Leonardo Rizzi
- Scritto da Redazione Comicus
- Pubblicato in Interviste
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Ciao, Leonardo. Prima ancora di essere il traduttore di gran parte delle opere di Moore pubblicate in Italia, suppongo tu ne sia anche un appassionato lettore.
Si vede così tanto?
Ti va di raccontarci le impressioni della prima lettura di V for Vendetta e il tuo approccio alla sua traduzione, anni dopo?
Intravidi per la prima volta V for Vendetta nel 1990 in un’edizione spagnola. Iniziai così, da un numero a caso, ma fui molto colpito da quelle pagine incredibili, quelle in cui Evey esce dal carcere e si ritrova nella Galleria dell’Ombra di V. Preso così, alla rinfusa, quel numero non voleva dire molto: quelle pagine non avevano un contesto in cui inserirsi e la lingua era troppo distante per dare un significato profondo alla situazione, di per sé parecchio straniante. I disegni furono ciò che mi colpì di più all’inizio: quei contrasti netti di ombra e di luce, la strana ambientazione in un mondo senza tempo con quadri appesi al soffitto, la pioggia battente che rigava la pagina come una cicatrice, ma che purificava i personaggi. Quello lì era un mondo fuori dal tempo, un mondo strano. Il volto di Auschwitz di Evey è stupefatto quando scopre, in dolorosissimo silenzio, che il mondo intorno a lei è posticcio, che ha la stessa consistenza di un teatro di burattini. Se fino a un istante prima Evey era stata altera e forte e irrevocabile rispetto alla sua scelta, ora è una bambina perduta che non sa cosa ha davanti, che scopre che ciò che sta vivendo è solo un rito di iniziazione di cui non comprende il motivo. La meraviglia, l’astrazione di quelle pagine furono indimenticabili, come il momento in cui Evey parlava con un uomo che aveva per maschera un sorriso e si scontrava con lui per motivi insondabili (se non altro a causa della lingua spagnola).
Ciò che mi colpì durante la successiva lettura in inglese, fu la densità emotiva di quel lavoro e la complessità della narrazione: una lunga sinfonia di temi e idee e personaggi che si intrecciano un po’ secondo la complessità di Thomas Pynchon, tanto amato da Moore. La sorprendente scelta di Moore è stata quella di rappresentare il reale tramite la complessità e non tramite una semplificazione, come veniva spesso fatto nei fumetti fino a quel momento (e che è a tutt’oggi sempre la soluzione che adotta il cinema, anche nella trasposizione di V). Fui colpito dal fatto che V for Vendetta dicesse talmente tante cose, che prendesse una posizione molto politica sul tema dell’anarchia e del terrorismo per arrivare però a parlare della libertà individuale, la grande idea che Moore si porta dietro da tanti anni. In “V for Vendetta” questa idea profonda viene esplorata con un risultato ottimista e meraviglioso, coronato dalla grande ricetta che è “Fa’ come ti pare”, il messaggio rinascimentale di Rabelais ripreso poi nel XX secolo da Crowley. Trovo incredibile questo senso di libertà che trapela sempre nelle opere di Moore: l’idea di cercare una strada da soli, qualunque essa sia, e di percorrerla fino alla fine per diventare così sempre più profondamente umani.
Naturalmente, fui molto felice quando dieci anni dopo il buon Pasquale mi diede la possibilità di tradurre questo volume. E naturalmente l’approccio alla traduzione fu assolutamente incosciente, come fai sempre quando ti avvicini a qualcosa di grosso per evitare di rimandare all’infinito. L’unica cosa da fare è avventurarsi in questo mondo nuovo sperando di uscirne indenne alla fine. Ma se ero preparato alle rime e ai mille giochetti verbali che avrei incontrato, certo non mi sarei aspettato le vette liriche del finale. Sono state tutte cose molto difficili da tradurre, ma al tempo stesso energetiche, come se il piacere di trovare soluzioni a materiale tanto complesso mi abbia dato l’energia per tradurne ancora.
