Intervista a Vittorio Giardino
- Scritto da Redazione Comicus
- Pubblicato in Interviste
- dimensione font riduci dimensione font aumenta la dimensione del font
- Stampa
Vittorio Giardino è una di quelle persone che riescono a trasformare qualsiasi cosa in un racconto interessante. E raccontare gli piace davvero molto, questo lo si nota facilmente anche scambiandoci soltanto poche parole. Così, appena giunti nello studio sito nella mansarda della sua abitazione a San Lazzaro di Savena, comune poco distante da Bologna, inizia a mostrarci il suo punto di vista su qualsiasi argomento venga fuori dal discorso. Tanta è la quantità di informazioni che ci offre, anche lontano dal registratore, che ci si potrebbe facilmente realizzarci altre interviste, oltre questa. Per esempio, prima di cominciare a registrare, mi parla delle sue figlie. Oppure mi mostra la sua collezione di pipe, tra cui una realizzata appositamente per lui usando come modello quella di uno dei suoi personaggi più famosi, Max Friedman. Dopo l’intervista, invece, mi svela i segreti del suo laboratorio, mostrandomi oggetti, materiale di documentazione e anche bozzetti. A interessarci, perché inediti, sono soprattutto quelli di Eva Miranda, il suo nuovo progetto. Nel mezzo, una lunga chiacchierata, nella quale si sono toccati gli argomenti più disparati, a cominciare dalla carriera dell’autore, ovviamente.
È risaputo che lei abbia abbandonato la professione di ingegnere per intraprendere quella di fumettista. Oggi una scelta del genere può essere considerata alla stregua di un suicidio, ai tempi in cui l’ha presa lei la situazione era diversa?
No, era esattamente alla stregua di un suicidio. Però io sono stato molto fortunato perché la mia famiglia, se pure esterrefatta, non mi ha ostacolato in modo esplicito. Naturalmente erano tutti molto preoccupati. I miei genitori, ero già sposato e avevo già due figlie piccole. Quindi è stata una decisione presa in un momento e in una situazione in cui era particolarmente pazzesco. Però devo anche dire che grazie alla fortuna, non certo per mio merito, mi è andata bene. Sinceramente non ho nessun rimpianto, sono molto contento di aver fatto questa scelta.
Parlando più nello specifico della sua carriera e facendo una veloce carrellata soprattutto dei suoi primi personaggi, si può forse notare una specie di escalation. Si parte da Sam Pezzo con ambientazioni più urbane, anche se venate dai polizieschi americani, per passare a luoghi esotici, parlando di Max Friedman, e poi chiedere il cerchio con l’oniricità di Little Ego. È stata una cosa inconscia oppure man mano che prendeva atto delle sue capacità cercava di spostare il limite più in avanti?
Bella domanda. Io però sinceramente ho vissuto questo processo in un modo leggermente diverso. Fra l’altro Sam Pezzo non è nemmeno la prima storia in senso assoluto, diciamo che è la prima pubblicata con un certo rilievo. Comunque la prima storia del primo personaggio realizzato con continuità, che era appunto Sam Pezzo, era ambientato nel posto in fondo che conoscevo meglio, cioè la mia città. Quindi per qualche verso era più facile. Però dopo ho sentito l’esigenza di ambientare alcune storie in giro per posti che avevo visto e più lontani. Altre realtà come appunto l’Ungheria o come la Turchia. Direi che invece i luoghi onirici di Little Ego sono quelli più divertenti e più semplici in un certo senso. Non credo che ci sia in sostanza un processo che mi porta dall’uno all’altro in un senso evolutivo. Ci sono dei cambiamenti ma non credo un processo. Tant’è vero che poi ho realizzato altre cose ambientate in altri posti, sono andato avanti e tornato indietro, fuori dell’Italia e ritornando anche in altri posti italiani. Diciamo che l’ambientazione dipende molto dall’argomento della storia. Certamente è chiaro che ambientare una storia nel posto in cui uno vive rappresenta una semplificazione del lavoro.
Che rapporto ha lei con il cinema e la letteratura soprattutto in funzione della produzione delle sue storie a fumetti?
Beh, se la domanda vuol dire se e quali e quante sono le influenze che il cinema e la letteratura hanno avuto sul mio lavoro allora posso rispondere tantissime. Direi sicuramente di più di quanto non abbiano avuto i fumetti, anche se pure i fumetti hanno avuto una grande importanza. Ma la letteratura e il cinema sono per me un nutrimento necessario e anche una grande scuola. Dicendolo in un altro modo, io credo che in realtà le storie che uno scrive devono partire sempre da dentro, da qualcosa che uno ha dentro, e quindi inesorabilmente anche dalle esperienze della propria vita. Ma all’interno delle esperienze della propria vita non ci sono solo quelle reali, vissute in prima persona, ci sono anche quelle più virtuali. Ben prima che esistesse una realtà virtuale, voglio dire, c’era il fatto che alcuni personaggi di romanzi o alcuni persoanggi del cinema ci erano più vicini di persone che poi abbiamo invece realmente incontrato nella vita. Anzi, nel caso specifico mio posso affermare, senza paura di sbagliarmi, che conosco più personaggi che persone. È chiaro che anche quei personaggi sono finiti, spero abbastanza cambiati e mutati da essere irriconoscibili, fra le mie pagine, come spesso ci sono finite le persone che ho conosciuto e che conosco. Naturalmente solamente dei piccoli frammenti. È tutto rimescolato, però questo fa parte in modo stretto della mia vita. In più credo che la letteratura e il cinema siano due strumenti assolutamente indispensabili anche da un punto di vista tecnico per chi vuol disegnare delle storie a fumetti. O meglio, anche qui non voglio proporre regole per nessuno, per me sono assolutamente indispensabili. Se posso dire la mia opinione, io ho sempre detto una sorta di battuta provocatoria, ma a cui credo abbastanza. L’ho detta spesso all’interno di scuole di fumetto, proprio come battuta di apertura quelle rare volte in cui mi hanno inviatato. Ho chiesto se gli allievi della scuola conoscessero Billy Wilder. Di solito la risposta era no, e allora io aggiungevo “voi non potete fare fumetti”. Se uno non conosce Billy Wilder secondo me non può fare fumetti. Credo che sia abbastanza vero. Per fortuna poi nella realtà molto spesso non conoscevano il nome di Billy Wilder ma alcuni almeno qualche film di Billy Wilder l’avevano visto. Ma se uno non avesse mai visto neanche un film di Billy Wilder davvero mi chiedo come sia possibile che possa raccontare una storia, in qualunque modo, fumetti o scrittura o cinema che sia.
Passando a un altro medium, ovvero alla musica, mi sembra che lei, soprattutto in alcune storie, abbia tentato di dare al fumetto un’ulteriore dimensione, quella musicale.
Anche su questo argomento ho detto una cosa anni fa che non smentisco affato, anzi dopo tanti anni ne sono sempre più convinto, e cioè che se c’è una mancaza che io sento nel fumetto non è affatto il movimento, ad esempio rispetto al cinema, ma il sonoro. Dico sonoro a ragion veduta perché non sento la mancanza di un dialogo recitato. Sento la mancanza della musica di fondo, che sia ambientale o che sia effettivamente composta ed eseguita. Ecco, la musica mi manca molto nel fumetto. E tutti i modi finora che io abbia visto, tutti i tentativi per introdurre la musica nei fumetti, sono abbastanza dei pagliativi. Salvo qualche raro caso, ad esempio il mio amico Giancarlo Berardi che ogni tanto mette degli spartiti veri e propri; ma, beato lui, sa leggere gli spartiti perché lui suona anche molto bene e quindi per lui vogliono dire qualcosa di preciso mentre credo che per la maggioranza dei lettori non sia così. Oppure meglio, ma più difficile, certi rari casi di Hugo Pratt dove attraverso la poesia si riusciva a introdurre la musica dentro al fumetto. Quindi il suono delle parole, non dico la rima, ma il suono delle parole in certi pezzettini di Pratt erano veramente quello che più si avvicinava secondo me alla musica. Resta il fatto che la musica ha una potenza di suggestione diversa dalla parola, è da un certo punto di vista più forte. Probabilmente perché ha a che fare con parti del cervello meno controllate. La parola è sempre in qualche modo mediata dalla razionalità, senza la quale è decifrabile, mentre la musica ho l’impressione che vada più a fondo della razionalità e quindi sia davvero, rispetto alla capacità di suscitare emozioni, un mezzo molto potente. Certo, mi manca, anche perché, come del resto la totalità degli autori di fumetti, ho il privilegio di poter lavorare sempre con la musica. Perché, essendo un lavoro solitario, almeno che abbia questo vantaggio di poter lavorare con una colonna sonora costante durante il lavoro. Quindi la musica mi accompagna per tutto il tempo del lavoro e spesso la vorrei mettere dentro a quello che faccio. Ripeto, non è il movimento né il dialogo che mi manca, ma se potessi mettere ogni tanto, che so, il frinire delle cicale in una scena estiva credo che sarebbe bello.
Ma la musica che ascolta in sottofondo durante il lavoro la influenza in qualche modo, per esempio nella composizione della tavola?
Speriamo di no! Sinceramente non lo so. Dico “speriamo di no” perché allora dovrei essere molto più attento nella scelta musicale, mentre devo dire onestamente che sono molto ignorante e poco sistematico in fatto di musica. E anche molto istintivo. Quindi il repertorio che mi interessa è un po’ eterogeneo e spesso ascolto della musica a seconda dell’estro del momento, non pensando affatto alla tavola. Però può anche darsi che le due cose siano in relazione. Vorrei aggiungere, sempre a proposito della colonna sonora delle mie giornate, che sono, o meglio ero, lo sono ancora ma meno, un ascoltatore molto assiduo e fedele di RadioTre. Lo ero perché ho l’impressione che, con le nuove direzioni, i programmi di RadioTre, salvo alcuni capisaldi storici, non siano migliorati. E quindi in questi casi non scelgo io ovviamente il palinsesto, ma è la radio.
Nonostante lei sia un ingegnere, le sue tavole sembrano realizzate da architetto, tanto sono precise!
Io sono ingegnere elettronico. In un certo senso in parte un po’ per caso. Avrei probabilmente voluto fare anche l’architetto. In ogni caso anche nel mio lavoro precedente una certa visione spaziale l’ho sempre avuta e mi ha aiutato spesso. Quello che è certo è che in tutto il mio curriculum scolastico la materia con cui non ho mai avuto dei problemi è sempre stato il disegno, di qualunque forma fosse. Anche perché ho sempre amato disegnare fin da piccolissimo. In quanto alla costruzione delle tavole c’è da dire che è sempre stata subordinata alle necessità della narrazione. Non ha mai privilegiato l’aspetto grafico o estetico, cioè il fare una bella pagina, quanto l’aspetto narrativo, il non ostacolare la lettura ed eventualmente sottilineare alcuni momenti. Gli esempi e i dettagli potrebbero essere tanti e magari non è qui il momento di parlarne, posso però dire, anche perché è una cosa recente e che mi inorgoglisce molto, che il Professor Marcello Aprile che insegna Comunicazione all’Università nel profondo Sud, sta completando un saggio sui miei fumetti che poi adotterà come libro di testo e di cui ho letto delle bozze. Questo libro nasce in realtà dalla tesi di un ragazzo che si è laureato con lui e parla a lungo dell’architettura delle mie tavole, scoprendo delle cose che sono forse anche vere, ma che io non avevo nemmeno coscienza che fossero proprio così. Quindi, voglio dire, si potrebbe parlare effettivamente abbastanza a lungo, però l’elemento fondamentale che riassume tutto il resto è questo: le tavole sono sempre costruite in funzione della lettura e mai dell’immagine.
Passando al suo metodo di lavoro, come nascono le sue storie, partendo dall’idea arrivando fino al prodotto confezionato?
