Intervista a Alessandro Bilotta
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"SAGOME DI CARTONE CON L’ANIMA" - Intervista ad Alessandro Bilotta a cura di Davide Scagni
Ciao Alessandro. Tra pochi giorni uscirà la versione definitiva delle Strabilianti Vicende di Giulio Maraviglia – inventore, per conto della Free Books. Ce ne vuoi parlare? Come è partita l’idea di questa ristampa?
Non svelo segreti dicendo che la Free Books vuole trovare uno spazio nel mercato italiano e cerca un personaggio di successo provandone diversi. In questa prospettiva, Andrea Materia ha proposto a me e a Carmine di Giandomenico di raccogliere in volume la miniserie della Montego per presentarla in edicola a un numero maggiore di lettori e noi abbiamo accettato con entusiasmo.
La nuova edizione ristamperà tutte le storie del personaggio e avrà delle modifiche o dei contenuti particolari? Sono previste riedizioni per le altre tue storie pubblicate dalla Montego, Povero Pinocchio e Il Dono Nero?
Le modifiche sono nel formato più grande e nella copertina inedita di Carmine che è davvero mozzafiato. Non ci sono interventi rilevanti nei dialoghi e sarà ristampata solo la miniserie di tre albi.
Non sono previste riedizioni di altre storie che ho scritto, quella di Giulio Maraviglia è legata all’eventualità di una serie che non sarebbe possibile con Povero Pinocchio e Il dono nero che si esauriscono come romanzi.
Le Strabilianti Vicende di Giulio Maraviglia è una miniserie che unisce solide trame d’avventura a un’ambientazione insolita e affascinante: una immaginifica Roma degli anni ’20 piena di macchinari incredibili e di personaggi realmente esistiti in ruoli inconsueti. Come ti è venuta questa idea?
L’idea originaria era quella di fare una serie sui misteri di Roma, poi ci hanno investito gli anni Venti. La documentazione su questo immaginario non è stata difficoltosa perché sono appassionato dell’Italia e delle avanguardie della prima metà del Novecento, anzi sta diventando una vera ossessione, come forse si legge anche da La Dottrina.
Negli ultimi anni c’è una tendenza generalizzata a mischiare la nostalgia e la fantasia (penso alla League of Extraordinary Gentlemen di Alan Moore, a Planetari di Warren Ellis oppure, per restare in casa nostra, al recente Brad Barron di Tito Faraci), non soltanto nel fumetto, ma anche per esempio nel cinema con l’imminente Guerra dei Mondi by Spielberg & Cruise. Come mai, secondo te, questo desiderio di attualizzare le mode e gli stili (certe volte, persino le ideologie) del passato?
La cultura popolare vive del riflesso del postmodernismo imperante in cui tutti viviamo, che ha la caratteristica di usare idoli, sagome di cartone. Stabilito che tutti gli idoli, i topoi, sono già stati creati, di conseguenza gli autori si riferiscono al passato. Il grande contributo di Alan Moore è stato quello di infondere la tridimensionalità a queste sagome di cartone con l’approfondimento psicologico. Come nel caso della Guerra dei Mondi, sono convinto che non basti raccontare gli stereotipi con tecniche moderne per modernizzarli, o per dare grandi emozioni, o che ciò servirà a capire meglio il nostro ermetico presente.
Il postmodernismo in effetti ha un approccio molto “strumentale” e distaccato all’immaginario. Pensi che oggi si debba invece avere un maggior coinvolgimento nelle storie che si raccontano, cioè mettersi a nudo in prima persona, provare a restituire un’anima agli idoli?
No assolutamente. Io posso parlare sono dei miei gusti del momento, è giusto che convivano quanti più modi differenti possibile di raccontare storie. È una follia stabilire a tavolino cosa si deve o non deve fare. Il problema è proprio invece nel caso opposto, cioè quando viene messa in discussione la possibilità di esprimersi ognuno a proprio modo. La tendenza a considerare assoluti i propri gusti personali è l’anticamera della giustificazione dell’ignoranza.