Citazioni, simbolismo, monologhi che sono in verità versi di celebri poeti, filastrocche, ballate. V for Vendetta, oltre ad essere opera dal forte impatto emotivo sul lettore, è anche - soprattutto - opera linguisticamente e letterariamente elaborata e complessa. Quanto l'attenzione per il significato ha ceduto al rispetto del significante? E, di conseguenza, quanto dell'originale si è inevitabilmente perso nel passaggio dall'inglese all'italiano?
Quando fai una traduzione, l’originale si perde per sempre (anche se fortunatamente esiste una buona quantità di copie in lingua inglese). Quella che si ha in italiano è un’altra opera che, oltre ad essere generalmente meno bella, è soprattutto profondamente diversa, perché in essa confluiscono le idee e il talento dell’autore, le associazioni e i pensieri e i gusti del traduttore, e in più anche le ragioni della lingua in cui il tutto viene tradotto, che possiamo chiamare “le regole del gioco”. Ma non è vero che, dovendo scegliere tra significato e significante, vinca sempre il primo. Ci sono delle eccezioni, quasi sempre legate alle poesia, in cui la forma ti spinge a fare scelte insospettabili in originale. Allora ciò che resta da fare è solo “tradurre germi di significato”. Ricordo che fu una difficoltà enorme tradurre la canzone “Un vile cabaret”, perché il suo schema di rime molto preciso andava adattato a uno schema ritmico e sillabico assolutamente ferreo, altrimenti sarebbe stato impossibile inserire la canzone nel suo pentagramma musicale. In questo caso la struttura del testo è stata talmente vincolante che in molti punti è stato necessario adattare il significato del testo per conservare le idee primarie che questo nascondeva.
Ho incontrato altre difficoltà quando il personaggio di V inizia a parlare in versi, nel III libro, seguito immediatamente da Evey quando indossa i suoi panni. Il testo era in versi sciolti ma fortemente evocativi e allora ho cercato di farmi prendere dal verso italiano, da ciò che ispiravano i concetti di Moore per adattarli alle sonorità della nostra lingua. Ma alla fine, questa è solo una tra le infinità di traduzioni possibili. Una volta salvo il senso profondo del testo, le idee della lingua originale possono diventare mille altre cose, fuochi d’artificio di sonorità prima impensabili.
Quali sono stati i limiti che ti sei autoimposto in questa traduzione? Hai avuto modo di contattare gli autori, Alan Moore e David Lloyd, per risolvere alcuni punti oscuri, oppure hai esclusivamente fatto affidamento sulla tua esperienza e sulle tue ricerche?
I limiti sono stati esclusivamente quelli dettati dal tempo a disposizione e dalla capacità personale. Non ci sono altri limiti, credo, in un lavoro artistico. Per il resto, non è stato particolarmente difficile “interpretare” V for Vendetta e quindi non è stato necessario contattare gli autori per avere delucidazioni.
Nella versione originale, V si esprime utilizzando un metro, il blank verse, caratteristico della tradizione teatrale elisabettiana e dell'epica miltoniana. Altre volte, il personaggio utilizza il senario, verso proprio della satira e della favola, altre ancora l'ottonario, caratteristico della ballata. La traduzione italiana è ovviamente improntata ad una musicalità diversa. Con quali mezzi hai ottenuto l'effetto cercato da Moore?
Non c’è una ricetta precisa. Il principio da cui sono partito è stato quello di provare a rendere nuovamente il significato dei versi con un significante che, per quanto lontano, avesse una sorta di qualità letteraria, o di cui almeno si potesse sentire la matrice poetica. Quindi, partendo dal principio che fuori dall’Inghilterra Shakespeare e Blake sono perduti per sempre, ogni verso originale è diventato quindi un verso italiano. Ma quale verso? La soluzione è sempre quella di utilizzare i versi di cui è intrisa la nostra letteratura e che nella nostra lingua funzionano meglio. Il pentametro giambico, in italiano, costringerebbe a far finire tutti i versi con una vocale accentata, cosa ormai inaccettabile se non nelle peggiori canzonette. La scelta più naturale, quando si tratta di versi regolari, è spesso quella di passare al nostro efficacissimo endecasillabo. Tutto cambia, naturalmente, nel caso di canzonette e valentine, di filastrocche o numeri da musical. Un lavoro particolare insolito e molto divertente è stato quello fatto per la canzone neonazista cantata nel Kabaret “Kitty-Kat Keller”. Secondo la tradizione del musical americano moderno alla Stephen Sondheim, pieno di slanci e riprese e versi irregolari, brevissimi, lunghissimi e spezzettati, ho cercato di riproporre qualcosa del genere in italiano. E allora via a divertirmi con materiale poco usato nelle nostre canzoni, con assonanze, rime interne, allitterazioni e rime fino a quel momento impensabili come:
E quando urlano “heil”
Il mio cuore ha il
Palpito della purezza.
