Intervista a Giorgio Cavazzano e Tito Faraci
- Scritto da Redazione Comicus
- Pubblicato in Interviste
- dimensione font riduci dimensione font aumenta la dimensione del font
- Stampa
Intervista a cura di Marco Avellone, Gennaro Costanzo, Carlo Del Grande e Marco Rizzo
Ciao Tito, ciao Giorgio, benritrovati sulle pagine di Comicus.it. Iniziamo dalla domanda più scontata: come e quando è nata l'idea di Jungle Town?

banale, del termine). Una storia con un omicidio a Topolinia, per dire, o una in cui ci fosse una seria crisi di coppia fra Paperino e Paperina... In un certo senso, Jungle Town è la risposta. Ma Jungle Town non è né Topolinia né Paperopoli.
Come su un altro splendido noir con animali antropomorfi, Blacksad, avete usato l'appartenenza di animali a determinate specie come sinonimi di "razze". Conosci questa serie? Ti ha influenzato in qualche maniera, se non nell'ideazione, nello sviluppo, in particolare dell'uso delle "razze"?
Non ci ha influenzato in alcun modo. Ho visto il primo libro di Blacksad quando già avevo scritto il progetto di JT. Mi è sembrato ottimo, anzi, È ottimo. Ricordo che mi mi aveva quasi spaventato,
all'inizio. Poi ho capito che c'era una sostanziale, importantissima differenza: in Blacksad gli animali non hanno una forte percezione della propria animalità. Non tanto forte quanto in Jungle Town. La differenza fra razze non è sfruttata a fondo, in modo esplicito, quanto lo è in Jungle Town. Abbiamo fatto scelte molto diverse. Così diverse che, alla fine, il paragone ha meno senso di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Certo, è vagamente inquietante pensare che ho scritto la prima stesura di quella sceneggiatura prima dell'11 settembre 2001...
Sappiamo che Jungle Town era pensato per essere il "pilota" di una serie poi scartata. Se la graphic novel dovesse andare bene, pensate si possano proporre dei sequel, o persino recuperare il concetto della serie?

colorazione, poi, è stata realizzata adesso, per l'occasione.
Singolare esperienza nella vostra carriera è stata la produzione della prima storia italiana di Spider-Man. A qualche anno di distanza che ricordo avete di quel progetto? Siete soddisfatti del vostro lavoro e di come è stato recepito?
Sì, soddisfatti. È andato molto bene, ha venduto tanto, se ne è parlato molto. È stato pubblicato anche in Francia, in un'edizione molto bella. Ci dispiace solo che, per una serie di intoppi, per ora non abbia ancora visto la luce in America. Anche se sappiamo per certo che in Marvel è stato
apprezzato.

Il noir è solo una componente di Jungle Town. Per una volta, in realtà, ho lavorato fuori dai generi. Paradossalmente, Jungle Town è forse la storia più realistica, più inserita in un contesto quotidiano, che io abbia mai scritto.
E a livello di "morale", è un richiamo alla tolleranza e alla cooperazione, per criticare la discriminazione razziale e il pregiudizio?
C'è una riflessione molto più ampia, sullo sfondo. Una riflessione su che cosa significhi, oggi, il concetto di "diversità". E quello di "minoranza". Ho posto dei problemi, anche grossi. Ho cercato anche di mostrarli con un'angolazione non banale, con l'aiuto della metafora. Ma senza la pretesa
di offrire una soluzione.
Su pochi numeri della collana Buenavista Lab sei presente ben due volte. Hai altre graphic novel in cantiere? Magari con ambientazioni e generi che sappiamo amati molto da te, come la fantascienza o i supereroi?
Per il momento, no. Due su quattro mi sembra già abbastanza. Passo la mano.
Ma in futuro, chissà...

Sono molto, molto contento. C'è un'atmosfera di grande serenità e soddisfazione, da parte mia e del mio editore. Brad Barron sta funzionando molto bene. Anche meglio del previsto. Ormai, al decimo numero, non si può certo solo giustificare con l'effetto-novità. Abbiamo lettori molto affezionati, molto calorosi. Me ne rendo conto di continuo. E poi sono davvero tanti. E questo è un fatto. Il resto, solo opinioni.
Giorgio, noto che lo stile su JT è ancora più sintetico del solito, con i colori a modellare le forme. Hai cercato uno stile nuovo appositamente o è un'evoluzione naturale dai tempi dei volumi con Bonvi e proprio de Il Segreto del vetro?
Continua la mia ricerca sul segno, in particolare sulla leggibilità. Che è anche sintesi. Non parlerei di uno stile nuovo.
E come ti sei rapportato al colore?
Molto serenamente. Conoscevo già Luca Bertelè, ne apprezzavo il lavoro. Mi sono sentito tranquillo. Alla fine, comunque, c'è stato un momento in cui ho detto la mia.

Rimane un bel ricordo grande artista, e maestro, che mi ha insegnato molto.
È difficile esprimere certe cose a parole...
Dopo avere disegnato in maniera caricaturale vari personaggi reali, da Stanlio e Onlio a Totò, passando per Vincenzo Mollica, ecc, chi ti andrebbe di immortalare in qualche storia?
A tal proposito, hai mai pensato di cimentarti con la satira?
Ho scelto un percorso diverso, anche se apprezzo molto gente come Altan, per fare solo un esempio. E soprattutto ho amato la squadra di Mad, che mi ha fatto crescere artisticamente. Un altro personaggio da trasformare in fumetto? Mah... ce ne sono troppi. Chiedete a Tito, se ha in mente qualcosa o qualcuno.
Parlando della saga fantasy Dragonlords, come ti sei trovato a lavorare con Byron Erickson?
Una bella esperienza. Byron è una persona squisita, sensibile. È stata un lungo e interessante viaggio, durato tre anni.
Tra i tanti personaggi creati, Disney e non (Reginella, Paperinika, Umperio Bogarto, Oscar & Tango, Altai & Jonson, e tanti altri ancora), a chi ti senti più legato e su quale torneresti a lavorare più volentieri?
Ho una risposta semplice e sincera: io penso solo al domani, e al dopodomani.
Tantissimi sono i ragazzi che cercano di seguire le tue orme nel mondo fumetto, prendendoti a modello. Cosa consigli a un esordiente che vuole lavorare in Disney?
Studiare i maestri, ma senza copiarli. Sembra una strada breve, ma è un percorso che ti fa perdere la strada.
Dai tuoi primi lavori ad ora immagino che il tuo metodo di lavoro sia cambiato. Quanto e come?
No, non direi. Sono sempre lo stesso.
Francesco Farru