Il procedimento è abbastanza faticoso e direi che è anche spesso a zigzag soprattutto all’inizio. Nel senso che la prima cosa appunto è un’idea, che può nascere da cento sollecitazioni diverse. Però nasce sempre da un’emozione, in sostanza. Diciamo anche che la maggioranza delle idee restano idee, non si trasformano in opere. Per diventare una vera storia c’è bisogno di trovare uno sviluppo poi a questa idea. Quindi c’è bisogno anche di lavorarci su, di trovare una critica. Solamente quando questa idea si sviluppa davvero in una storia a quel punto ci comincio a lavorare sul serio. Quindi cerco di immaginare personaggi, ambienti… Per fare questo mi servo contemporaneamente sia della scrittura che del disegno. Quindi i personaggi nascono sia come dialogo, nascono un po’ come personaggi teatrali, e sia come volto, come disegno. E così i luoghi, e così insomma altre cose. Naturalmente questo procedimento è abbastanza lungo e faticoso e non è che di solito funzioni tutto. Anzi, di solito mi succede che comincio a pensare a una storia e per un tempo più o meno lungo, che può essere però anche di qualche mese, la storia cresce ma ancora non funziona. Cioè ancora è una mia costruzione intellettuale, non ha sua vera autonomia. Sono io che penso alla storia. Poi di solito fino adesso è sempre successo così e speriamo che continui a succedere ancora, perché confesso che non sono in grado di controllare il fenomeno. Di solito succede che arriva un momento in cui la storia va avanti da sola. Diventa davvero una storia e lo diventa malgrado me. Io non faccio altro che trascrivere quello che si sta producendo da sola. Ho nettamente l’impressione di esser uno scrivano che scrive sotto dettatura. Di solito in un tempo a questo punto brevissimo si risolvono tutti i problemi che prima sembravano insolubili. In realtà credo che sia semplicemente una forma di maturazione. Fatto sta che di solito a me succede questo tipo di processo di creazione. Tutto ciò avviene prima di aver disegnato ancora la prima pagina, cioè è tutto un lavoro preparatorio, che naturalmente è fatto anche di documentazione e di letture. Quando questo lavoro preparatorio è finito solo allora finalmente comincio a disegnare. A disegnare sul serio voglio dire, prima sono solo schizzi. E allora quando incomincio a disegnare, di solito il lavoro è già abbastanza definito perché io possa cominciare da pagina uno e andare avanti una pagina alla volta fino alla fine. Naturalmente disegnando prima con la matita, facendo un sacco di correzioni con la gomma. Magari potessi non usare la gomma, mentre probabilmente è lo strumento che uso di più per correggere. Per ogni pagina impiego almeno due o tre pagine di schizzi prima di disegnare la pagina definitiva, quindi un libro di 50 pagine ha facilmente dalle 200 alle 300 pagine di schizzi che lo accompagnano. Poi quando finalmente arrivo all’ultima pagina, se è una storia a colori a quel punto si tratta ancora di lavorarci per il colore, che è un’altra cosa su cui amo lavorare io in prima persona. Alcuni si fanno aiutare ma io trovo che l’espressività del colore è troppo importante perché sia un altro che non sia l’autore a impiegarla. Questo è un po’, schematizzandovi rapidamente, il mio modo di procedere. È un modo di procedere però che fa sì che di solito per produrre un libro normalmente non ci impiego mai meno di un anno e mezzo o due.
Che per i suoi fan è un’eternità.
Ma anche per me è un’eternità. E anche per i miei bilanci non è tanto bello. Mi piacerebbe molto essere più rapido. Diciamo che in Francia è considerato un autore rapido l’autore che è capace di produrre un album all’anno. Però bisogna dire che quelli che sono capaci di farlo, quasi tutti lavorano su sceneggiature altrui, cioè sono solo disegnatori. Io ho provato una volta a fare questo su un racconto breve e ho visto che effettivamente disegnare soltanto è molto più rapido. Effettivamente se io disegnassi solo le mie storie e non le scrivessi anche, e non è, ripeto, solo scriverle, ma è anche fare tutte quelle indagini di cui ho parlato, sarei molto più rapido ma mi divertirei molto di meno, quindi non voglio farlo.
A proposito di Francia, come vive il fatto di essere più famoso lì che in Italia?
Beh, ormai mi sono abituato. All’inizio era un po’ strano, ma adesso sono abbastanza abituato anche se ogni tanto c’è qualche risvolto bizzarro. Tipo qualche lettore italiano che scrive ai miei editori francesi per farsi dare il mio indirizzo in Francia pensando che io abiti lì, perché non sanno e non credono che io possa abitare in Italia. Ormai mi sono abituato ma devo dire che c’è ancora di più, direi che la città dove ho magari più amici, ovviamente, ma dove il mio lavoro ha avuto tutto sommato meno riscontro forse è Bologna, città dove io sono nato e dove ho sempre vissuto. Eppure è una città dove io non ho mai fatto una mostra. Ho fatto mostre in molti paesi, in molte città, anche in Italia, ovviamente, ma a Bologna mai. Del resto non è una mia esclusiva, perché anche un mio grande amico e un grande autore che era Magnus non ha mai fatto una mostra a Bologna. Eppure anche lui era di Bologna, nato e vissuto sempre a Bologna.
Sempre a proposito di Francia, in Italia negli ultimi anni si sta assistendo a una specie di controtendenza, cioè i fumetti che arrivano nelle fumetterie di varia. Negli ultimi anni ci sono stati anche dei piccoli casi editoriali come il Perpepolis di Marjane Satrapi e il Blankets di Craig Thompson. Lei crede che questo possa significare finalmente un avvicinamento alla Francia o che per cause culturali rimarrà limitato in questi confini?
Questo proprio io non lo so. Devo dire che mi sembra che tutto il mondo dell’editoria ai miei occhi risulti piuttosto misterioso. Ad esempio mi risulta abbastanza misterioso, devo dirlo crudelmente, come mai Persepolis abbia avuto un successo così notevole, soprattutto in Italia. Perché è un bel fumetto ma, voglio dire, ci sono altri fumetti altrettanto belli che non l’hanno conosciuto. Nello stesso tempo, per citare un altro caso strano, c’è stato un libro edito da Feltrinelli, un fumetto su testi di Pennac per i disegni di Tardi, Gli Esuberati, che, a quel che mi risulta, venduto chiaramente nelle librerie, con la potenza della distribuzione di Feltrinelli, non è andato affatto bene. Mentre in Francia chiaramente lo stesso libro è stato un grande successo. Dunque è veramente tutto un po’ misterioso, non saprei dire. Mi piacerebbe come sforzo intellettuale cercare di capire queste cose ma nello stesso tempo forse non sono in grado, non ho gli strumenti davvero per poter indagare. Temo che non ce li abbiano in molti, perché se qualcuno scoprisse davvero le regole di questi meccanismi probabilmente li potrebbe ripetere e quindi potrebbe continuare a vendere libri con grande successo mentre non mi pare che sia così. Ogni tanto c’è qualche libro che si vende e che appare. Un altro libro che ha avuto un successo straordinario ad esempio è stato Maus, di Spiegelman, che è un bellissimo libro, intendiamoci bene, però io credo che potrei citare altri 10, forse più, album a fumetti, altrettanto, forse ancora più belli, che però al di fuori di un circolo ristretto… Tanto per fare un altro esempio, un po’ banalotto, immagino che molte più persone abbiano sentito nominare e forse anche conoscono Miles Davis o Chick Corea, e forse un po’ meno hanno sentito nominare John Coltrane o Art Tatum. Allora, perché? Non lo so! Non credo perché Chick Corea sia molto più bravo di John Coltrane, o almeno per me non credo, però chi lo sa? Questa cosa ha ragioni spesso misteriose che non dipendono dalla qualità dell’opera. Anche, e perché no, perché se mai c’è una forma di riprova bisogna aspettare del tempo, e non è passato abbastanza tempo. Detto in un altro modo, lei sa quante furono le copie della prima edizione de Le Fleurs du Mal di Baudelaire? Credo 60, 62 o una cosa del genere, e pagate a spese di Baudelaire. Però 150 anni dopo sono un classico della poesia francese e non solo. Quindi questi conti sono difficili da fare, e oltretutto, se non per un aspetto molto importante che sarebbe quanto guadagno ogni mese, non mi competono, competono molto di più al mio editore.
In alcune interviste che ha rilasciato, ho sentito che lei consiglia gli studi classici agli aspiranti fumettisti, ci spiega il perché?
Beh, io consiglio gli studi classici a chiunque, non solo agli aspiranti fumettisti. Soprattutto a chi ha intenzione poi di avere una carriera scientifica. Per quelli che diventeranno matematici, fisici, ingegneri, biologi, direi che il Liceo Classico è quasi obbligatorio. Anche perché, se non sentiranno parlare di certe cose lì, non le sentiranno più. Il Liceo Classico, non so più come sia oggi, ai miei tempi era una splendida scuola; era nettamente una scuola di lusso, questo è vero, non forniva preparazione professionale immediatamente spendibile, ma forniva delle aperture culturali che per me almeno si sono rivelate molto, molto interessanti. Io sono molto contento di aver fatto il Classico non tanto da punto di vista del lavoro, ma proprio come persona, nel senso che mi ha aperto la mente. Credo che nel bene e nel male questo continui, anche se in forma ridotta, perché io metterei molto più latino e greco di quello si usi oggi mettere. Trovo che lo studio del latino e del greco sia un elemento importante e trovo che sia abbastanza ridicolo che venga incrementato in posti come la Finlandia e venga diminuito in posti come l’Italia che in fondo non fa altro che parlare un dialetto latino.
Uno dei temi più ricorrenti nelle sue storie è l’ebraismo. Diversi suoi personaggi sono di religione ebraica. Qual è il suo rapporto con questa religione?
È un rapporto, rispetto per lo meno alla media dei cittadini italiani, io credo, molto stretto. Anche perché mia moglie è ebrea. Di conseguenza secondo le leggi ebraiche anche le mie figlie sono ebree, perché l’ebraismo si trasmette per via materna. È uno dei pochi casi in cui le donne hanno un ruolo da protagonista, per il resto l’ebraismo è una religione che tende a mortificare le donne ancora più del cristianesimo. D’altra parte, se vogliamo entrare adesso in un argomento che poi nemmeno mi compete, e su cui non ho autorità per parlare, ho l’impressione che si dimentichi spesso che il cristianesimo non è altro che una setta ebraica. Che poi si è sviluppata con grande forza, ma nasce come una setta ebraica e di conseguenza direi che molte cose dell’ebraismo noi le conosciamo senza nemmeno sapere che sono tali. Tante altre invece le ignoriamo. Quello però che più mi interessa, e credo interessi l’argomento di questa domanda, riguarda l’ebraismo nel mio lavoro. Ho già risposto qualche volta a questo quesito dicendo una cosa di cui sono più che convinto, e cioè che, perlomeno nella modernità, un ebreo è stato spesso, suo malgrado, il testimone privilegiato di tutte le difficoltà, di tutte le ingiustizie e purtroppo anche di tutte le stragi che sono avvenute nella storia occidentale. Quindi, se qualcuno vuole raccontare una storia, mostrando anche quanto la grande storia, quella dei grandi avvenimenti che poi si leggeranno in seguito sui libri di scuola, influenza la vita di ciascuno di noi, direi che un personaggio che appartiene all’ebraismo lo mostra in maniera ancora più clamorosa. Questo ruolo di testimonianza, di cui cui credo che gli ebrei farebbero molto volentieri a meno, è cominciato tanto tempo fa ma direi che nel ventesimo secolo è stato tremendo, è arrivato a vertici inimmaginabili. Dunque è per questo che, sia nelle storie che ho ambientato subito prima della Guerra, negli anni ’30, sia nelle storie che ho ambientato subito dopo, quindi negli anni ’50, in entrambi i casi i protagonisti delle mie storie sono ebrei.
Parlando nello specifico di Max Friedman e di Jonas Fink, lei ha manifestato un notevole interesse per la storia. Ma non per la storia di cui si parla più spesso, piuttosto per alcune zone d’ombra che la storia regala, come la Praga comunista o la Guerra Civile Spagnola. Da cosa nasce questo suo interesse?
Direi esattamente da quello che ha detto, cioè dalle zone d’ombra. Anche prima di fare fumetti ero interessato a cercare di far luce proprio negli angoli bui della storia. Non tanto in quegli avvenimenti dimenticati, ma in quegli aspetti dimenticati di quegli avvenimenti che tutti conoscono. Spesso le realtà sono più complicate di quello che può sembrare a prima vista. Una delle cose che io tento sempre di fare nei miei fumetti di ambientazione storica è cercare di capire il punto di vista di tutte le parti in causa. Senza semplificare troppo, c’è spesso la tendenza, almeno a livello divulgativo, direi quasi televisivo, di identificare a volte delle parti storiche con dei ruoli metafisici. Un esempio per tutti: Hitler - il male assoluto; una specie di figura apocalittica al di fuori della storia. Ecco io trovo che questo atteggiamento sia da una parte non corretto dal punto di vista storico. Un po’ sbagliato perché bisognerebbe cercare di capire meglio come e perché sono successe certe cose. E dall’altra anche molto comodo perché ovviamente se noi abbiamo a che fare con una sorta di scherzo della natura cioè “è nato il male assoluto”, tutti gli altri sono assolti. Queste spiegazioni non mi hanno mai soddisfatto.
