo From Here To Eternity, edito da Shockdom. In realtà, l'autore ha alle spalle una bella esperienza nel campo dell’autoproduzione, insieme al collettivo Mammaiuto, associazione culturale che da anni si sta imponendo nel panorama fumettistico per le loro opere di grande qualità, non a caso premiati quest’anno al Napoli Comicon con il premio Micheluzzi come miglior webcomic con il loro I tre cani.
Il suo nuovo lavoro, Iperurania per Bao Publishing, è un graphic novel fantascientifico, genere usato però come pretesto per un racconto molto più complesso e profondo. Mettiamo un po’ di ordine, partendo dalla trama.

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In un futuro dove ormai la colonizzazione spaziale di pianeti è ormai la prassi, l’estensione della civiltà umana va oltre i confini galattici, si incontra un pianeta estremamente ostile a questi propositi: Iperurania. Questo piccolo mondo ha delle caratteristiche strutturali che non permettono di essere abitato, né tanto meno attraccato. Ha una forza gravitazionale talmente potente da non permettere a chi, solo talora riuscisse ad entrare, di poterne riuscire. Ha campi magnetici estremamente forti da cortocircuitare ogni attrezzatura e dispositivo, rendendo impossibile l’utilizzo di apparati tecnologici. Gli esseri umani però non si danno per vinti. Dopo anni passati a cercare di colonizzarlo, hanno creato una stazione spaziale per poterlo monitorare. Hanno sviluppato tecniche di pilotaggio di tute spaziali per poter scattare foto di qualità per carpirne i segreti. Le diapositive sono affidate a esperti fotonauti che tentano in ogni modo e con ogni manovra di scattare la foto della loro vita. Le cose non girano bene però e da professione sovvenzionata, diventa un hobby, perché si è capito che il pianeta è inespugnabile. I giovani aspiranti quindi si ritrovano a seguire un sogno che nella realtà, è un’utopia, quasi. Tra questi c’è Bun, ragazzino che più di ogni altra cosa, desidera diventare un (metti nome fotonauti).

Bun vive ancora con i suoi quando invece il suo migliore amico, che lavora sulla stazione spaziale, è già indipendente mentre lui è timido, impacciato e non crede in sé stesso. Vuole però ardentemente scoprire Iperurania. Un giorno, per caso, in una strana manovra, anche un po’ goffa, si ritrova quasi per magia sul pianeta. Scopre piccoli esseri gommosi tentacolari che iniziano a ricoprirlo fino a… trovarsi a casa sua. Questo episodio si ripeterà, facendogli comprendere che ha la capacità di teletrasportarsi sul pianeta. Da qui ci saranno un susseguirsi di avvenimenti, vicende e colpi di scena che porteranno il lettore più volte a sussultare.

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Guarnaccia tesse una storia fantascientifica per raccontare le paure, i drammi, i risvolti sociali attuali, di chi si trova a sognare e a lavorare in campo artistico. L’autore, con grande maestria, mette tanta carne sul fuoco ma senza tralasciare nulla. Dalle aspettative del lavoro allo scontro con la realtà, dalle invidie distruttive dei colleghi a quelle costruttive, dagli stereotipi che girano intorno alla professione artistica da parte di chi lavora in ambiti diversi. È come se il fare un lavoro che ami sia un qualcosa di totalmente assurdo. Concezioni che risultano essenzialmente realistiche, oggigiorno. Non solo. L'autore descrive perfettamente gli stati emotivi di chi si trova ad avere aspirazioni e che puntualmente vede demolirsi man mano e che solo con la caparbietà e la forza di volontà può ricostruire. Un romanzo di formazione, potrebbe essere definito questo Iperurania, ma le accezioni attuali potrebbero portare ad ambiguità descrittive, quindi eviteremo questa etichetta. Sta di fatto che non si prefigge di formare nessuno, esplicitamente, ma regala piccole perle che, prese e rielaborate, potrebbero aiutare molti artisti nel superare tante situazioni di stallo emotivo e professionale. Il tutto con tono ironico che non sdrammatizza in maniera superficiale, ma dona solo un colore diverso al tema.

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La sceneggiatura risulta un po’ pesante nella parte iniziale, in particolare la prima ventina di tavole troppo descrittive e in cui si approfondiscono la caratterizzazione ai personaggi. Invero forse è l’unica pecca, se vogliamo definirla tale, dato che le restanti 170 pagine vengono divorate in maniera impressionante. Il tutto prende improvvisamente un ritmo talmente calzante da far perdere la cognizione del tempo, finendo l’albo d’un fiato. Il meccanismo narrativo di Guarnaccia comprime e decomprime le tavole con vignette larghe fino a microscopici quadratini per dare risalto e attenzione a particolari scene. Le griglie sono estremamente studiate e strutturalmente complesse. Alcune tavole superano ampiamente le 15 vignette. Lo stile personalissimo di disegno è un tratto che ormai contraddistingue l’autore nella marea di artisti italiani, cosa difficilissima in un panorama editoriale dove ogni giorno escono nuove leve e autori. Alcune tavole psichedeliche sono tanto allucinanti quanto altamente funzionali. Anche il tipo di colorazione pastello che passa da tonalità semplici a pagine superfluo, sottolineano la capacità di utilizzare ogni possibile dettaglio ai fini della narrazione. Insomma, Guarnaccia è un autore che ormai sa come muoversi con destrezza senza risultare banale né per tratto né per storia né per storytelling, pur essendo giovanissimo.

L’edizione Bao è uno spettacolo. Un cartonato 21x27 cm che evidenzia e amplifica la potenza di ogni tavola. Dovendo affrontare griglie non proprio classiche e dal gran numero di vignette, questa soluzione è la più efficace. La carta utilizzata rende grazia alla colorazione e la costina, con titolo in rilievo, è una chicca per l’esposizione in libreria di questo piccolo gioiello.

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