Mi piace la lor dottrina
E la loro disciplina
E il loro enorme senso
Della sfrenatezza.
Quali differenze hai riscontrato tra la prosa di Moore in V for Vendetta e quella degli altri suoi capolavori che tu hai tradotto? Credo che potresti parlarcene per giorni e giorni...
In effetti, è una domanda complessa e forse è il caso di essere sintetici e lapidari. In linea di massima, direi che la prosa che utilizza Moore è sempre la stessa, ma molto sfaccettata. La lingua è sempre quella e, dopo un po’, non è difficile riconoscere i suoi processi logici e mentali, la serie di pensieri che sono alla base della sua scrittura. Quello che cambia è la funzione di ciò che scrive all’interno dell’opera e probabilmente lo spirito del lavoro, le emozioni che portano Moore a scrivere cose tanto diverse. Probabilmente è per questo motivo che i momenti più lirici di V for Vendetta hanno lo stesso “sapore” di certe riflessioni del terzo volume di Miracleman (scritto nello stesso periodo), meditazioni sulla filosofia e sui dubbi dell’esistenza e del libero arbitrio; viceversa, in “Swamp Thing” la prosa serve soprattutto a creare più atmosfera e a “settare” il clima horror, pur riuscendo anche a sfociare nei territori di un reading lisergico, mentre la prosa tersa e dura e nitida di Rorschach in Watchmen racconta un mondo senza più alcuna speranza. In linea di massima, quindi, la prosa di Moore segna la linea di confine tra la funzione e l’emozione. Ma d’altra parte, non è sempre così?
Voice of the Fire e Mirror of Love sono prove di Moore ancora inedite in Italia. Se dovessi immaginarti come loro traduttore quali scelte linguistiche penseresti di adottare? Sto pensando ad esempio al primo capitolo del romanzo Voice of the Fire, dove è di scena per ben 60 pagine il sistema di pensiero di un 'uomo' del Neolitico che possiede un vocabolario di appena 400 parole!
Come ho già accennato prima, non esistono soluzioni pronte, preconfezionate. La prima cosa da fare è immergersi nell’opera, dare inizio a un processo piuttosto spaventoso, che non è quello della traduzione di “Fables”, per esempio, o di fumetti molto più mainstream. E’ un processo creativo e immaginifico in cui, se tutto va bene, cerchi di avvicinarti più che puoi alle idee di un autore in una lingua che sarà perennemente irraggiungibile. Il processo consiste tutto in questo sforzo, in questa tensione verso ciò che non puoi avere. Se “Mirror of Love” è abbastanza semplice (uso però quest’espressione con cautela e solo dopo aver tradotto Promethea n. 12, contenente 500 versi sulla storia dell’universo), “Voice of the Fire” presenta altri problemi. La ventina di racconti da cui è costituito il libro spaziano nei 6000 anni di vita della città di Northampton e ne raccontano la storia attraverso le voci dei suoi abitanti, viaggiatori, ladri, investigatori, assassini, streghe e scrittori di fumetti. Per ciascuno di questi racconti, Moore ha previsto uno stile narrativo e linguistico diverso. Ha potuto fare questo perché la letteratura inglese è avvezza a queste sperimentazioni, grazie alla grande duttilità di una lingua che nel corso dei secoli ha subito un’evoluzione molto più complessa della nostra. L’italiano è rimasto molto intellettuale e cristallizzato, meno duttile, e non premia molto le sperimentazioni troppo affini ai funambolismi leggiadri dell’inglese. Immagino che per tradurre “Voice of the fire” cercherei differenziazioni letterarie, espressioni gergali, magari prese in prestito dalla nostra letteratura, per cercare di collocare temporalmente i vari racconti. Certo il problema di “Hob’s hog”, il primo racconto, è molto più complicato. Cercherei comunque di “smontare” la logica alla base del linguaggio neolitico coniato da Moore (un po’ come è successo con il “ranagariano” di Swamp Thing e con l’“ozu” di Tom Strong) e proverei a ricreare gli stessi processi mentali in italiano, usando il più possibile fonemi staccati, parole poco complesse, unendole per creare parole nuove che sembrino plausibili pur senza essere vere.