Sarebbe troppo facile, dunque?
Sì, è troppo facile e secondo me spesso anche ingannevole. Non è un problema solo di facilità, è anche un problema proprio di inganno. Allora io ho sempre cercato di andare a guardare queste cose. In più, ancora, da quando ho cominciato a fare fumetti, ritengo quasi una sorta di mio dovere, di sfruttare la mia posizione di privilegio, nel senso che io appartengo all’Italia ricca occidentale ecc., faccio un mestiere meraviglioso, non ho dei grossi problemi economici, voglio dire, vivo in una sorta di Paradiso, ecco, come minimo tentare di dare voce a quelli che voce non hanno potuto avere. Però contemporaneamente limitarsi a dare voce a quelle situazioni che uno conosce meglio. Voglio dire, sono convintissimo che oggi come oggi ci siano in Africa delle situazioni terrificanti, ma non le conosco. Quindi non mi sento in grado di parlare per loro. Nel caso di Jonas Fink anche non mi sentivo in grado di parlare per loro, però alla fine mi son deciso ugualmente perché ho visto che nessun altro lo faceva. E pure qualcosa insomma bisognava dire e quindi alla fine l’ho detto io. Sono sicuramente sempre stato molto interessato ai grandi momenti della storia e a come i grandi momenti e i grandi movimenti della storia hanno influenza sulle vite di tutti noi, anche sulle vite di quelle persone che la storia non la fanno.
Che rapporto ha con le edizioni straniere dei suoi lavori? Ha un controllo ferreo o si affida ad altri?
Ho un rapporto, in alcuni paesi perlomeno, ormai molto antico. Non me ne ero reso conto, ma è vero, come ha detto una professoressa della Sorbona che ha scritto pure dei saggi su di me, che sono un tipo fedele. È abbastanza vero, mi sono accorto, dopo che lei me lo aveva detto, che ci sono editori con cui ho un rapporto continuato da più di vent’anni. Effettivamente, non è poco. Come ad esempio Glénat in Francia. Spesso quando conosco un editore il rapporto, per fortuna, diventa anche un rapporto personale, diretto, che prosegue nel tempo e fino a oggi non ho mai litigato con un editore. Questi rapporti quando posso li seguo personalmente. Capita però ogni tanto, con qualche paese, con qualche editore con cui i rapporti sono più sporadici, che ci sia un intermediario in mezzo. Ma è un fatto abbastanza eccezionale. Di solito in questo caso i rapporti si limitano a un libro e allora non ci sono mai dal punto di vista umano. Per fare un esempio, hanno pubblicato qualche mese fa un mio libro in cinese, a Taiwan, e questo editore cinese è stato trovato da uno dei miei editori francesi e io non l’ho mai contattato, non l’ho mai visto e presumo che questo rapporto finirà lì. Però non si può mai dire, a volte sono nati dei rapporti che poi sono durati a lungo, nati proprio per caso. Ad esempio ho un editore in Germania, che è un piccolo editore che ho conosciuto quando, da appassionato di fumetti ed editore molto dilettante, decise di mettersi a fare l’editore davvero. Ci siamo conosciuti in quella occasione e ancora lui continua a pubblicare i miei libri. Quindi non c’è una regola generale, però di solito preferisco, se è possibile, guardarli in faccia, i miei editori. Anche perché, aggiungiamolo a togliere un po’ questa atmosfera paradisiaca, in giro nei fumetti ci sono un sacco di truffatori. Quindi bisogna essere cauti, con gli editori, a meno che non siano dei grandissimi editori. Ma a volte anche con i grandi editori.
Le piacerebbe se realizzassero dei film con protagonisti i suoi personaggi?
Vorrei articolarla meglio questa domanda, se posso. O meglio, vorrei articolare meglio la risposta. In realtà me l’hanno già proposto varie volte. Come me l’hanno proposto è stata una grande felicità. Cioè hanno opzionato delle mie storie, non so se è chiaro il termine, hanno preso una sorta di esclusiva nel caso che si realizzasse un film. Queste opzioni vengono pagate. Poco ma vengono pagate. D’altra parte, dal colloquio che ho avuto con questi interlocutori ero certo a priori che mai avrebbero realizzato un film. Perché troppo costoso, troppo complicato, ecc. Quindi sono stato felicissimo di aver guadagnato del denaro ed è stato il denaro più facile della mia vita, perché non ho fatto niente, ho solo firmato un’opzione. Ero certo che non sarei stato coinvolto in un qualche cosa di qualunque genere e quindi i miei rapporti col cinema in particolare fino ad oggi sono andati molto bene. Rispetto a una reale effettiva versione cinematografica dei miei fumetti sarei molto diffidente, perché non credo che sia facile o che sia una buona cosa. Ho l’impressione che in realtà le versioni cinematografiche dei fumetti non abbiano prodotto dei bei film, in generale. Credo anche invece un’altra cosa, che sia un peccato, e non parlo nemmeno tanto per me, quanto davvero per altri colleghi, che il talento di sceneggiatore di alcuni sceneggiatori di fumetti, penso ad esempio ad Alfredo Castelli oppure a Giancarlo Berardi, non venga sfruttato dal cinema. Quello sì è un peccato, perché io credo che queste persone sarebbero capaci di scrivere per il cinema o per la televisione, comunque per lo spettacolo, direi forse meglio di molti che lo fanno professionalmente. Questo è un po’ un peccato perché fra l’altro so che in altri paesi questo avviene, c’è una collaborazione, un’osmosi molto più stretta fra le persone, semplicemente usando il talento ma fin dall’inizio per due mezzi diversi. Quindi una cosa è scrivere un fumetto, una cosa è scrivere una sceneggiatura per il cinema. Ma io credo appunto che ci sarebbe narratori, in Italia, di fumetti che sarebbero in grado di scrivere meravigliose sceneggiature anche per il cinema. È un peccato che il cinema italiano non se ne accorga e non li conosca.
Un altro dei settori in cui lei è molto attivo è quello della cartellonistica. Da cosa nasce questa sua passione e quali sono in questo ambito le sue influenze principali?
Guarda, intanto ti ringrazio molto per questo nome, “cartellonistica”, che credo sia desueto da lustri.
Spero di non aver sbagliato!
No, è perfetto! Perché di solito si dice “pubblicità”, che in effetti è una cosa molto più vasta, “cartellonistica” è una cosa che è molto più precisa. O se preferisci, gli afiches, les afiches. I manifesti, ecco, mi sono sempre piaciuti tantissimo, mi hanno sempre affascinato prima di tutto come spettatore. Naturalmente anche lì ci sono bei manifesti e brutti manifesti, però il problema generale del manifesto è di sintetizzare in un’immagine, che deve avere oltre tutto determinate caratteristiche un po’ speciali, quindi non può essere un’immagine qualunque. Un discorso che a volte è anche abbastanza lungo e complesso. È chiaro che è parente molto stretto della grande pittura. Del resto però storicamente il manifesto come lo conosciamo adesso nasce con le tecniche di stampa. Altro argomento che mi ha sempre affascinato, anche prima di fare fumetti mi sono ogni tanto esercitato, chiaramente da dilettante, con stampe di vario genere, dalle acqueforti alle serigrafie, ecc. Ed è qualcosa che probabilmente soddisfa entrambi i lati della mia natura che è in parte artistica, in parte scientifica, per via di quell’aspetto appuntoingegneristico. Perché effettivamente anche nella stampa, se pure d’arte, l’aspetto tecnico è molto importante, non si può trascurare. Le prime afiches moderne nascono con appunto l’applicazione su larga scala di tecniche o calcografiche o litografiche. Io vidi una mostra bellissima qualche anno fa al museo Maillol a Parigi di alcune matrici di Tolouse-Lautrec, dei suoi manifesti. Con le varie modifiche fatte in corso d’opera, ed era, se vogliamo, una mostra molto tecnica, ma per me assolutamente indimenticabile. Peccato che non ci fosse un catalogo perché l’avrei comprato a qualunque prezzo. Questo solo per dire che l’argomento mi appassiona molto. Purtroppo non sono molto bravo in questo, non sono il primo a riconoscerlo. Ci sono stati artisti dell’afiches enormemente bravi e straordinari. Dudovitch per dirne uno, in anni in cui qualunque messaggio grafico importante era fatto tramite il disegno e non, come oggi, quasi sempre attraverso la fotografia. Per fare un altro nome più attuale, un altro grande artista dei manifesti oggi è secondo me Lorenzo Mattotti, che ha proprio il dono di saper fare afiches come pochi altri, cioè di avere questa sintesi estrema, questa estrema chiarezza dell’immagine. Resta il fatto però che è un campo che mi affascina molto e che spero di poter continuare a frequentare. Purtroppo, o neanche purtroppo, in qualche modo c’è, probabilmente, una ragione per cui fino a oggi ho fatto manifesti praticamente solo per occasioni culturali e non per la pubblicità, cioè non commerciali. Perché quelle poche volte che mi hanno contattato dal campo della pubblicità non ci siamo trovati d’accordo. Un’altra cosa importante per me del manifesto è avere e mantenere la libertà artistica. Nel senso che, se faccio un manifesto sul Mystfest, festival del cinema e del mistero di Cattolica, accetto questo tema, non è che faccio una cosa come pare a me. Però, all’interno di questo ambito voglio essere libero di realizzare quello che pare a me, mentre ho notato che spesso nel campo della pubblicità molti filtri pretendono, a ragione, non ne discuto, di dire la loro proprio sul campo grafico. Quindi fare la pubblicità, che so, a dei biscotti, però quando uno ha creato l’immagine, dopo dicono “no, ma questo qui è fatto male, questo qui potrebbe far pensare che uno ha le mani sporche”, ecc. Questo è un tipo di meccanismo che non mi piace molto. Per fortuna invece in questo campo, finora, tutto quello che mi è capitato mi ha permesso di lavorare in condizioni molto diverse, molto piacevoli. Vorrei aggiungere, come ultimo distinguo, una cosa che spesso è trascurata, e cioè che c’è una grande differenza, che si riflette nel prezzo al consumo, tra un poster, ovvero un manifesto stradale, e una stampa d’arte, ad esempio una serigrafia. Purtroppo molte persone, anche possibili acquirenti, non sanno la differenza tecnica, sostanziale, prima ancora che compositiva, tra queste due cose, che in realtà giustifica pienamente una differenza di prezzo così notevole. Io sono molto contento di avere la possibilità di fare entrambe, cioè sia manifesti da affisione stradale, sia stampe d’arte. D’arte non vuol dire che son belle, vuol dire che son fatte con la stessa tecnica con cui lo fanno anche i grandi artisti. Peccato che di norma il mercato per queste stampe sia più all’estero che in Italia. Però forse sta cominciando anche in Italia, almeno da parte di qualche appassionato, perché ricevo spesso richieste da parte di lettori che mi chiedono come fare per ottenere una certa serigrafia che è uscita a Bruxelles. Di solito gli passo l’indirizzo dell’editore di Bruxelles, però ho notato che anche in Italia sta cominciando a essere apprezzata un pochettino questa forma. Anche perché, a tutt’oggi, le serigrafie, le litografie, ecc. d’arte degli autori di fumetti hanno dei prezzi incredibilmente più bassi, pur essendo cari, delle equivalenti stampe degli artisti con la A maiuscola. E mi posso presuntuosamente permettere di dire, ma assolutamente non parlo di me, anzi per niente davvero, che ci sono degli artisti dei fumetti che secondo me non hanno niente da invidiare dal punto di vista grafico agli artisti con la A maiuscola. Per fare due o tre nomi, tanto per spararli subito, uno ad esempio è Lorenzo Mattotti, ma anche Jacques Tardi… Daniel Torres… Ce ne sono tanti che secondo me sono straordinariamente bravi.
Quale sarà il prossimo lavoro che pubblicherà?
