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Daniele Croci

Daniele Croci

Miracleman 1

“Ecco... Io vi insegno il Superuomo: egli è questo fulmine...egli è questa follia!”. Così inizia il capolavoro Miracleman, il Fumetto una volta noto con il nome di Marvelman, con un manifesto programmatico di Nietzschiana ispirazione. Così inizia anche la dark age del fumetto anglosassone, un periodo aureo di profondo rinnovamento, revisione e sofisticazione letteraria, innestato su basi piantate circa un decennio prima. E così inizia la sfavillante carriera di Lo Scrittore Originale, sceneggiatore britannico d’ascendenza working class, che da lì a poco avrebbe sfornato pietre miliari della narrativa sequenziale come V for Vendetta, nato praticamente in contemporanea di Miracleman, Swamp Thing, Watchmen e molti altri ancora.

Ritorna quindi Miracleman, dopo una travagliatissima storia editoriale, accennata anche nei redazionali di quest’edizione Panini, e una sequela infinita di controversie legali sui diritti del personaggio; controversie che, è il caso di ricordarlo, hanno tenuto il personaggio lontano dalle stampe per numerosissimi anni, sia in Italia sia in patria. Concepito a metà anni 50 come rip-off britannico di Capitan Marvel (a sua volta, abbastanza ironicamente, un rip-off di Superman), e scomparso già nel 1963, venne riportato (editorialmente) in vita nel 1982 da Lo Scrittore Originale per la mai troppo compianta rivista britannica Warrior. La serie proseguì fino a un vero e proprio season finale, con conseguente passaggio di consegne al giovanissimo e promettente sceneggiatore/giornalista Neil Gaiman, la cui run sul personaggio venne stroncata sul nascere dopo 6 numeri per fallimento dell’Eclipse, la casa editrice statunitense che aveva rilevato i diritti sul personaggio.

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Rielaborando e approfondendo l’escamotage meta-narrativo che permise il revival di Capitan America negli anni '60, LSO recupera ed attualizza il personaggio inserendolo in un contesto più verosimile e dalle evidenti implicazioni politiche, come testimoniato dalle scene di social unrest inserite già nelle primissime pagine. Inoltre, lo sceneggiatore decide di compiere un passo ulteriore, decidendo di riutilizzare anche una sequenza di Mick Anglo – l’autore del Marvelman originale – come prologo silver age, aggiungendo qualche didascalia e l’inquietante, celeberrima tavola finale.

È interessante notare come tale amore per il pastiche e per l’autoreferenzialità siano solo due delle numerose marche stilistiche e tematiche tipiche della produzione de LSO concepite in questa serie. Per essere più precisi, il lettore si accorgerà nel corso dell’opera come essa contenga in potenza molto – se non praticamente tutto – di quanto verrà affrontato negli anni a venire: la revisione/decostruzione del supereroe, l’esoterismo urbano, la riflessione politica su potere e autorità, una considerazione più ampia sul ruolo e l’importanza delle narrazioni all’interno della creazione di un canone culturale collettivo e di una soggettività privata. Il biondo Miracleman è V, è il Dr. Manhattan, è Swamp Thing, è Promethea, è persino Sir William Gull.

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Purtroppo, nel primo numero di Miracleman non c’è quasi nulla di tutto questo. L’edizione Panini, modellata rigorosamente su quella americana, occupa metà spillato con redazionali più o meno interessanti e con tre storie in bianco e nero di Mick Anglo direttamente dal 1954. Se l’intento di far conoscere l’origine e il contesto storico del personaggio e del suo autore è sotto un certo punto di vista lodevole, dall’altro scontenta tutti coloro che sono – giustamente – interessati solamente alla revisione degli anni '80, a cui vengono rilegate troppe poche pagine – tutte dal carattere fortemente introduttivo. Fa sorridere inoltre come i redazionali e gli approfondimenti non nominino mai LSO, che per sua volontà si è dissociato dall’intera operazione di ristampa, richiedendo esplicitamente alla Marvel che il suo vero nome non venisse impiegato in nessun tipo di materiale, informativo o pubblicitario. La Panini, ovviamente, ha dovuto rispettare le disposizioni della casa madre, anche se lo spettro di The Original Writer aleggia come scomoda presenza innominabile. Al di là di queste scelte editoriali, di cui sottolineamo ancora l’aderenza all’originale edizione Marvel, la qualità dell’adattamento Panini è più che buona, con una traduzione all’altezza (l’”Holy Maccaroni!” originale diventa “Santa Polenta!”) e un prezzo di lancio accattivante, abbinato a una distribuzione degna del valore dell’opera.