Hai tradotto in pratica tutte le storie orbitanti l'universo di Sandman pubblicate in Italia (dai racconti della serie Le terre del sogno fino alle varie miniserie della collana Sandman presenta e alla serie Lucifer) ma, a parte un breve racconto raccolto nel volume Le nuove avventure di Spirit, ti sei cimentato solo di recente con la penna di Gaiman, in occasione dell'edizione italiana del volume celebrativo Notti eterne.
Ti sei trovato subito a tuo agio con la sua prosa? E quali le scelte che hai adottato per rendere al meglio la liricità dei suoi testi?
Gaiman è uno scrittore molto suggestivo. E’ sempre gradevole lasciarsi alla sua scrittura fintamente semplice, che ricorda la quiete delle onde del mare. Sia in Notti Eterne che in Death: il grande momento della tua vita e il bellissimo Mistero celeste (che per un istante si sarebbe potuto intitolare Giallo celeste), credo che l’obiettivo principale sia stato solo quello di ricostruire questa sua armonia. Se Moore è più mercuriale e adamantino, ricco di idee ed energie, Gaiman punta tantissimo sulla suggestione, prendendo parecchio dalla favola e dalla tradizione. Alla fine, non ho fatto altro che provare a restituire questa sua compassata delicatezza nella nostra lingua che, essendo molto posata, ben si presta ai suoi ritmi.
Con la serie Y: l'ultimo uomo suppongo che la tua maggiore preoccupazione sia stata quella di riuscire a mantenere una narrazione fluida e i dialoghi veloci, agili, e freschi della versione made in USA, cercando nel contempo di non far perdere, nei limiti del possibile, le parecchie citazioni con cui Vaughan si diverte ad infarcire i dialoghi dei suoi personaggi. Mi sbaglio?
Non te ne sfugge una! Con Y ho cercato di fare il lavoro opposto a quello fatto con Moore: invece di tradurre tutto il traducibile e cercare di rendere tutti i significati nascosti in un testo, ho dato la priorità alla vivacità dello scambio dei dialoghi e soprattutto all’ironia di Yorick, uno dei punti forti della serie. Ed è un dettaglio molto importante, perché nel personaggio di Yorick confluiscono tutti i punti di vista dei lettori: nella sua tarda adolescenza, nel suo senso di inadeguatezza, nella sua lenta crescita, non è difficile vedere i propri limiti. Dunque, l’ironia di Yorick e il suo gigantesco bagaglio di cultura pop aiutano i lettori ad avvicinarsi al protagonista e alla serie.
Ma l’ironia e le citazioni pop sono talmente tante che in un paio di casi l’adattamento è stato più che forzato: mai ho visto un fumetto affidarsi tanto alla cultura pop americana. E questa è stata una bella gatta da pelare, perché questi continui rimandi, per assurdo, fanno per parte del fascino del personaggio e sarebbe stato un peccato perderli.
Tradurre significa possedere non solo delle indiscutibili competenze linguistiche che riguardano la langue-source, ma avere anche un bagaglio culturale adeguato che affonda le radici nel folklore, nell'etnologia e nella tradizione di una popolo molto diverso dal nostro.
Nel caso di Fables, dello statunitense Willingham, suppongo che le maggiori difficoltà siano state quelle di adattamento di filastrocche, di calembours e dei nomi propri dei personaggi. Che tipo di ricerche hai dovuto condurre e/o a quali compromessi sei arrivato?