Dovrebbe uscire in ottobre il prossimo libro, che si chiama Eva Miranda e che è qualcosa di completamente nuovo, anche perché è un libro che ho disegnato su sceneggiatura di Giovanni Barbieri, giovane sceneggiatore cesenate di, secondo me, grande talento, diventato papà qualche giorno fa. Questo per dire che è molto più giovane di me. Ha scritto questa sceneggiatura, secondo me molto bella e divertente, su mia sollecitazione, di una soap opera a fumetti. Naturalmente, poi, siccome i tempi di realizzazione dei fumetti sono quelli che sono, e i miei in particolare sono particolarmente lunghi, il libro uscirà quando le soap opera cominceranno già a declinare, non saranno più d’attualità. Questo per dire di quanto io abbia poca fiducia in generale e comunque io personalmente sia poco capace di fare del fumetto giornalistico alla Joe Sacco, per intenderci. Dunque, uscirà a ottobre per le Edizioni Lizard, in Italia. Non lo faremo, naturalmente, ma assieme a quello vorrei fare tante piccole altre cose. Che non faremo perché nessuno me li produrrà, ma potrebbe essere divertente, dato che questo è il primo fumetto che abbia anche delle pubblicità all’interno. Ovviamente ha degli spot pubblicitari, trattandosi di una soap opera. Mi sarebbe piaciuto anche produrre gli oggetti di cui si parla nelle pubblicità. Una sorta di Cacao Meravigliao per quelli che si ricordano ancora qella geniale invenzione di Renzo Arbore. Naturalmente non lo faremo, spero però di poter fare magari qualche piccola stampa o afiches, perché mi diverte. Comunque questo libro divertente è finito già da un po’ di tempo e quindi uscirà in ottobre ma per me fa parte già del passato, ovviamente. Mentre il libro che fa parte del presente rispetto al lavoro è la fine della storia di Freidman in Spagna, No Pasaran. Libro su cui sono al lavoro adesso se pure faticosamente, tanto per cambiare, ma che spero proprio di riuscire a terminare entro l’anno prossimo, perché mi piacerebbe che riuscisse a uscire l’anno prossimo visto che nel 2006 faranno 70 anni dell’inizio della Guerra Civile Spagnola. Dunque chiudere questa storia sfruttando l’anniversario, visto quello che si usa oggi, potrebbe essere interessante. Soprattutto in realtà per il mio editore spagnolo. Se fosse quest’anno oppure nel 2007 sarebbe esattamente la stessa cosa, però il mio editore spagnolo ci terrebbe e io spero di riuscire a farcela.
Tornando a Eva Miranda… è un’opera in volume unico o in più volumi?
Eva Miranda è un volume secco di 46 pagine ma, come tutte le telenovelas che si rispettano, solo che qualcuno ce lo pagasse, siamo d’accordo con Giovanni Barbieri che potremmo anche produrne altri 140 di volumi. Perché si tratta di una storia che potrebbe non finire mai. Naturalmente è una storia di nessun interesse, per me. Nel senso che sono affari privati di famiglie, una povera e una ricca, ovviamente, con un amore contrastato. I soliti argomenti topici per cui il mio interesse personale è solamente ironico, ma anche, se possibile, per fare un po’ di ironia sul linguaggio televisivo. La potenza della televisione come linguaggio è qualcosa che non cessa di stupirmi a ogni istante e quindi direi che uno dei bersagli veramente da preferire, credo, per chiunque voglia fare un pochino di ironia, non può non essere la televisione. La televisione in sé, non tanto la sua applicazione grottesca che c’è in Italia che è già talmente ironica da sola che mi sembra pazzesco farci addirittura dell’ironia sopra. No, la televisione come linguaggio. È la sua persuasione rispetto allo spettatore medio che non sfugge a un inganno anche se questo inganno lo conosce. È un argomento che mi interessa questo, perché, lo so che è molto banale, ma non per questo meno vero, ho l’impressione che le soap opera nel gradimento popolare siano state sostituite dai cosiddetti reality show. Che sono in qualche modo gli eredi, in fondo, di quella passione di farsi i fatti altrui, fondamentalmente. Ora, i reality show sono basati su un meccanismo che, appena appena un po’ più sottile, funziona anche nel telegiornale. E funziona, con mia grande sorpresa. Cioè la stragrande maggioranza di chi guarda la televisione ha l’impressione di stare guardando un avvenimento reale, nel momento in cui succede o tutt’al più in differita. È successo qualche tempo fa ma io lo sto guardando registrato come se lo guardassi con i miei occhi. Dunque, ad esempio, ci può essere una scena in cui, non lo so perché io non ho mai visto dei reality show perché mi annoiano moltisismo, ma li ho solo sfiorati attraverso degli zapping fra un canale e l’altro, mi pareva che mostrassero scene drammatiche ad esempio di persone abbandonate su un’isola deserta e costrette a fare di tutto per sopravvivere, anche cose che non erano abiutati a fare normalmente nella vita reale. E questo mostrato alla tv e visto dagli spettatori nella convinzione ingenua di stare vedendo con i nostri occhi, come se fossimo fatti di etere e fossimo invisibilmente presenti, quella scena che si svolgeva in un luogo reale. Senza pensare che, se noi vediamo qualche cosa sullo schermo televisivo, dietro c’è una telecamera. Dall’altra parte della scena c’è una telecamera. E se la qualità tecnica è un minimo decente non c’è solo la telecamera ma c’è un tecnico del suono per la presa sonora, ci sono dei tecnici delle luci, c’è addirittura probabilmente un regista. Io ho fatto qualche rara intervista televisiva e ho visto quale macchina di attrezzature e di persone è necessario per realizzare la cosa più semplice. Questo semplice ragionamento dovrebbe convincere gli spettatori che stanno vedendo, sempre e inesorabilmente, anche quando guardano delle riprese al telegiornale, uno spettacolo, non stanno mai guardando la realtà. La televisione non può mostrare la realtà per definizione. Perché tecnicamente ne è incapace. Non si può trasmettere la realtà. È sempre uno spettacolo. Questa cosa che è abbastanza evidente, cioè di immaginare che qualunque trasmissione noi vediamo ha dall’altra parte una troupe che l’ha registrata, trasmessa, ecc., questa osservazione non la fa mai nessuno. Si guarda quello schermo come se fosse il nostro occhio che vede quella scena. Questo potere fortissimo che la televisione ha, e che ad esempio non ha il cinema, perché nessuno è convinto andando al cinema di stare guardando qualcosa di realmente accaduto, è qualcosa che mi affascina molto e che mi spinge a occuparmi proprio di questo tipo di rapporto. Che non è nuovo, il cinema americano ad esempio l’ha trattato in un modo piuttosto bello, vorrei ricordare fra tutti un film dal titolo infelicissimo italiano, che è Sesso e potere e che è una straordinaria storia di televisione. Ma anche Tootsie, ce ne sono tante di cose di questo genere. Credo che l’argomento ancora offrirà notevoli materiali su cui lavorare e su cui riflettere. Anche perché è molto chiaro questo punto, ovvero che c’è un unico, vero mezzo di comunicazione di massa, ed è la televisione. Tutti gli altri sono mezzi di comunicazione sicuramente, ma non di massa.
L’ultima domanda esula un po’ dall’argomento fumetti. Lei un anno fa si è impegnato nella campagna elettorale dell’attuale sindaco di Bologna Sergio Cofferati, con una bella mostra intitolata Bologna capitale (del fumetto). A un anno di distanza qual è ancora il suo impegno e la sua opinione su questo primo anno di mandato di Cofferati?
Oh, bella domanda che mi da proprio la possibilità di entrare in una polemica molto attuale, perché Cofferati al momento è messo sotto accusa da molte parti. Io non sono affatto pentito di averlo sostenuto. E questo lo dico perché, ad esempio su quest’ultima battaglia, questo discorso sulla legalità (ci sono state recentemente aspre polemiche all’interno della maggioranza di governo in seguito all’arresto di alcune persone ree di aver occupato abusivamente degli appartamente sfitti. N.d.R.), io sono convinto e non da oggi, già da molto tempo, che uno dei grossi difetti dell’Italia come paese sia proprio la mancanza di legalità che produce disuguaglianza e ingiustizia. Non siamo in un paese iper-legale, dico per dire la Svizzera, anche se poi non è così vero, dove un’eventuale battaglia contro certi aspetti della legalità potrebbe avere un effetto effettivamente di libertà o delle ragioni comunque molto giustificate. No, io ho l’impressione che in Italia la mancanza di rispetto della legalità abbia fondamentalmente favorito proprio i detentori del potere e che al rovescio un rispetto più rigoroso della legalità ridurrebbe il loro potere. Quindi sono assolutamente solidale con la battaglia di Cofferati sia in assoluto sia nello specifico del discorso, non tanto occupazioni che non conosco, ma sicuramente conosco un po’ meglio la situazione di Piazza Verdi (nota piazzetta al centro della zona universitaria bolognese; il discorso di Giardino è legato a un’ordinanza del Consiglio Comunale di Bologna che vieta il consumo di bevande alcoliche al di fuori dei locali dopo le 21. N.d.R.) e dintorni anche perché io ho abitato in via Giuseppe Petroni in altri anni e devo dire che oggi via Petroni, per un abitante normale, è diventata una strada difficile, veramente difficile. Allora qui si tratta di creare delle condizioni di convivenza fra esigenze diverse arrivando a una forma di compromesso perché le esigenze sono intrinsecamente diverse e non conciliabili con un atto di forza, assolutamente. Ora, io non credo che siano gli abitanti originari a non volere compromessi. Resta il fatto che io non ho mai avuto né voglio avere né credo avrò mai delle tessere di partito o anche di qualunque organizzazione politica schierata, perché non mi sembra compatibile col mestiere che faccio. Però ci sono casi in cui credo che addirittura un intellettuale, usiamo parole screditate ormai scioccamente, secondo me è bene che si schieri. L’ultima elezione del sindaco di Bologna era di una quelle occasioni. Comunque io l’ho fatto e non ne sono pentito. E rispetto all’operato di Cofferati fino ad oggi credo che lo rifarei, anche se non posso negare che ci sono ancora aspetti della sua gestione del Comune che possono sembrare anche a me leggermente carenti, ma in fondo è solo un anno, non è poi così tanto tempo. Mi sembra che abbia speso del tempo per guardarsi attorno, non credo che l’abbia buttato dalla finestra. Quindi per esprimere un giudizio complessivo aspetterei ancora, però, anche soprattutto rispetto a questi ultimi avvenimenti, trovo che abbia, e questo credo che tutti debbano riconoscerglielo, anche i suoi avversari, certamente il merito della coerenza, dell’onesta, e del mantenimento delle promesse. Finora ha fatto esattamente quello che aveva promesso anche quando questo poteva costargli in popolarità e trovo che questa sia già una novità che per l’Italia è piuttosto rivoluzionaria. Quindi, personalmente, ha il mio sostegno ancora oggi. Poi per la politica culturale in generale, che è quella che mi riguarda più da vicino, e le eventuali iniziative che possa prendere il Comune riguardo al fumetto, ci sarà tempo per pensarci e non credo nemmeno che siano le urgenze più drammatiche che questa città sta vivendo. Sono cose importanti ma ci sarà tempo anche per questo e confesso che ho fiducia in lui anche per questi aspetti. Sono convinto che verranno anche i momenti buoni per questi aspetti.
È tutto, la ringrazio per la disponibilità.
Ma figuarati, grazie a voi. Tutto questo va a finire su internet?
Sì.
Ecco, un’altra delle cose che, in maniera assolutamente astratta e teorica, vorrei lanciare là. Internet è basato anche sulle telecomunicazioni, ovviamente. Man mano che aumentano gli scambi di informazione e gli utenti di internet, aumenta la quantità di informazione che deve viaggiare in quella che una volta si chiamava etere. Comunqe deve viaggiare attraverso trasmissioni radio. Mi chiedo se non arriveremo un giorno, presto, e se non fosse il caso di porsi dei problemi già ora prima di arrivarci affogati, a una situazione simile a quella che riguarda l’etere, per restare a quest’antica parola, della radio che in Italia ha fatto sì che non si riesce più a sentire una radio al di fuori delle immediate vicinanze. Cioè c’è una tale sovrabbondanza di offerta di emittenti radiofoniche per cui è veramente difficile inserirsi. Naturalmente moltissime di queste radio, la maggior parte come numero, sono radio assolutamente prive di senso. Nel senso che sono spesso iniziative estemporanee che nascono, muoiono e sono fatte per un contratto pubblicitario, tanto per intenderci. Costa poco metterle su. Oggi sembra che le risorse di comunicazione via internet siano praticamente inesauribili per cui si riempie internet di tutto. Io non so come fare, perché condivido credo con tutti, l’esperienza tremenda che quando scarico la posta appena mi collego ricevo una valanga di lettere indesirate, di tipo pubblicitario sostanzialmente. Questo è un altro problemino interessante, l’etere non è infinito, quindi sarebbe bene, ad esempio, questa intervista poterla mettere su internet benissimo, ma toglierla presto, fare spazio a qualcos altro. Cioè riservare a internet le cose davvero preziose, cominciare a non sbatterci tutto tanto costa poco ma cominciare a fare dei conti proprio sull’occupazione delle onde elettromagnetiche. Da ex ingegnere elettronico, che si è occupato a suo tempo anche di onde elettromagnetiche, è un appello che lancio. È molto presto, credo che ci vorrà molto tempo prima di arrivare alla saturazione, ma naturalmente l’universo, almeno quello umanamente disponibile, è sicuramente limitato e quindi alla saturazione ci si arriva, prima o poi. Vabbè, grazie mille.