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I disegni di Garry Leach reggono bene il peso degli anni, considerando anche il cambio di formato editoriale – Warrior usciva con un formato diverso dal comic book standard statunitense. Tuttavia dovremo aspettare i disegnatori successivi (come Alan Davis e Mark Buckingham) per raggiungere notabili vette di sperimentalismo grafico e compositivo. I puristi storceranno sicuramente il naso per i nuovi colori ad opera del sempreverde Steve Oliff, un’operazione volta sicuramente a svecchiare l’aspetto delle tavole ma poco rispettosa del prodotto originale.

In chiusura, ripetiamo quanto detto in precedenza: Miracleman è un capolavoro, un’opera seminale destinata a cambiare per sempre la percezione del fumetto anglosassone. Inoltre, se Gaiman sta realmente scrivendo il finale della sua run (e presumibilmente dell’opera intera), come da lui stesso affermato qualche tempo fa, le scuse per lasciarsi sfuggire questa agognata ristampa sono veramente poche. E se il voto qui a fianco vi sembra esagerato, il Vostro Affezionatissimo vi chiede solamente di avere pazienza ancora per qualche numero. Kimota! 

La rivoluzione di Lucca 2014

arriva-la-rivoluzione popupGli organizzatori di Lucca Comics and Games hanno diffuso qualche succoso dettaglio sull'edizione 2014 della storica kermesse toscana, che quest'anno si svolgerà dal 30 ottobre al 2 novembre.

Dopo le numerose critiche ai problemi logistici delle ultime edizioni, culminati in una Lucca '13 davvero poco vivibile, si è scelto di allargare gli spazi dedicati alla fiera e di riorganizzare conseguentemente quelli già esistenti. Nello specifico, le novità presenti, che potete vedere anche nella mappa qui a fianco, possono essere riassunte così:

- L'area Japan (a.k.a. Japan Palace) è trasferita dal Real Collegio verso la nuova (almeno per quanto riguarda la manifestazione) area di "San Francesco", dove verrà allestito un vero e proprio quartiere tematico in salsa nipponica.
- L'area Junior viene spostata dal Cortile degli Svizzeri al palazzo del Real Collegio. Anche attività dell'area Movie potrebbero essere dislocate nel Real Collegio.
- Nella zona nord della città è creato un vero e proprio nuovo polo, intorno al celebre Anfiteatro e a piazza San Frediano.
- La biglietteria di piazzale Risorgimento viene trasferita nel piazzale delle ex Officine Lenzi (San Concordio).

Da questo recap si nota che non ci sono (ancora?) piani per una risistemazione/espansione dell'area Games, vero e proprio cruccio di molti visitatori che, negli ultimi anni, sono stati "fisicamente" bloccati o addirittura respinti dalla calca; in ogni caso, bisogna considerare la buona volontà degli organizzatori di migliorare la fruibilità di una delle più importanti fiere del mondo.

Restate sintonizzati su Comicus.it per ogni novità sulla Rivoluzione Lucca '14.