Se si dovesse partire con il bagaglio adeguato, non si partirebbe mai. Credo che il trucco sia cercare di capire quali sono gli strumenti da usare strada facendo, a metà del percorso. Nel caso di Fables, quindi, mi limito a cercare di riconoscere i personaggi che Willingham inserisce nella serie. Ma in genere Willingham usa elementi abbastanza semplici e ben conosciuti in inglese (tranne che in paio di casi in cui gli ho dovuto chiedere personalmente delucidazioni) e non è troppo difficile fare qualche ricerca. L’unico elemento che direi che bisogna conoscere bene, però, non ha nulla a che vedere con le fiabe vere e proprie: sono i limerick e le nursery rhyme, le filastrocche di cui pullula la cultura anglosassone.
Quindi, ogni volta che ho trovato il personaggio di una fiaba più o meno nota, è bastato recuperare l’edizione italiana principale di quella storia. Ma se entrava in scena il personaggio di una filastrocca, in genere inedita in italiano, abbiamo necessariamente lasciato il nome originale e ci siamo affidati alle note di Pasquale.
Altre traduzioni e altro autore eccellente: Grant Morrison. Finora ti sei cimentato con le sue opere più datate, quali la metaletteraria Animal Man e la seminale Doom Patrol, e con l'evocativa Mistero di Dio. Di certo hai dato prova di grande duttilità, anche se – credo – non si tratta dei lavori linguisticamente più 'sperimentali' dello scozzese.
Puoi descriverci brevemente le fasi di riscrittura di queste storie e spiegarci quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato?
Morrison è oggi un fiume in piena di idee: non gli interessa tanto il modo in cui dice le cose, quanto la quantità di cose che dice. Il suo desiderio di meravigliare non ha limiti. E’ stato interessante lavorare su cose vecchie come Animal Man e Doom Patrol, più strutturate e ai lati opposti dello spettro del fumetto. Queste due serie nascondono due lati diversi di Morrison. In Animal Man, c’è una bellissima facciata sensibile, emotiva. Morrison si concentra sulla normalità umana dei personaggi, sulla loro emotività, e poi esplode nella metafisica. Animal Man è pieno di momenti davvero toccanti: non è un caso se in fase di lavorazione siamo rimasti tutti commossi dal meraviglioso viaggio nel tempo, in cui Buddy scopre la tragica immutabilità di tutta la sua vita e rivede la sua famiglia e un padre ormai lontano. La cosa più importante è stata cercare trasmettere questa forma di emozione, “sentendo” il più possibile quello che riscrivevo.
Doom Patrol è invece tutto il contrario dell’emotività: è un fuoco di fila di invenzioni e parodia, di ironia strampalata e di nonsense e per assurdo è stato un lavoro che mi ha permesso di tirare fuori qualche carta creativa in più. E’ uno di quei lavori che funzionano meglio se ci metti del tuo. L’idea era quella di far sembrare normale il fluire continuo di assurdità dette dai personaggi e salvare continuamente la loro strana normalità in un mondo paradossale.
Un altro lavoro leggermente più sperimentale è stato NOI3, che ho appena tradotto e che tra non molto uscirà nelle librerie. I tre animali-cibernetici del futuristico progetto NOI3 si esprimono in una strana lingua fatta di abbreviazioni e protosintassi. Il nocciolo del problema è stato quello di ricreare questa protolingua che non tradisse l’originale e che permettesse, nonostante fosse smozzicata e a volte molto scarna, alcuni stralunati momenti poetici.
Ritornando a Moore, uno dei tuoi primi lavori in casa Magic, dopo la parentesi su un volume della serie Hellblazer, è stata la traduzione della sua epocale run sulla serie Swamp Thing.
Un ciclo di storie in cui ti sei trovato a tradurre demoni rimatori che parlano in pentametri giambici, alieni che si esprimono in un idioma ricco di assonanze, passaggi lirici alternati ad altri dai toni decisamente più orrorifici, personaggi dalla parlata tipica del vecchio sud degli USA e "bastardi inglesi". Col senno di poi, eri perfettamente consapevole fin dall'inizio di ciò a cui saresti andato incontro accettando un tale incarico, per di più gravato da tempi di lavorazione ristretti (vista la periodicità bimestrale della rivista) e dalla responsabilità di curare anche le note di ogni episodio? Quanto di quella esperienza ti è servito per le successive traduzioni delle opere di Moore?