Negli Anni Venti c’era un acceso entusiasmo verso la modernità e grandi aspettative verso ciò che di “nuovo” poteva offrire la tecnica (con i suoi riflessi negativi, ovviamente…). È questo che ti affascina di quel periodo?
Sì. È come se gli anni Venti fossero l’essenza del Novecento concentrata in dieci anni. Tutto è stato inventato lì, il cinema, le avanguardie artistiche, l’atonalismo nella musica colta e poi il jazz. L’idea è quella di un gigantesco baraccone di pionieri di cui il mondo di Giulio Maraviglia potrebbe essere la metafora, e subisco un fascino insopprimibile per baracconi e pionieri.
Giulio Maraviglia è nata come miniserie, ma presenta un universo talmente ricco di potenzialità da meritare uno sviluppo più approfondito. Ci sono speranze di leggere nuove storie dedicate a questo personaggio e al suo mondo?
Molto del futuro e del passato di Maraviglia lo decideranno le vendite del volume in edicola. Con Carmine avevamo già fatto un po’ di progettazione, era anche in fieri una nuova miniserie. La direzione che avrebbero preso le storie già s’intravedeva nel racconto breve “Il cantore dei balocchi”, su Lexy Presents numero 12. Cioè uno sviluppo delle vicende sempre più incentrato sull’anima dell’uomo degli anni Venti.
Proprio in Giulio Maraviglia è cominciata la tua collaborazione con Carmine di Giandomenico, disegnatore che, oltre ad essere tuo amico, hai sempre sostenuto e apprezzato. Non ti chiederò un’opinione sul suo primo progetto personale “Oudeis”(però, se vuoi…). Piuttosto: anche tu sei un fan sfegatato di Claudio Baglioni?!? E ci sono altri disegnatori con cui hai lavorato bene, o con cui ti piacerebbe lavorare?
Sinceramente non sono un fan sfegatato di Baglioni come lo è Carmine. L’ispirazione però è bene accetta da ogni parte.
Per me Oudeis è un’opera di grande complessità sul disorientamento dell’uomo provocato dalla natura stessa della strada che percorre. È un racconto che confonde perché non analizza le domande, ma prova a scavare dentro il segnale d’allarme attivato da questo senso di smarrimento. Ho riletto più volte molte frasi di Oudeis per capire come sono complesse nella loro apparente spontaneità da flusso di coscienza. È una capacità di racconto quasi inedita per un progetto a fumetti e mi ha affascinato da subito, quando Carmine l’ha presentato ad alcuni disegnatori della Montego. Questi poi mi hanno consigliato lui per Giulio Maraviglia che allora era quasi solo nei miei pensieri.
Carmine è stato l’evento più importante e rivoluzionario della mia vita professionale e non solo. Tutto il mio lavoro nei fumetti lo devo a lui, mi ha motivato a spingermi fin dove mi sono spinto. Siamo diventati amici e io gli devo moltissimo anche nella mia vita privata.
Un altro disegnatore con cui mi sono trovato benissimo è stato Andrea Borgioli, che ha disegnato Il dono nero numero 3. Mi piacerebbe molto lavorare ancora con lui.
Mi piacerebbe moltissimo lavorare con Michele Petrucci e credo che lui lo sappia.
L’ultimo traguardo della mia vita come sceneggiatore sarebbe lavorare con Igort. Le storie raccontate attraverso le sue pagine entrano in una dimensione più alta, come una poesia. Si elevano dallo stato di semplici oggetti di carta.
Parliamo di La Dottrina, la tua seconda storia disegnata da di Giandomenico: il primo numero è uscito nel 2002, il secondo esattamente un anno dopo, nel 2003… Ormai sono passati due anni, e i restanti due numeri non si sono ancora visti. Qual è il problema?
Non ci sono problemi. Il tempo che ci prendiamo è quello di cui pensiamo ci sia bisogno per realizzare la storia. Una volta terminato un volume poi è sempre necessario farlo uscire nei periodi commercialmente più opportuni. Così il terzo è terminato, ma uscirà dopo l’estate, posso darti per la prima volta la data ufficiale che sarà il 15 ottobre 2005. È qualche giorno prima della fiera di Lucca per permettere ai lettori che l’hanno ordinato di averlo in anteprima, ma sufficientemente vicino alla fiera perché ci si possa anche incontrare e parlarne. Dopo Lucca faremo qualche presentazione, probabilmente in alcune librerie di fumetti romane.