Intervista realizzata da Andrea Antonazzo tra il 24 maggio e il 30 giugno 2005.
In ordine sparso si ringraziano, per l’indispensabile contributo nella realizzazione di questa intervista, Andrea Plazzi, i ragazzi della libreria Modo Infoshop di Bologna, Margherita Aina e RadioCittàFujiko 103.100 di Bologna.
Andrea Antonazzo
È risaputo che lei abbia abbandonato la professione di ingegnere per intraprendere quella di fumettista. Oggi una scelta del genere può essere considerata alla stregua di un suicidio, ai tempi in cui l’ha presa lei la situazione era diversa?
No, era esattamente alla stregua di un suicidio. Però io sono stato molto fortunato perché la mia famiglia, se pure esterrefatta, non mi ha ostacolato in modo esplicito. Naturalmente erano tutti molto preoccupati. I miei genitori, ero già sposato e avevo già due figlie piccole. Quindi è stata una decisione presa in un momento e in una situazione in cui era particolarmente pazzesco. Però devo anche dire che grazie alla fortuna, non certo per mio merito, mi è andata bene. Sinceramente non ho nessun rimpianto, sono molto contento di aver fatto questa scelta.
Parlando più nello specifico della sua carriera e facendo una veloce carrellata soprattutto dei suoi primi personaggi, si può forse notare una specie di escalation. Si parte da Sam Pezzo con ambientazioni più urbane, anche se venate dai polizieschi americani, per passare a luoghi esotici, parlando di Max Friedman, e poi chiedere il cerchio con l’oniricità di Little Ego. È stata una cosa inconscia oppure man mano che prendeva atto delle sue capacità cercava di spostare il limite più in avanti?
Bella domanda. Io però sinceramente ho vissuto questo processo in un modo leggermente diverso. Fra l’altro Sam Pezzo non è nemmeno la prima storia in senso assoluto, diciamo che è la prima pubblicata con un certo rilievo. Comunque la prima storia del primo personaggio realizzato con continuità, che era appunto Sam Pezzo, era ambientato nel posto in fondo che conoscevo meglio, cioè la mia città. Quindi per qualche verso era più facile. Però dopo ho sentito l’esigenza di ambientare alcune storie in giro per posti che avevo visto e più lontani. Altre realtà come appunto l’Ungheria o come la Turchia. Direi che invece i luoghi onirici di Little Ego sono quelli più divertenti e più semplici in un certo senso. Non credo che ci sia in sostanza un processo che mi porta dall’uno all’altro in un senso evolutivo. Ci sono dei cambiamenti ma non credo un processo. Tant’è vero che poi ho realizzato altre cose ambientate in altri posti, sono andato avanti e tornato indietro, fuori dell’Italia e ritornando anche in altri posti italiani. Diciamo che l’ambientazione dipende molto dall’argomento della storia. Certamente è chiaro che ambientare una storia nel posto in cui uno vive rappresenta una semplificazione del lavoro.
Che rapporto ha lei con il cinema e la letteratura soprattutto in funzione della produzione delle sue storie a fumetti?
Beh, se la domanda vuol dire se e quali e quante sono le influenze che il cinema e la letteratura hanno avuto sul mio lavoro allora posso rispondere tantissime. Direi sicuramente di più di quanto non abbiano avuto i fumetti, anche se pure i fumetti hanno avuto una grande importanza. Ma la letteratura e il cinema sono per me un nutrimento necessario e anche una grande scuola. Dicendolo in un altro modo, io credo che in realtà le storie che uno scrive devono partire sempre da dentro, da qualcosa che uno ha dentro, e quindi inesorabilmente anche dalle esperienze della propria vita. Ma all’interno delle esperienze della propria vita non ci sono solo quelle reali, vissute in prima persona, ci sono anche quelle più virtuali. Ben prima che esistesse una realtà virtuale, voglio dire, c’era il fatto che alcuni personaggi di romanzi o alcuni persoanggi del cinema ci erano più vicini di persone che poi abbiamo invece realmente incontrato nella vita. Anzi, nel caso specifico mio posso affermare, senza paura di sbagliarmi, che conosco più personaggi che persone. È chiaro che anche quei personaggi sono finiti, spero abbastanza cambiati e mutati da essere irriconoscibili, fra le mie pagine, come spesso ci sono finite le persone che ho conosciuto e che conosco. Naturalmente solamente dei piccoli frammenti. È tutto rimescolato, però questo fa parte in modo stretto della mia vita. In più credo che la letteratura e il cinema siano due strumenti assolutamente indispensabili anche da un punto di vista tecnico per chi vuol disegnare delle storie a fumetti. O meglio, anche qui non voglio proporre regole per nessuno, per me sono assolutamente indispensabili. Se posso dire la mia opinione, io ho sempre detto una sorta di battuta provocatoria, ma a cui credo abbastanza. L’ho detta spesso all’interno di scuole di fumetto, proprio come battuta di apertura quelle rare volte in cui mi hanno inviatato. Ho chiesto se gli allievi della scuola conoscessero Billy Wilder. Di solito la risposta era no, e allora io aggiungevo “voi non potete fare fumetti”. Se uno non conosce Billy Wilder secondo me non può fare fumetti. Credo che sia abbastanza vero. Per fortuna poi nella realtà molto spesso non conoscevano il nome di Billy Wilder ma alcuni almeno qualche film di Billy Wilder l’avevano visto. Ma se uno non avesse mai visto neanche un film di Billy Wilder davvero mi chiedo come sia possibile che possa raccontare una storia, in qualunque modo, fumetti o scrittura o cinema che sia.
Passando a un altro medium, ovvero alla musica, mi sembra che lei, soprattutto in alcune storie, abbia tentato di dare al fumetto un’ulteriore dimensione, quella musicale.
Anche su questo argomento ho detto una cosa anni fa che non smentisco affato, anzi dopo tanti anni ne sono sempre più convinto, e cioè che se c’è una mancaza che io sento nel fumetto non è affatto il movimento, ad esempio rispetto al cinema, ma il sonoro. Dico sonoro a ragion veduta perché non sento la mancanza di un dialogo recitato. Sento la mancanza della musica di fondo, che sia ambientale o che sia effettivamente composta ed eseguita. Ecco, la musica mi manca molto nel fumetto. E tutti i modi finora che io abbia visto, tutti i tentativi per introdurre la musica nei fumetti, sono abbastanza dei pagliativi. Salvo qualche raro caso, ad esempio il mio amico Giancarlo Berardi che ogni tanto mette degli spartiti veri e propri; ma, beato lui, sa leggere gli spartiti perché lui suona anche molto bene e quindi per lui vogliono dire qualcosa di preciso mentre credo che per la maggioranza dei lettori non sia così. Oppure meglio, ma più difficile, certi rari casi di Hugo Pratt dove attraverso la poesia si riusciva a introdurre la musica dentro al fumetto. Quindi il suono delle parole, non dico la rima, ma il suono delle parole in certi pezzettini di Pratt erano veramente quello che più si avvicinava secondo me alla musica. Resta il fatto che la musica ha una potenza di suggestione diversa dalla parola, è da un certo punto di vista più forte. Probabilmente perché ha a che fare con parti del cervello meno controllate. La parola è sempre in qualche modo mediata dalla razionalità, senza la quale è decifrabile, mentre la musica ho l’impressione che vada più a fondo della razionalità e quindi sia davvero, rispetto alla capacità di suscitare emozioni, un mezzo molto potente. Certo, mi manca, anche perché, come del resto la totalità degli autori di fumetti, ho il privilegio di poter lavorare sempre con la musica. Perché, essendo un lavoro solitario, almeno che abbia questo vantaggio di poter lavorare con una colonna sonora costante durante il lavoro. Quindi la musica mi accompagna per tutto il tempo del lavoro e spesso la vorrei mettere dentro a quello che faccio. Ripeto, non è il movimento né il dialogo che mi manca, ma se potessi mettere ogni tanto, che so, il frinire delle cicale in una scena estiva credo che sarebbe bello.
Ma la musica che ascolta in sottofondo durante il lavoro la influenza in qualche modo, per esempio nella composizione della tavola?
Speriamo di no! Sinceramente non lo so. Dico “speriamo di no” perché allora dovrei essere molto più attento nella scelta musicale, mentre devo dire onestamente che sono molto ignorante e poco sistematico in fatto di musica. E anche molto istintivo. Quindi il repertorio che mi interessa è un po’ eterogeneo e spesso ascolto della musica a seconda dell’estro del momento, non pensando affatto alla tavola. Però può anche darsi che le due cose siano in relazione. Vorrei aggiungere, sempre a proposito della colonna sonora delle mie giornate, che sono, o meglio ero, lo sono ancora ma meno, un ascoltatore molto assiduo e fedele di RadioTre. Lo ero perché ho l’impressione che, con le nuove direzioni, i programmi di RadioTre, salvo alcuni capisaldi storici, non siano migliorati. E quindi in questi casi non scelgo io ovviamente il palinsesto, ma è la radio.
Nonostante lei sia un ingegnere, le sue tavole sembrano realizzate da architetto, tanto sono precise!
Io sono ingegnere elettronico. In un certo senso in parte un po’ per caso. Avrei probabilmente voluto fare anche l’architetto. In ogni caso anche nel mio lavoro precedente una certa visione spaziale l’ho sempre avuta e mi ha aiutato spesso. Quello che è certo è che in tutto il mio curriculum scolastico la materia con cui non ho mai avuto dei problemi è sempre stato il disegno, di qualunque forma fosse. Anche perché ho sempre amato disegnare fin da piccolissimo. In quanto alla costruzione delle tavole c’è da dire che è sempre stata subordinata alle necessità della narrazione. Non ha mai privilegiato l’aspetto grafico o estetico, cioè il fare una bella pagina, quanto l’aspetto narrativo, il non ostacolare la lettura ed eventualmente sottilineare alcuni momenti. Gli esempi e i dettagli potrebbero essere tanti e magari non è qui il momento di parlarne, posso però dire, anche perché è una cosa recente e che mi inorgoglisce molto, che il Professor Marcello Aprile che insegna Comunicazione all’Università nel profondo Sud, sta completando un saggio sui miei fumetti che poi adotterà come libro di testo e di cui ho letto delle bozze. Questo libro nasce in realtà dalla tesi di un ragazzo che si è laureato con lui e parla a lungo dell’architettura delle mie tavole, scoprendo delle cose che sono forse anche vere, ma che io non avevo nemmeno coscienza che fossero proprio così. Quindi, voglio dire, si potrebbe parlare effettivamente abbastanza a lungo, però l’elemento fondamentale che riassume tutto il resto è questo: le tavole sono sempre costruite in funzione della lettura e mai dell’immagine.
Passando al suo metodo di lavoro, come nascono le sue storie, partendo dall’idea arrivando fino al prodotto confezionato?