Ho sempre amato moltissimo Moore e volevo, volevo davvero tradurre Swamp Thing. Sì, sapevo quali erano tutte le difficoltà che avrei incontrato, ma devo ammettere che all’epoca desideravo affrontarle proprio per il piacere di risolverle. Tradurre quelle pagine era per me un atto d’amore. Mi accorgo ora che proprio le difficoltà che hai citato hanno in qualche modo hanno affinato il mio modo di lavorare. La verità è che si migliora soltanto affrontando cose difficili. E se la palestra che è stato Swamp Thing mi ha dato un’energia incredibile per i lavori successivi, vorrei davvero rimetterci mano adesso per correggere quello che, con il senno del poi, poteva venire meglio.
Ma in realtà, parzialmente già lo faccio: la nuova edizione in volume di Swamp Thing ha una traduzione riveduta e corretta e abbiamo ripristinato alcune nuvolette che erano sfuggite in occasione della versione precedente.
La Lega degli straordinari Gentlemen è un'opera che si fonda su un continuo gioco di rimandi e citazioni. Non fa eccezione l'appendice al volume II, L'Almanacco del Nuovo Viaggiatore, che ripropone i luoghi fantastici di ogni letteratura e ne condensa e aggrega il materiale più disparato con un tono e un linguaggio duttile, cristallino e addirittura cadenzato sui metri della nostra tradizione. Un'opera di scrittura e di pensiero impressionante non solo per i due autori che l'hanno concepita, ma sicuramente anche per ogni traduttore che ci ha dovuto avere a che fare.
Come hai affrontato questa impegnativa traduzione? Hai dovuto documentarti parecchio e optato per un profondo adattamento dell'opera, o hai optato per una traduzione più letterale possibile?
Oddio, che incubo ripensare all’Almanacco del Nuovo Viaggiatore. Più di un migliaio di citazioni sparse là dentro, tutte da verificare e adattare. Ti ringrazio per i complimenti: mi fanno proprio piacere perché il mio tentativo è stato proprio quello di rendere l’Almanacco il più leggibile possibile.
Per tenere fede al concetto di Moore, quello di un mondo interconnesso all’interno della narrativa mondiale, una traduzione letterale non era assolutamente conveniente. Quindi, guidato dalle note di Jess Nevins (purtroppo, non sempre esatte), ho ripercorso le coste iridescenti dell’immaginario mondo della narrativa buttando giù dagli scaffali classici ed enciclopedie e facendo visite allucinate in quell’impero della burocrazia che è la Biblioteca Nazionale. In linea di massima, ho cercato di controllare e adattare tutti i nomi di luogo e di personaggi che compaiono nell’almanacco, secondo questa regola: se l’opera è stata edita in italiano, i nomi si rifanno a quelli dell’edizione italiana (tranne che in un 15% dei casi, in cui non sono riuscito a trovare volumi che pur esistono); se il testo era invece inedito in Italia, ho lavorato con la fantasia e ho adattato il nome, oppure l’ho lasciato in originale (in inglese, o in pseudolatino, o nella lingua in cui era scritto il testo originale).
Quando Moore inseriva aggettivi, frasi e locuzioni tratte da un testo narrativo, ho scelto di utilizzare direttamente i corrispettivi dell’edizione italiana, invece di “tradurre la traduzione” usata da Moore. Un esempio sono le Città immaginarie di Calvino (che in originale erano naturalmente in italiano), oppure tutti i testi classici, come l’Odissea e il Don Chisciotte e così via, in cui ho utilizzato direttamente le bellissime espressioni dei più storici traduttori italiani.
E poi, in tutta questa affascinante e complicata compilazione, mi sono davvero divertito quando, nel secondo capitolo, Prospero fa una lunga descrizione dei luoghi che ha visitato, una parte tutta adattata in endecasillabi: è forse il momento più felice di tutto l’Almanacco, perché la lunga lista dei luoghi (tutti verificati in italiano) diventa ancora più magica in versi.