 
 

Marshal Law 1-2 (Lion Extra)

“Licenziosità, decadenza, vizio, malattie veneree, follia, disgrazia, povertà, ricchezza, volgarità, blasfemia e morte... qui c’è tutto”. Per riassumere il contenuto di Marshal Law (serie del 1987 di cui RW Lion ha da poco iniziato una ristampa) basterebbero queste poche parole, contenute in una didascalia nelle prime pagine del volume 1. Basterebbero, ma si correrebbe il rischio di banalizzare estremamente il lavoro del dinamico duo Pat Mills/Kevin O’Neill e di ricondurlo al filone imbastardito dei vuoti derivativi ultraviolenti che hanno caratterizzato parte del fumetto anglosassone anni ‘90. Per capire meglio quest’opera, e per districarne il furore nichilista, dobbiamo assolutamente fare un passo indietro, e tornare nei favolosi anni ‘80.

Come chi sta leggendo saprà, si trattò di un periodo di grande prosperità e rinascita del fumetto statunitense, nonché di decisa e a tratti sovversiva revisione di archetipi classici; a muovere le fila, un’intera generazione di scrittori e artisti provenienti dalla nuova provincia dell’impero, il Regno Unito. Giovani, spregiudicati e soprattutto politicizzati, lasciarono un impronta visibile tutt’ora. Le due opere più importanti, citate allo sfinimento, sono ovviamente Watchmen, del bardo di Northampton Alan Moore, e Il ritorno del Cavaliere Oscuro, simbolo della resistenza a stelle e strisce Frank Miller, entrambe uscite nel 1986. Se questi graphic novel, per citare Grant Morrison (Supergods, 2011), hanno “ucciso il supereroe, Marshal Law ha ballato sul suo cadavere”.

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La serie di Mills e O'Neill parte da premesse infatti simili, soprattutto per quanto riguarda l’intento decostruzionista, e ne accentua vistosamente i tratti violenti e grotteschi, perdendo – come d’ovvio – la capacità di prendersi troppo sul serio. Gli autori portano così alle estreme conseguenze un discorso sul supereroe – e contestualmente sugli Stati Uniti d’America –  iniziato forse già negli anni ‘70 e sviluppatosi con Swamp Thing, Devil, Miracleman, arrivandoci se possibile ancor più “da sinistra” rispetto a Moore e sicuramente rispetto a Miller. Non dimentichiamoci infatti l’ascendenza punk e anti-establishment che ha caratterizzato il fumetto britannico nell’epoca delle grandi riviste come 2000 AD, fondata tra l’altro proprio dal nostro Pat Mills.

Marshal Law è una divertente (nel senso di entertaining) extravaganza ambientata in un decadente futuro distopico e post-apocalittico, in pieno stile anni ‘80. Racconta le ragguardevoli gesta di un omonimo super-sbirro che cerca di ripristinare l’ordine nella caotica San Futuro, già San Francisco, letteralmente invasa da super di ogni forma e dimensione. Ovviamente le operazioni di polizia sono intrise da serena ultraviolenza e crudeltà di ogni sorta, al fine di arginare i malatissimi super che dominano la città, una galleria di freak per cui la distinzione tra eroe e villain ha del tutto perso ogni significato.

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Il design del prode Marshal Law, visibile già dalla copertina, mette ben in chiaro il carattere grottesco e squisitamente esagerato del fumetto, nonché la volontà di sovvertire modelli pre-esistenti mediante l’appropriazione di un’estetica ben definita. Nel suo costume confluiscono infatti influenze sadomaso, qui persino nella variante nazi, con tanto di pelle aderente, catene e persino filo spinato; le scarpe col tacco, dulcis in fundo, rimescolano il tutto con un dettaglio dal deciso gusto queer. Il personaggio rende pertanto visibile sul proprio corpo l’ampia tipologia di contraddizioni e di innuendo che hanno infestato gli incubi di un Fredric Wertham qualunque, esaltandone il carattere liberatorio e sovversivo.

La satira degli autori non risparmia nulla dei grandi miti del fumetto americano: dagli eroi primigeni DC, come Spirito Pubblico/Superman e Private Eye/Batman ai supereroi con superproblemi Marvel, protagonisti di uno spassoso capitolo all’inizio del secondo volume della presente edizione Lion. Il tutto viene condito con una mai velata critica all’imperialismo militare e politico statunitense – ricordiamoci che siamo negli anni finali della Guerra Fredda, e poco prima dello spostamento ideologico dell’asse del male verso il Medio Oriente con la prima Guerra del Golfo.