Il procedimento è abbastanza faticoso e direi che è anche spesso a zigzag soprattutto all’inizio. Nel senso che la prima cosa appunto è un’idea, che può nascere da cento sollecitazioni diverse. Però nasce sempre da un’emozione, in sostanza. Diciamo anche che la maggioranza delle idee restano idee, non si trasformano in opere. Per diventare una vera storia c’è bisogno di trovare uno sviluppo poi a questa idea. Quindi c’è bisogno anche di lavorarci su, di trovare una critica. Solamente quando questa idea si sviluppa davvero in una storia a quel punto ci comincio a lavorare sul serio. Quindi cerco di immaginare personaggi, ambienti… Per fare questo mi servo contemporaneamente sia della scrittura che del disegno. Quindi i personaggi nascono sia come dialogo, nascono un po’ come personaggi teatrali, e sia come volto, come disegno. E così i luoghi, e così insomma altre cose. Naturalmente questo procedimento è abbastanza lungo e faticoso e non è che di solito funzioni tutto. Anzi, di solito mi succede che comincio a pensare a una storia e per un tempo più o meno lungo, che può essere però anche di qualche mese, la storia cresce ma ancora non funziona. Cioè ancora è una mia costruzione intellettuale, non ha sua vera autonomia. Sono io che penso alla storia. Poi di solito fino adesso è sempre successo così e speriamo che continui a succedere ancora, perché confesso che non sono in grado di controllare il fenomeno. Di solito succede che arriva un momento in cui la storia va avanti da sola. Diventa davvero una storia e lo diventa malgrado me. Io non faccio altro che trascrivere quello che si sta producendo da sola. Ho nettamente l’impressione di esser uno scrivano che scrive sotto dettatura. Di solito in un tempo a questo punto brevissimo si risolvono tutti i problemi che prima sembravano insolubili. In realtà credo che sia semplicemente una forma di maturazione. Fatto sta che di solito a me succede questo tipo di processo di creazione. Tutto ciò avviene prima di aver disegnato ancora la prima pagina, cioè è tutto un lavoro preparatorio, che naturalmente è fatto anche di documentazione e di letture. Quando questo lavoro preparatorio è finito solo allora finalmente comincio a disegnare. A disegnare sul serio voglio dire, prima sono solo schizzi. E allora quando incomincio a disegnare, di solito il lavoro è già abbastanza definito perché io possa cominciare da pagina uno e andare avanti una pagina alla volta fino alla fine. Naturalmente disegnando prima con la matita, facendo un sacco di correzioni con la gomma. Magari potessi non usare la gomma, mentre probabilmente è lo strumento che uso di più per correggere. Per ogni pagina impiego almeno due o tre pagine di schizzi prima di disegnare la pagina definitiva, quindi un libro di 50 pagine ha facilmente dalle 200 alle 300 pagine di schizzi che lo accompagnano. Poi quando finalmente arrivo all’ultima pagina, se è una storia a colori a quel punto si tratta ancora di lavorarci per il colore, che è un’altra cosa su cui amo lavorare io in prima persona. Alcuni si fanno aiutare ma io trovo che l’espressività del colore è troppo importante perché sia un altro che non sia l’autore a impiegarla. Questo è un po’, schematizzandovi rapidamente, il mio modo di procedere. È un modo di procedere però che fa sì che di solito per produrre un libro normalmente non ci impiego mai meno di un anno e mezzo o due.
Che per i suoi fan è un’eternità.
Ma anche per me è un’eternità. E anche per i miei bilanci non è tanto bello. Mi piacerebbe molto essere più rapido. Diciamo che in Francia è considerato un autore rapido l’autore che è capace di produrre un album all’anno. Però bisogna dire che quelli che sono capaci di farlo, quasi tutti lavorano su sceneggiature altrui, cioè sono solo disegnatori. Io ho provato una volta a fare questo su un racconto breve e ho visto che effettivamente disegnare soltanto è molto più rapido. Effettivamente se io disegnassi solo le mie storie e non le scrivessi anche, e non è, ripeto, solo scriverle, ma è anche fare tutte quelle indagini di cui ho parlato, sarei molto più rapido ma mi divertirei molto di meno, quindi non voglio farlo.
A proposito di Francia, come vive il fatto di essere più famoso lì che in Italia?
Beh, ormai mi sono abituato. All’inizio era un po’ strano, ma adesso sono abbastanza abituato anche se ogni tanto c’è qualche risvolto bizzarro. Tipo qualche lettore italiano che scrive ai miei editori francesi per farsi dare il mio indirizzo in Francia pensando che io abiti lì, perché non sanno e non credono che io possa abitare in Italia. Ormai mi sono abituato ma devo dire che c’è ancora di più, direi che la città dove ho magari più amici, ovviamente, ma dove il mio lavoro ha avuto tutto sommato meno riscontro forse è Bologna, città dove io sono nato e dove ho sempre vissuto. Eppure è una città dove io non ho mai fatto una mostra. Ho fatto mostre in molti paesi, in molte città, anche in Italia, ovviamente, ma a Bologna mai. Del resto non è una mia esclusiva, perché anche un mio grande amico e un grande autore che era Magnus non ha mai fatto una mostra a Bologna. Eppure anche lui era di Bologna, nato e vissuto sempre a Bologna.
Sempre a proposito di Francia, in Italia negli ultimi anni si sta assistendo a una specie di controtendenza, cioè i fumetti che arrivano nelle fumetterie di varia. Negli ultimi anni ci sono stati anche dei piccoli casi editoriali come il Perpepolis di Marjane Satrapi e il Blankets di Craig Thompson. Lei crede che questo possa significare finalmente un avvicinamento alla Francia o che per cause culturali rimarrà limitato in questi confini?
Questo proprio io non lo so. Devo dire che mi sembra che tutto il mondo dell’editoria ai miei occhi risulti piuttosto misterioso. Ad esempio mi risulta abbastanza misterioso, devo dirlo crudelmente, come mai Persepolis abbia avuto un successo così notevole, soprattutto in Italia. Perché è un bel fumetto ma, voglio dire, ci sono altri fumetti altrettanto belli che non l’hanno conosciuto. Nello stesso tempo, per citare un altro caso strano, c’è stato un libro edito da Feltrinelli, un fumetto su testi di Pennac per i disegni di Tardi, Gli Esuberati, che, a quel che mi risulta, venduto chiaramente nelle librerie, con la potenza della distribuzione di Feltrinelli, non è andato affatto bene. Mentre in Francia chiaramente lo stesso libro è stato un grande successo. Dunque è veramente tutto un po’ misterioso, non saprei dire. Mi piacerebbe come sforzo intellettuale cercare di capire queste cose ma nello stesso tempo forse non sono in grado, non ho gli strumenti davvero per poter indagare. Temo che non ce li abbiano in molti, perché se qualcuno scoprisse davvero le regole di questi meccanismi probabilmente li potrebbe ripetere e quindi potrebbe continuare a vendere libri con grande successo mentre non mi pare che sia così. Ogni tanto c’è qualche libro che si vende e che appare. Un altro libro che ha avuto un successo straordinario ad esempio è stato Maus, di Spiegelman, che è un bellissimo libro, intendiamoci bene, però io credo che potrei citare altri 10, forse più, album a fumetti, altrettanto, forse ancora più belli, che però al di fuori di un circolo ristretto… Tanto per fare un altro esempio, un po’ banalotto, immagino che molte più persone abbiano sentito nominare e forse anche conoscono Miles Davis o Chick Corea, e forse un po’ meno hanno sentito nominare John Coltrane o Art Tatum. Allora, perché? Non lo so! Non credo perché Chick Corea sia molto più bravo di John Coltrane, o almeno per me non credo, però chi lo sa? Questa cosa ha ragioni spesso misteriose che non dipendono dalla qualità dell’opera. Anche, e perché no, perché se mai c’è una forma di riprova bisogna aspettare del tempo, e non è passato abbastanza tempo. Detto in un altro modo, lei sa quante furono le copie della prima edizione de Le Fleurs du Mal di Baudelaire? Credo 60, 62 o una cosa del genere, e pagate a spese di Baudelaire. Però 150 anni dopo sono un classico della poesia francese e non solo. Quindi questi conti sono difficili da fare, e oltretutto, se non per un aspetto molto importante che sarebbe quanto guadagno ogni mese, non mi competono, competono molto di più al mio editore.
In alcune interviste che ha rilasciato, ho sentito che lei consiglia gli studi classici agli aspiranti fumettisti, ci spiega il perché?
Beh, io consiglio gli studi classici a chiunque, non solo agli aspiranti fumettisti. Soprattutto a chi ha intenzione poi di avere una carriera scientifica. Per quelli che diventeranno matematici, fisici, ingegneri, biologi, direi che il Liceo Classico è quasi obbligatorio. Anche perché, se non sentiranno parlare di certe cose lì, non le sentiranno più. Il Liceo Classico, non so più come sia oggi, ai miei tempi era una splendida scuola; era nettamente una scuola di lusso, questo è vero, non forniva preparazione professionale immediatamente spendibile, ma forniva delle aperture culturali che per me almeno si sono rivelate molto, molto interessanti. Io sono molto contento di aver fatto il Classico non tanto da punto di vista del lavoro, ma proprio come persona, nel senso che mi ha aperto la mente. Credo che nel bene e nel male questo continui, anche se in forma ridotta, perché io metterei molto più latino e greco di quello si usi oggi mettere. Trovo che lo studio del latino e del greco sia un elemento importante e trovo che sia abbastanza ridicolo che venga incrementato in posti come la Finlandia e venga diminuito in posti come l’Italia che in fondo non fa altro che parlare un dialetto latino.
Uno dei temi più ricorrenti nelle sue storie è l’ebraismo. Diversi suoi personaggi sono di religione ebraica. Qual è il suo rapporto con questa religione?
È un rapporto, rispetto per lo meno alla media dei cittadini italiani, io credo, molto stretto. Anche perché mia moglie è ebrea. Di conseguenza secondo le leggi ebraiche anche le mie figlie sono ebree, perché l’ebraismo si trasmette per via materna. È uno dei pochi casi in cui le donne hanno un ruolo da protagonista, per il resto l’ebraismo è una religione che tende a mortificare le donne ancora più del cristianesimo. D’altra parte, se vogliamo entrare adesso in un argomento che poi nemmeno mi compete, e su cui non ho autorità per parlare, ho l’impressione che si dimentichi spesso che il cristianesimo non è altro che una setta ebraica. Che poi si è sviluppata con grande forza, ma nasce come una setta ebraica e di conseguenza direi che molte cose dell’ebraismo noi le conosciamo senza nemmeno sapere che sono tali. Tante altre invece le ignoriamo. Quello però che più mi interessa, e credo interessi l’argomento di questa domanda, riguarda l’ebraismo nel mio lavoro. Ho già risposto qualche volta a questo quesito dicendo una cosa di cui sono più che convinto, e cioè che, perlomeno nella modernità, un ebreo è stato spesso, suo malgrado, il testimone privilegiato di tutte le difficoltà, di tutte le ingiustizie e purtroppo anche di tutte le stragi che sono avvenute nella storia occidentale. Quindi, se qualcuno vuole raccontare una storia, mostrando anche quanto la grande storia, quella dei grandi avvenimenti che poi si leggeranno in seguito sui libri di scuola, influenza la vita di ciascuno di noi, direi che un personaggio che appartiene all’ebraismo lo mostra in maniera ancora più clamorosa. Questo ruolo di testimonianza, di cui cui credo che gli ebrei farebbero molto volentieri a meno, è cominciato tanto tempo fa ma direi che nel ventesimo secolo è stato tremendo, è arrivato a vertici inimmaginabili. Dunque è per questo che, sia nelle storie che ho ambientato subito prima della Guerra, negli anni ’30, sia nelle storie che ho ambientato subito dopo, quindi negli anni ’50, in entrambi i casi i protagonisti delle mie storie sono ebrei.
Parlando nello specifico di Max Friedman e di Jonas Fink, lei ha manifestato un notevole interesse per la storia. Ma non per la storia di cui si parla più spesso, piuttosto per alcune zone d’ombra che la storia regala, come la Praga comunista o la Guerra Civile Spagnola. Da cosa nasce questo suo interesse?
Direi esattamente da quello che ha detto, cioè dalle zone d’ombra. Anche prima di fare fumetti ero interessato a cercare di far luce proprio negli angoli bui della storia. Non tanto in quegli avvenimenti dimenticati, ma in quegli aspetti dimenticati di quegli avvenimenti che tutti conoscono. Spesso le realtà sono più complicate di quello che può sembrare a prima vista. Una delle cose che io tento sempre di fare nei miei fumetti di ambientazione storica è cercare di capire il punto di vista di tutte le parti in causa. Senza semplificare troppo, c’è spesso la tendenza, almeno a livello divulgativo, direi quasi televisivo, di identificare a volte delle parti storiche con dei ruoli metafisici. Un esempio per tutti: Hitler - il male assoluto; una specie di figura apocalittica al di fuori della storia. Ecco io trovo che questo atteggiamento sia da una parte non corretto dal punto di vista storico. Un po’ sbagliato perché bisognerebbe cercare di capire meglio come e perché sono successe certe cose. E dall’altra anche molto comodo perché ovviamente se noi abbiamo a che fare con una sorta di scherzo della natura cioè “è nato il male assoluto”, tutti gli altri sono assolti. Queste spiegazioni non mi hanno mai soddisfatto.
Sarebbe troppo facile, dunque?