Purtroppo, va anche detto che il lettore italiano si deve soltanto fidare del lavoro fatto, finché non potrà controllarlo di persona, quando verrà pubblicata un’edizione italiana delle note.
E veniamo finalmente a Promethea, credo tua 'croce e delizia'.
Le difficoltà di traduzione e di adattamento di un'opera simile sono evidentissime. Mi viene ovviamente in mente il magnifico numero 12, ma la serie tutta credo possa annoverarsi come l'opera più difficile con cui tu ti sia mai misurato.
C’è una bellissima battuta in “Parla con lei” di Almodovar. Geraldine Chaplin, parlando della danza, spiega che “Tutto è difficile”. Non hai idea di quanto mi abbia colpito questa battuta. Finalmente trovavo spiegata, lì in bella mostra sul grande schermo, quella sensazione di difficoltà che mi ritrovavo anche a tradurre cose apparentemente molto semplici. La verità è che quando traduci, non c’è davvero un limite al tuo lavoro.
E’ anche vero, però, che ci sono tantissime cose oggettivamente molto complicate da tradurre, perché nascondono rime e altri calembour. Ma spesso sono proprio quelle che danno più soddisfazione. E la Promethea di Moore è tanto bella che è quasi un piacere fermarsi tanto tempo su quelle pagine.
Suppongo che il lavoro di traduzione, per ogni singolo numero di questa serie, cominci con un preliminare lavoro di ricerca. A tale proposito, mi chiedevo se avremo la possibilità di leggere sull'antologico, prima o poi, un articolo di approfondimento sui diversi temi affrontati da Moore nella serie.
Inoltre, mi chiedevo se pensate di proporre al pubblico italiano il numero finale della serie anche in versione poster. Sono sicuro che fareste la felicità di più di un lettore...
Molto difficile rispondere a questa domanda, in questo momento storico. Il futuro è ancora tutto da scrivere.
Hai avuto l'onore (e l'onere) di tradurre per il mercato italiano anche un'altra pietra miliare dei comics. Quel Capire il fumetto, scritto da Scott McCloud, a metà strada tra un trattato sul linguaggio della nona arte e un manuale per imparare a fare fumetti, che tanto ha fatto parlare di sé. Se tradurre, come è stato detto, è il vero modo di leggere un testo, allora cosa puoi dirci su un'opera fondamentale come questa?
McCloud ha fatto un’operazione semplice e geniale: spiegare i fumetti, a fumetti. Un’idea talmente ovvia, talmente “semplice”, che nessuno aveva mai pensato di metterla in pratica. Prima di McCloud, il fumetto veniva spiegato solamente a parole, come se la parola scritta di un saggio convenzionale fosse l’unica in grado di affrancare un mezzo di comunicazione rivolto solo a cerebrolesi. A questo, bisogna forse aggiungere che capita un po’ a tutti noi di essere vittime della cultura più alta e indecifrabile: rispettiamo e ammiriamo ciò che, in qualche modo, ci fa sentire a disagio e inferiori, come un saggio troppo difficile.
McCloud ha fatto tutto il contrario: ci ha fatto sentire a nostro agio e, pacatamente e delicatamente, con amore, ci ha fatto capire qualcosa di più su di un mezzo di comunicazione immediato, dalle potenzialità inesauribili e ancora inesplorate.
Hai tradotto le opere dei più prestigiosi scrittori di comics del Regno Unito, da Ennis a Gaiman, da Delano a Carey, da Veitch a Milligan, da Talbot a Morrison. Sei il traduttore "principe" delle opere di Moore in Italia. Hai tradotto e continui a tradurre alcune tra le serie di maggiore successo di scrittori USA quali Y: l'ultimo uomo e Fables. Ti sei cimentato con la prosa di grandi nomi del comicdom americano quali Chadwick, Wagner, Seagle, Brubaker, McCloud e Baker.