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Il punto forse più interessante del processo analitico è da ricercarsi nel personaggio di Private Eye; una decostruzione profonda, meno ironica di altre, volta precisamente a dissacrare e demistificare le pratiche ideologiche che sostengono l’ossessiva lotta al crimine; gli autori si spingono persino più in là, facendoci riflettere sulla dicotomia capitalista/vendicatore incarnata da Scott Brennan (cioè Bruce Wayne): “un avvoltoio che caccia il crimine creato dalla sua stessa specie”; in altre parole, la sublimazione fascistoide di una fantasia capitalistica di dominazione.

Dalla lettura dell’opera è facile rendersi conto come il rapporto fra autori, protagonista e idea(le) supereroistico sia tuttavia più sfumato. Se da una parte abbiamo l’appena citato intento decostruzionista, condito da un approccio oltremodo grottesco, dall’altra ritroviamo l’amaro riconoscimento della perdita di innocenza: un sentimento esemplificato dal rancore provato dal protagonista nei confronti dell’ex idolo d'infanzia Spirito Pubblico. Non rappresenta affatto il Sogno Americano, o forse, più probabilmente, il Sogno Americano è una truffa. È interessante notare come l’abbandono (precedente agli eventi narrati nella serie, e quindi solo narrato in retrospettiva) della terra da parte di Spirito Pubblico, fatto estremamente simbolico, riprenda uno dei leitmotiv del fumetto supereroistico sofisticato di quegli anni, dai già citati Watchmen e Il Ritorno del Cavaliere Oscuro fino a Kingdom Come (Mark Waid e Alex Ross, 1996).

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Marshal Law non sarebbe ciò che è senza gli splendidi disegni di Kevin O’Neill, che si è occupato con grande maestria anche della colorazione. L’autore britannico si sbizzarrisce nel ricreare le divise e i simboli dei grandi eroi, reinterpretandole in chiave (perdonateci la ripetizione del termine) grottesca e derisoria; gli archetipi e i personaggi di riferimento rimangono palesi, ma ad essi viene spesso e volentieri aggiunto uno strato interpretativo, come nel riuscitissimo Persecutore (a.k.a. il Punitore di casa Marvel). Da segnalare come il pastiche sia impreziosito dall’inserimento giocoso, e mai invasivo, di finto materiale giornalistico o pubblicitario, esattamente come verrà rifatto ne La Lega degli Straordinari Gentlemen, sempre a opera del disegnatore inglese. Infine, bisogna dire come uno dei punti più notevoli del comparto grafico sia la complessa saturazione semiotica delle tavole, letteralmente invase da scritte, cartelli e pubblicità colorate: ciò rende la fruizione dell’immagine un processo lento e misurato, che ben si presta ad eventuali riletture.

Per concludere, vogliamo riproporre uno degli interrogativi più angoscianti dell’intera storia, e cioè “Dove sono finiti i personaggi puliti e sani che conoscevamo? Perché i Superumani moderni sono così corrotti, così depravati?”. Se la domanda in origine viene posta dal super-sbirro Marshal Law, non fatichiamo a credere che sia risuonata più volte anche della mente del lettore. Per conoscere la risposta, non ci rimane che (ri)scoprire questa (non tanto) piccola gemma uscita quasi trent’anni fa.