Sì, è troppo facile e secondo me spesso anche ingannevole. Non è un problema solo di facilità, è anche un problema proprio di inganno. Allora io ho sempre cercato di andare a guardare queste cose. In più, ancora, da quando ho cominciato a fare fumetti, ritengo quasi una sorta di mio dovere, di sfruttare la mia posizione di privilegio, nel senso che io appartengo all’Italia ricca occidentale ecc., faccio un mestiere meraviglioso, non ho dei grossi problemi economici, voglio dire, vivo in una sorta di Paradiso, ecco, come minimo tentare di dare voce a quelli che voce non hanno potuto avere. Però contemporaneamente limitarsi a dare voce a quelle situazioni che uno conosce meglio. Voglio dire, sono convintissimo che oggi come oggi ci siano in Africa delle situazioni terrificanti, ma non le conosco. Quindi non mi sento in grado di parlare per loro. Nel caso di Jonas Fink anche non mi sentivo in grado di parlare per loro, però alla fine mi son deciso ugualmente perché ho visto che nessun altro lo faceva. E pure qualcosa insomma bisognava dire e quindi alla fine l’ho detto io. Sono sicuramente sempre stato molto interessato ai grandi momenti della storia e a come i grandi momenti e i grandi movimenti della storia hanno influenza sulle vite di tutti noi, anche sulle vite di quelle persone che la storia non la fanno.
Che rapporto ha con le edizioni straniere dei suoi lavori? Ha un controllo ferreo o si affida ad altri?
Ho un rapporto, in alcuni paesi perlomeno, ormai molto antico. Non me ne ero reso conto, ma è vero, come ha detto una professoressa della Sorbona che ha scritto pure dei saggi su di me, che sono un tipo fedele. È abbastanza vero, mi sono accorto, dopo che lei me lo aveva detto, che ci sono editori con cui ho un rapporto continuato da più di vent’anni. Effettivamente, non è poco. Come ad esempio Glénat in Francia. Spesso quando conosco un editore il rapporto, per fortuna, diventa anche un rapporto personale, diretto, che prosegue nel tempo e fino a oggi non ho mai litigato con un editore. Questi rapporti quando posso li seguo personalmente. Capita però ogni tanto, con qualche paese, con qualche editore con cui i rapporti sono più sporadici, che ci sia un intermediario in mezzo. Ma è un fatto abbastanza eccezionale. Di solito in questo caso i rapporti si limitano a un libro e allora non ci sono mai dal punto di vista umano. Per fare un esempio, hanno pubblicato qualche mese fa un mio libro in cinese, a Taiwan, e questo editore cinese è stato trovato da uno dei miei editori francesi e io non l’ho mai contattato, non l’ho mai visto e presumo che questo rapporto finirà lì. Però non si può mai dire, a volte sono nati dei rapporti che poi sono durati a lungo, nati proprio per caso. Ad esempio ho un editore in Germania, che è un piccolo editore che ho conosciuto quando, da appassionato di fumetti ed editore molto dilettante, decise di mettersi a fare l’editore davvero. Ci siamo conosciuti in quella occasione e ancora lui continua a pubblicare i miei libri. Quindi non c’è una regola generale, però di solito preferisco, se è possibile, guardarli in faccia, i miei editori. Anche perché, aggiungiamolo a togliere un po’ questa atmosfera paradisiaca, in giro nei fumetti ci sono un sacco di truffatori. Quindi bisogna essere cauti, con gli editori, a meno che non siano dei grandissimi editori. Ma a volte anche con i grandi editori.
Le piacerebbe se realizzassero dei film con protagonisti i suoi personaggi?
Vorrei articolarla meglio questa domanda, se posso. O meglio, vorrei articolare meglio la risposta. In realtà me l’hanno già proposto varie volte. Come me l’hanno proposto è stata una grande felicità. Cioè hanno opzionato delle mie storie, non so se è chiaro il termine, hanno preso una sorta di esclusiva nel caso che si realizzasse un film. Queste opzioni vengono pagate. Poco ma vengono pagate. D’altra parte, dal colloquio che ho avuto con questi interlocutori ero certo a priori che mai avrebbero realizzato un film. Perché troppo costoso, troppo complicato, ecc. Quindi sono stato felicissimo di aver guadagnato del denaro ed è stato il denaro più facile della mia vita, perché non ho fatto niente, ho solo firmato un’opzione. Ero certo che non sarei stato coinvolto in un qualche cosa di qualunque genere e quindi i miei rapporti col cinema in particolare fino ad oggi sono andati molto bene. Rispetto a una reale effettiva versione cinematografica dei miei fumetti sarei molto diffidente, perché non credo che sia facile o che sia una buona cosa. Ho l’impressione che in realtà le versioni cinematografiche dei fumetti non abbiano prodotto dei bei film, in generale. Credo anche invece un’altra cosa, che sia un peccato, e non parlo nemmeno tanto per me, quanto davvero per altri colleghi, che il talento di sceneggiatore di alcuni sceneggiatori di fumetti, penso ad esempio ad Alfredo Castelli oppure a Giancarlo Berardi, non venga sfruttato dal cinema. Quello sì è un peccato, perché io credo che queste persone sarebbero capaci di scrivere per il cinema o per la televisione, comunque per lo spettacolo, direi forse meglio di molti che lo fanno professionalmente. Questo è un po’ un peccato perché fra l’altro so che in altri paesi questo avviene, c’è una collaborazione, un’osmosi molto più stretta fra le persone, semplicemente usando il talento ma fin dall’inizio per due mezzi diversi. Quindi una cosa è scrivere un fumetto, una cosa è scrivere una sceneggiatura per il cinema. Ma io credo appunto che ci sarebbe narratori, in Italia, di fumetti che sarebbero in grado di scrivere meravigliose sceneggiature anche per il cinema. È un peccato che il cinema italiano non se ne accorga e non li conosca.
Un altro dei settori in cui lei è molto attivo è quello della cartellonistica. Da cosa nasce questa sua passione e quali sono in questo ambito le sue influenze principali?
Guarda, intanto ti ringrazio molto per questo nome, “cartellonistica”, che credo sia desueto da lustri.
Spero di non aver sbagliato!
No, è perfetto! Perché di solito si dice “pubblicità”, che in effetti è una cosa molto più vasta, “cartellonistica” è una cosa che è molto più precisa. O se preferisci, gli afiches, les afiches. I manifesti, ecco, mi sono sempre piaciuti tantissimo, mi hanno sempre affascinato prima di tutto come spettatore. Naturalmente anche lì ci sono bei manifesti e brutti manifesti, però il problema generale del manifesto è di sintetizzare in un’immagine, che deve avere oltre tutto determinate caratteristiche un po’ speciali, quindi non può essere un’immagine qualunque. Un discorso che a volte è anche abbastanza lungo e complesso. È chiaro che è parente molto stretto della grande pittura. Del resto però storicamente il manifesto come lo conosciamo adesso nasce con le tecniche di stampa. Altro argomento che mi ha sempre affascinato, anche prima di fare fumetti mi sono ogni tanto esercitato, chiaramente da dilettante, con stampe di vario genere, dalle acqueforti alle serigrafie, ecc. Ed è qualcosa che probabilmente soddisfa entrambi i lati della mia natura che è in parte artistica, in parte scientifica, per via di quell’aspetto appuntoingegneristico. Perché effettivamente anche nella stampa, se pure d’arte, l’aspetto tecnico è molto importante, non si può trascurare. Le prime afiches moderne nascono con appunto l’applicazione su larga scala di tecniche o calcografiche o litografiche. Io vidi una mostra bellissima qualche anno fa al museo Maillol a Parigi di alcune matrici di Tolouse-Lautrec, dei suoi manifesti. Con le varie modifiche fatte in corso d’opera, ed era, se vogliamo, una mostra molto tecnica, ma per me assolutamente indimenticabile. Peccato che non ci fosse un catalogo perché l’avrei comprato a qualunque prezzo. Questo solo per dire che l’argomento mi appassiona molto. Purtroppo non sono molto bravo in questo, non sono il primo a riconoscerlo. Ci sono stati artisti dell’afiches enormemente bravi e straordinari. Dudovitch per dirne uno, in anni in cui qualunque messaggio grafico importante era fatto tramite il disegno e non, come oggi, quasi sempre attraverso la fotografia. Per fare un altro nome più attuale, un altro grande artista dei manifesti oggi è secondo me Lorenzo Mattotti, che ha proprio il dono di saper fare afiches come pochi altri, cioè di avere questa sintesi estrema, questa estrema chiarezza dell’immagine. Resta il fatto però che è un campo che mi affascina molto e che spero di poter continuare a frequentare. Purtroppo, o neanche purtroppo, in qualche modo c’è, probabilmente, una ragione per cui fino a oggi ho fatto manifesti praticamente solo per occasioni culturali e non per la pubblicità, cioè non commerciali. Perché quelle poche volte che mi hanno contattato dal campo della pubblicità non ci siamo trovati d’accordo. Un’altra cosa importante per me del manifesto è avere e mantenere la libertà artistica. Nel senso che, se faccio un manifesto sul Mystfest, festival del cinema e del mistero di Cattolica, accetto questo tema, non è che faccio una cosa come pare a me. Però, all’interno di questo ambito voglio essere libero di realizzare quello che pare a me, mentre ho notato che spesso nel campo della pubblicità molti filtri pretendono, a ragione, non ne discuto, di dire la loro proprio sul campo grafico. Quindi fare la pubblicità, che so, a dei biscotti, però quando uno ha creato l’immagine, dopo dicono “no, ma questo qui è fatto male, questo qui potrebbe far pensare che uno ha le mani sporche”, ecc. Questo è un tipo di meccanismo che non mi piace molto. Per fortuna invece in questo campo, finora, tutto quello che mi è capitato mi ha permesso di lavorare in condizioni molto diverse, molto piacevoli. Vorrei aggiungere, come ultimo distinguo, una cosa che spesso è trascurata, e cioè che c’è una grande differenza, che si riflette nel prezzo al consumo, tra un poster, ovvero un manifesto stradale, e una stampa d’arte, ad esempio una serigrafia. Purtroppo molte persone, anche possibili acquirenti, non sanno la differenza tecnica, sostanziale, prima ancora che compositiva, tra queste due cose, che in realtà giustifica pienamente una differenza di prezzo così notevole. Io sono molto contento di avere la possibilità di fare entrambe, cioè sia manifesti da affisione stradale, sia stampe d’arte. D’arte non vuol dire che son belle, vuol dire che son fatte con la stessa tecnica con cui lo fanno anche i grandi artisti. Peccato che di norma il mercato per queste stampe sia più all’estero che in Italia. Però forse sta cominciando anche in Italia, almeno da parte di qualche appassionato, perché ricevo spesso richieste da parte di lettori che mi chiedono come fare per ottenere una certa serigrafia che è uscita a Bruxelles. Di solito gli passo l’indirizzo dell’editore di Bruxelles, però ho notato che anche in Italia sta cominciando a essere apprezzata un pochettino questa forma. Anche perché, a tutt’oggi, le serigrafie, le litografie, ecc. d’arte degli autori di fumetti hanno dei prezzi incredibilmente più bassi, pur essendo cari, delle equivalenti stampe degli artisti con la A maiuscola. E mi posso presuntuosamente permettere di dire, ma assolutamente non parlo di me, anzi per niente davvero, che ci sono degli artisti dei fumetti che secondo me non hanno niente da invidiare dal punto di vista grafico agli artisti con la A maiuscola. Per fare due o tre nomi, tanto per spararli subito, uno ad esempio è Lorenzo Mattotti, ma anche Jacques Tardi… Daniel Torres… Ce ne sono tanti che secondo me sono straordinariamente bravi.
Quale sarà il prossimo lavoro che pubblicherà?
Dovrebbe uscire in ottobre il prossimo libro, che si chiama Eva Miranda e che è qualcosa di completamente nuovo, anche perché è un libro che ho disegnato su sceneggiatura di Giovanni Barbieri, giovane sceneggiatore cesenate di, secondo me, grande talento, diventato papà qualche giorno fa. Questo per dire che è molto più giovane di me. Ha scritto questa sceneggiatura, secondo me molto bella e divertente, su mia sollecitazione, di una soap opera a fumetti. Naturalmente, poi, siccome i tempi di realizzazione dei fumetti sono quelli che sono, e i miei in particolare sono particolarmente lunghi, il libro uscirà quando le soap opera cominceranno già a declinare, non saranno più d’attualità. Questo per dire di quanto io abbia poca fiducia in generale e comunque io personalmente sia poco capace di fare del fumetto giornalistico alla Joe Sacco, per intenderci. Dunque, uscirà a ottobre per le Edizioni Lizard, in Italia. Non lo faremo, naturalmente, ma assieme a quello vorrei fare tante piccole altre cose. Che non faremo perché nessuno me li produrrà, ma potrebbe essere divertente, dato che questo è il primo fumetto che abbia anche delle pubblicità all’interno. Ovviamente ha degli spot pubblicitari, trattandosi di una soap opera. Mi sarebbe piaciuto anche produrre gli oggetti di cui si parla nelle pubblicità. Una sorta di Cacao Meravigliao per quelli che si ricordano ancora qella geniale invenzione di Renzo Arbore. Naturalmente non lo faremo, spero però di poter fare magari qualche piccola stampa o afiches, perché mi diverte. Comunque questo libro divertente è finito già da un po’ di tempo e quindi uscirà in ottobre ma per me fa parte già del passato, ovviamente. Mentre il libro che fa parte del presente rispetto al lavoro è la fine della storia di Freidman in Spagna, No Pasaran. Libro su cui sono al lavoro adesso se pure faticosamente, tanto per cambiare, ma che spero proprio di riuscire a terminare entro l’anno prossimo, perché mi piacerebbe che riuscisse a uscire l’anno prossimo visto che nel 2006 faranno 70 anni dell’inizio della Guerra Civile Spagnola. Dunque chiudere questa storia sfruttando l’anniversario, visto quello che si usa oggi, potrebbe essere interessante. Soprattutto in realtà per il mio editore spagnolo. Se fosse quest’anno oppure nel 2007 sarebbe esattamente la stessa cosa, però il mio editore spagnolo ci terrebbe e io spero di riuscire a farcela.