Malgrado questi indubbi punti di arrivo, quali nuovi obiettivi come traduttore ti sei posto? Magari lavorare su un altro autore "da mille" come Miller (visto che la Magic ha annunciato una prossima ristampa di 300), o magari tradurre una delle opere di maggiore spessore della Vertigo non ancora pubblicate in Italia, come il poetico Moonshadow, di De Matteis?
Mi impressiona davvero vedere questa lista che hai fatto. Non mi ero reso conto di niente, lavorando solo a un volume alla volta. E ora che mi ci fai pensare, ti confesso che non ho veri obiettivi come traduttore, se non quello di riuscire a farlo ancora con passione, senza noia, di poter seguire in futuro altri scrittori bravi e confrontarmi con i loro problemi, imparando qualcosa da loro e cercando di mettermi in gioco.
E se in questa turbolenta situazione editoriale italiana una pubblicazione di Moonshadow è ora imprevedibile, per quanto riguarda 300 di Miller, be’, ancora una volta hai fatto centro. Ho finito solo poco tempo fa di tradurlo. E devo dirti che l’ho amato molto. Non ne condivido l’ideologia, ma i toni utilizzati sono talmente caldi che l’impatto dell’opera è forte come un pugno nello stomaco. E devo dire che questo effetto è arrivato anche a Pasquale in fase di supervisione. La cosa più divertente di 300 è stata, sia per me che per Pasquale, riprendere i libri degli storici greci e appassionarci a recuperare tutte le battute che Miller ha tratto da Erodoto e compagnia bella, reintegrandole nel testo là dove possibile, magari secondo le traduzioni più correnti. In questo, la nuova versione dovrebbe risultare più epica e “greca” della precedente, meno figlia del mondo di Sin City. Spero che questo rispecchi di più il mondo in cui si muovono i nostri personaggi.
Hai qualche rimpianto come traduttore? Mi riferisco al fatto di non avere potuto lavorare su opere quali From Hell, Love & Rockets, la serie regolare di Sandman, e soprattutto Watchmen (le cui diverse traduzioni finora lette in Italia hanno fatto discutere, e non poco, gli appassionati del nostro forum…).
Be’, vedo che hai indicato tutto ciò che avrei voluto tradurre: ah, quanto mi piacerebbe avere una seconda occasione e poter lavorare su questi titoli! Mi rendo conto che il tempo speso nella traduzione mi ha permesso di approfondire a sproposito, molto oltre quanto immaginavo, tutti i fumetti che mi sono capitati davanti. Il fumetto è un mezzo di comunicazione strano: è troppo facile scivolare via sulle vignette e girare pagina rapidamente, quando invece le vignette possono contenere mondi interi, tra personaggi, dettagli, sfumature (anche se in troppi casi, non c’è proprio niente da cogliere e una lettura superficiale basta e avanza).
Ammetto la mia colpa: è solo quando sono costretto a spendere più tempo su ogni vignetta che mi rendo conto di quando ci possa essere all’interno di quei pochi segni. Da appassionato, ti dico anche che mi è dispiaciuto non avere avuto l’occasione di tradurre tutti gli altri fumetti che amo, soprattutto quelli della scena indipendente americana e canadese.
Traduttore e scrittore teatrale. Ci sarà spazio in futuro per vederti all'opera come autore di qualche progetto fumettistico?
Fino ad ora ho dedicato il tempo più che altro alla scrittura teatrale e cinematografica, cose strane e gratificanti in cui probabilmente cerco di conciliare tutte le anime e gli stimoli che mi ronzano attorno. Ma il fumetto resta sempre una mia grande passione. Forse a furia di tradurre la roba di Moore o dei più bravi autori inglesi in circolazione, mi sono reso conto di quanto sia complesso questo mezzo di comunicazione, di quante cose si possano fare e di quanto sia difficile farle bene. Un’occasione per mettermi alla prova sarà Detective Dante n. 18, per i tipi della Eura, che gli ottimi Roberto Recchioni e Lorenzo Bartoli hanno pensato di affidarmi. Ci vedremo quindi fra qualche mese su quelle pagine.
Grazie per il tempo che ci hai concesso e auguri per i tuoi progetti futuri!
Grazie a voi per il vostro entusiasmo, ragazzi, e per tutta la vostra passione. A presto!
Carlo Del Grande