Cobain - Quando ero un alieno

“Ho sempre voluto pensare di essere un alieno. Quando ero piccolo, pensavo di essere stato adottato da mia madre, perché mi avevano trovato dopo che una navicella spaziale mi aveva lasciato andare. Ero di un altro pianeta, volevo così tanto essere di un altro pianeta”. Così parla Kurt Cobain, compianto frontman dei Nirvana, in una delle interviste contenute nel documentario a lui dedicato About a Son (2006). Il concetto è ribadito anche nei primi versi della graffiante hit Territorial Pissings, contenuta in Nevermind, album-simbolo di un’intera generazione: “Quando ero un alieno/ Le culture non erano un opinione”. Danilo Deninotti e Toni Bruno partono da questa fiera dichiarazione di alterità, ai limiti del socialmente incompatibile, per raccontarci come nacque quel magnetismo totemico che circondò fin dagli albori la figura del poeta maledetto (definizione quanto mai abusata ma ahimè tristemente necessaria) del grunge americano. Non gli Ultimi Giorni, già efficacemente affrescati da Gus Van Sant nella pellicola del 2005, bensì l’infanzia e l’adolescenza, i primi passi nel mondo della musica e nel fitto sottobosco culturale sviluppatosi intorno ai ridenti suburbs di Seattle, fino alla svolta, al successo, a Smells Like Teen Spirit. Nel mezzo gli amici e, forse soprattutto, le donne, a partire dalla zia di Kurt, che lo avviò alla buona musica e gli permise di registrare un demotape, fino alle prime fidanzate Tracy e Toby, che già ispirarono pezzi come About a Girl o Drain You.

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Gli autori ci accompagnano per mano in un viaggio biografico che rifugge, fortunatamente, ogni connotazione agiografica; un racconto di formazione nei panni dell’alieno Kurt – alla ricerca di altri alieni come lui. Una narrazione episodica, frammentaria, focalizzata su diversi episodi significativi. All’origine del tutto la disgregazione della famiglia di Cobain, l’odio per i genitori, la scoperta della musica come strumento di evasione. Seppur buona, la sceneggiatura di Deninotti è spesso poco incisiva e soffre di qualche problema di ritmo, specialmente nella seconda metà nel volume dove risente della trattazione un po’ affrettata di alcuni passaggi. Questa superficialità va a incrementare ulteriormente quello che è forse il punto più contestabile del graphic novel e cioè lo scarso coinvolgimento emotivo. La veloce carrellata di eventi e personaggi (ripresi e contestualizzati in una doverosa appendice finale) non lascia al lettore spazio per assorbire le situazione e sviluppare un qualsivoglia forma di empatia. L’impressione che si ricava dalla lettura del testo è quella di un reportage distaccato, quasi giornalistico nella sua sinteticità. Nonostante i pochi momenti in cui la focalizzazione si spinge più in profondità all’interno di Kurt, e cioè durante le “visioni” aliene, rimaniamo comunque poco sintonizzati sulla dimensione emozionale e affettiva della persona che, nell’atto di divenire personaggio di una trattazione letteraria ed artistica, può – ed anzi dovrebbe – venire investito di una tridimensionalità che un banale reportage non potrà mai restituire.

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Il comparto grafico curato da Bruno è decisamente molto buono, segnaliamo in particolare l’espressività nei volti dei personaggi nonché un uso interessante della bicromia in toni di ciano che investe la totalità della narrazione di una melancolia decisamente blues; tale evocazione cromatica va forse in contrasto con l’energia e l’ardore adolescenziale dei personaggi ritratti, ma è in qualche modo anticipatrice dell’inevitabile epilogo del giovane protagonista. Sotto il versante delle critiche, ci si chiede principalmente il motivo per cui l’autore abbandoni completamente le composizioni più dinamiche viste nelle primissime pagine per appiattirsi nel resto del volume in una gabbia bonelliana a tre strips, intervallate da sporadiche splash page.

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Se quella di Kurt è una storia col finale già scritto, consumatosi con un colpo di fucile nell’aprile del 1994, non è detto che non ci siano altre vicende da raccontare. In questo volume – uscito nel ventennale dello storico Unplugged in New York – gli autori non riescono però a trovare una dimensione apprezzabile a cavallo fra la biografia romanzata e il reportage. Se da una parte si apprezza il lavoro di documentazione e di ricerca, testimoniato dall’insolita bibliografia in appendice, dall’altra ci si chiede quali stimoli alla lettura abbia il lettore non strettamente appassionato dei Nirvana e del loro leader.

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