Tornando a Eva Miranda… è un’opera in volume unico o in più volumi?
Eva Miranda è un volume secco di 46 pagine ma, come tutte le telenovelas che si rispettano, solo che qualcuno ce lo pagasse, siamo d’accordo con Giovanni Barbieri che potremmo anche produrne altri 140 di volumi. Perché si tratta di una storia che potrebbe non finire mai. Naturalmente è una storia di nessun interesse, per me. Nel senso che sono affari privati di famiglie, una povera e una ricca, ovviamente, con un amore contrastato. I soliti argomenti topici per cui il mio interesse personale è solamente ironico, ma anche, se possibile, per fare un po’ di ironia sul linguaggio televisivo. La potenza della televisione come linguaggio è qualcosa che non cessa di stupirmi a ogni istante e quindi direi che uno dei bersagli veramente da preferire, credo, per chiunque voglia fare un pochino di ironia, non può non essere la televisione. La televisione in sé, non tanto la sua applicazione grottesca che c’è in Italia che è già talmente ironica da sola che mi sembra pazzesco farci addirittura dell’ironia sopra. No, la televisione come linguaggio. È la sua persuasione rispetto allo spettatore medio che non sfugge a un inganno anche se questo inganno lo conosce. È un argomento che mi interessa questo, perché, lo so che è molto banale, ma non per questo meno vero, ho l’impressione che le soap opera nel gradimento popolare siano state sostituite dai cosiddetti reality show. Che sono in qualche modo gli eredi, in fondo, di quella passione di farsi i fatti altrui, fondamentalmente. Ora, i reality show sono basati su un meccanismo che, appena appena un po’ più sottile, funziona anche nel telegiornale. E funziona, con mia grande sorpresa. Cioè la stragrande maggioranza di chi guarda la televisione ha l’impressione di stare guardando un avvenimento reale, nel momento in cui succede o tutt’al più in differita. È successo qualche tempo fa ma io lo sto guardando registrato come se lo guardassi con i miei occhi. Dunque, ad esempio, ci può essere una scena in cui, non lo so perché io non ho mai visto dei reality show perché mi annoiano moltisismo, ma li ho solo sfiorati attraverso degli zapping fra un canale e l’altro, mi pareva che mostrassero scene drammatiche ad esempio di persone abbandonate su un’isola deserta e costrette a fare di tutto per sopravvivere, anche cose che non erano abiutati a fare normalmente nella vita reale. E questo mostrato alla tv e visto dagli spettatori nella convinzione ingenua di stare vedendo con i nostri occhi, come se fossimo fatti di etere e fossimo invisibilmente presenti, quella scena che si svolgeva in un luogo reale. Senza pensare che, se noi vediamo qualche cosa sullo schermo televisivo, dietro c’è una telecamera. Dall’altra parte della scena c’è una telecamera. E se la qualità tecnica è un minimo decente non c’è solo la telecamera ma c’è un tecnico del suono per la presa sonora, ci sono dei tecnici delle luci, c’è addirittura probabilmente un regista. Io ho fatto qualche rara intervista televisiva e ho visto quale macchina di attrezzature e di persone è necessario per realizzare la cosa più semplice. Questo semplice ragionamento dovrebbe convincere gli spettatori che stanno vedendo, sempre e inesorabilmente, anche quando guardano delle riprese al telegiornale, uno spettacolo, non stanno mai guardando la realtà. La televisione non può mostrare la realtà per definizione. Perché tecnicamente ne è incapace. Non si può trasmettere la realtà. È sempre uno spettacolo. Questa cosa che è abbastanza evidente, cioè di immaginare che qualunque trasmissione noi vediamo ha dall’altra parte una troupe che l’ha registrata, trasmessa, ecc., questa osservazione non la fa mai nessuno. Si guarda quello schermo come se fosse il nostro occhio che vede quella scena. Questo potere fortissimo che la televisione ha, e che ad esempio non ha il cinema, perché nessuno è convinto andando al cinema di stare guardando qualcosa di realmente accaduto, è qualcosa che mi affascina molto e che mi spinge a occuparmi proprio di questo tipo di rapporto. Che non è nuovo, il cinema americano ad esempio l’ha trattato in un modo piuttosto bello, vorrei ricordare fra tutti un film dal titolo infelicissimo italiano, che è Sesso e potere e che è una straordinaria storia di televisione. Ma anche Tootsie, ce ne sono tante di cose di questo genere. Credo che l’argomento ancora offrirà notevoli materiali su cui lavorare e su cui riflettere. Anche perché è molto chiaro questo punto, ovvero che c’è un unico, vero mezzo di comunicazione di massa, ed è la televisione. Tutti gli altri sono mezzi di comunicazione sicuramente, ma non di massa.
L’ultima domanda esula un po’ dall’argomento fumetti. Lei un anno fa si è impegnato nella campagna elettorale dell’attuale sindaco di Bologna Sergio Cofferati, con una bella mostra intitolata Bologna capitale (del fumetto). A un anno di distanza qual è ancora il suo impegno e la sua opinione su questo primo anno di mandato di Cofferati?
Oh, bella domanda che mi da proprio la possibilità di entrare in una polemica molto attuale, perché Cofferati al momento è messo sotto accusa da molte parti. Io non sono affatto pentito di averlo sostenuto. E questo lo dico perché, ad esempio su quest’ultima battaglia, questo discorso sulla legalità (ci sono state recentemente aspre polemiche all’interno della maggioranza di governo in seguito all’arresto di alcune persone ree di aver occupato abusivamente degli appartamente sfitti. N.d.R.), io sono convinto e non da oggi, già da molto tempo, che uno dei grossi difetti dell’Italia come paese sia proprio la mancanza di legalità che produce disuguaglianza e ingiustizia. Non siamo in un paese iper-legale, dico per dire la Svizzera, anche se poi non è così vero, dove un’eventuale battaglia contro certi aspetti della legalità potrebbe avere un effetto effettivamente di libertà o delle ragioni comunque molto giustificate. No, io ho l’impressione che in Italia la mancanza di rispetto della legalità abbia fondamentalmente favorito proprio i detentori del potere e che al rovescio un rispetto più rigoroso della legalità ridurrebbe il loro potere. Quindi sono assolutamente solidale con la battaglia di Cofferati sia in assoluto sia nello specifico del discorso, non tanto occupazioni che non conosco, ma sicuramente conosco un po’ meglio la situazione di Piazza Verdi (nota piazzetta al centro della zona universitaria bolognese; il discorso di Giardino è legato a un’ordinanza del Consiglio Comunale di Bologna che vieta il consumo di bevande alcoliche al di fuori dei locali dopo le 21. N.d.R.) e dintorni anche perché io ho abitato in via Giuseppe Petroni in altri anni e devo dire che oggi via Petroni, per un abitante normale, è diventata una strada difficile, veramente difficile. Allora qui si tratta di creare delle condizioni di convivenza fra esigenze diverse arrivando a una forma di compromesso perché le esigenze sono intrinsecamente diverse e non conciliabili con un atto di forza, assolutamente. Ora, io non credo che siano gli abitanti originari a non volere compromessi. Resta il fatto che io non ho mai avuto né voglio avere né credo avrò mai delle tessere di partito o anche di qualunque organizzazione politica schierata, perché non mi sembra compatibile col mestiere che faccio. Però ci sono casi in cui credo che addirittura un intellettuale, usiamo parole screditate ormai scioccamente, secondo me è bene che si schieri. L’ultima elezione del sindaco di Bologna era di una quelle occasioni. Comunque io l’ho fatto e non ne sono pentito. E rispetto all’operato di Cofferati fino ad oggi credo che lo rifarei, anche se non posso negare che ci sono ancora aspetti della sua gestione del Comune che possono sembrare anche a me leggermente carenti, ma in fondo è solo un anno, non è poi così tanto tempo. Mi sembra che abbia speso del tempo per guardarsi attorno, non credo che l’abbia buttato dalla finestra. Quindi per esprimere un giudizio complessivo aspetterei ancora, però, anche soprattutto rispetto a questi ultimi avvenimenti, trovo che abbia, e questo credo che tutti debbano riconoscerglielo, anche i suoi avversari, certamente il merito della coerenza, dell’onesta, e del mantenimento delle promesse. Finora ha fatto esattamente quello che aveva promesso anche quando questo poteva costargli in popolarità e trovo che questa sia già una novità che per l’Italia è piuttosto rivoluzionaria. Quindi, personalmente, ha il mio sostegno ancora oggi. Poi per la politica culturale in generale, che è quella che mi riguarda più da vicino, e le eventuali iniziative che possa prendere il Comune riguardo al fumetto, ci sarà tempo per pensarci e non credo nemmeno che siano le urgenze più drammatiche che questa città sta vivendo. Sono cose importanti ma ci sarà tempo anche per questo e confesso che ho fiducia in lui anche per questi aspetti. Sono convinto che verranno anche i momenti buoni per questi aspetti.
È tutto, la ringrazio per la disponibilità.
Ma figuarati, grazie a voi. Tutto questo va a finire su internet?
Sì.
Ecco, un’altra delle cose che, in maniera assolutamente astratta e teorica, vorrei lanciare là. Internet è basato anche sulle telecomunicazioni, ovviamente. Man mano che aumentano gli scambi di informazione e gli utenti di internet, aumenta la quantità di informazione che deve viaggiare in quella che una volta si chiamava etere. Comunqe deve viaggiare attraverso trasmissioni radio. Mi chiedo se non arriveremo un giorno, presto, e se non fosse il caso di porsi dei problemi già ora prima di arrivarci affogati, a una situazione simile a quella che riguarda l’etere, per restare a quest’antica parola, della radio che in Italia ha fatto sì che non si riesce più a sentire una radio al di fuori delle immediate vicinanze. Cioè c’è una tale sovrabbondanza di offerta di emittenti radiofoniche per cui è veramente difficile inserirsi. Naturalmente moltissime di queste radio, la maggior parte come numero, sono radio assolutamente prive di senso. Nel senso che sono spesso iniziative estemporanee che nascono, muoiono e sono fatte per un contratto pubblicitario, tanto per intenderci. Costa poco metterle su. Oggi sembra che le risorse di comunicazione via internet siano praticamente inesauribili per cui si riempie internet di tutto. Io non so come fare, perché condivido credo con tutti, l’esperienza tremenda che quando scarico la posta appena mi collego ricevo una valanga di lettere indesirate, di tipo pubblicitario sostanzialmente. Questo è un altro problemino interessante, l’etere non è infinito, quindi sarebbe bene, ad esempio, questa intervista poterla mettere su internet benissimo, ma toglierla presto, fare spazio a qualcos altro. Cioè riservare a internet le cose davvero preziose, cominciare a non sbatterci tutto tanto costa poco ma cominciare a fare dei conti proprio sull’occupazione delle onde elettromagnetiche. Da ex ingegnere elettronico, che si è occupato a suo tempo anche di onde elettromagnetiche, è un appello che lancio. È molto presto, credo che ci vorrà molto tempo prima di arrivare alla saturazione, ma naturalmente l’universo, almeno quello umanamente disponibile, è sicuramente limitato e quindi alla saturazione ci si arriva, prima o poi. Vabbè, grazie mille.
Intervista realizzata da Andrea Antonazzo tra il 24 maggio e il 30 giugno 2005.
In ordine sparso si ringraziano, per l’indispensabile contributo nella realizzazione di questa intervista, Andrea Plazzi, i ragazzi della libreria Modo Infoshop di Bologna, Margherita Aina e RadioCittàFujiko 103.100 di Bologna.
Andrea Antonazzo