La Dottrina è un romanzo grafico molto ambizioso, che unisce le (apparenti) vicende supereroistiche di un “giustiziere mascherato” chiamato La Smorfia con riferimenti al Futurismo, alle Avanguardie del primo Novecento, all’estetica del Ventennio e dei regimi totalitari in genere, creando un’ambientazione claustrofobica che sembra quasi il riflesso negativo della Roma di Giulio Maraviglia. È proprio così, oppure ci sono dei punti di contatto tra questi due mondi?
La tua osservazione è molto bella, ma forse più che della Roma di Giulio Maraviglia, è il riflesso negativo mio e di Carmine. Gli unici punti di contatto tra i due mondi sono gli autori, che non è poco.
Cosa intendi con “riflesso negativo” tuo e di Carmine? Avete inserito degli elementi autobiografici?
Intendo che certo per realizzare La Dottrina siamo andati a pescare nel lato più oscuro di noi, dove si sono cementate le paure. E sicuramente ogni lavoro creativo risente delle circostanze della vita di chi lo svolge. Mia mamma quando vede immagini de La Dottrina ripete sempre la stessa frase “quanti danni può fare una maestra sbagliata alle elementari”.
La vicenda de La Dottrina sembra voler sfidare la percezione del lettore con immagini e situazioni a volte familiari, a volte volutamente incomprensibili. Di sicuro, tutto sarà più chiaro con la conclusione della serie, ma per ora l’effetto è alquanto straniante… a tratti il lettore si trova, suo malgrado, a perdere le coordinate della vicenda raccontata, fino a sospettare di essere vittima di un grande inganno. È un effetto voluto, oppure solo una mia sensazione?
Abbiamo cercato di ricreare la sensazione di straniamento che si prova quando ci si pongono domande sulla realtà. Ma questo è solo un elemento della storia, che io credo anche marginale. Mi piacerebbe che alla fine chi legge non percepisse di essere stato solo vittima di un artificio, in quel caso, almeno io, sentirei di non aver raccontato molto più che un giochino. Se La Dottrina non trasmettesse soprattutto sentimenti come spero, avrei sbagliato mira.
In effetti La Dottrina trasmette una certa angoscia e ansia trattenuta (il parallelo con l’ambiente repressivo della scuola è evidente) ma anche un impeto di ribellione che aspetta di scoppiare. Nel terzo capitolo – il mio preferito finora – si sviluppa una storia d’amore tra due personaggi che sembra proprio la chiave di volta della vicenda…
È una delle chiavi di volta più prevedibili. La storia d’amore fra Tea e Tonio è molto rappresentativa di come io e Carmine vediamo La Dottrina. Cioè un racconto il cui punto di vista insegue i protagonisti e i loro sentimenti di cui ti dicevo, e che lascia in gran parte fuori campo l’azione generale. Questo penso che sia il motivo per cui la storia ha questo ritmo irregolare, “jezzato” come lo definisce Andrea Ciccarelli.
Per l’ambientazione distopica della Dottrina si sono scomodati molti precedenti illustri, da 1984 di Orwell a Fahrenheit 451 di Bradbury fino all’intoccabile V for Vendetta di Moore… Quando hai scritto la storia avevi proprio in mente questi riferimenti? E ti aspettavi le critiche che sarebbero arrivate, dopo questi confronti?
A parte 1984, non avevo questi riferimenti, e chi ha letto entrambi i volumi usciti finora se ne è accorto. I riferimenti sono stati altri, ma non è importante, perché è giusto che chiunque legge la storia ne abbia una propria visione.
Rispetto ad altri fumettisti italiani della tua generazione, mi sembra che ci sia un certo interesse da parte tua per la storia e per la cultura del nostro Paese, dal punto di vista letterario, architettonico, ecc. Una pratica molto rara, specialmente nel fumetto italiano. Tu che ne pensi?
Chi può raccontare quello che preferisce non solo ha una fortuna immensa, come è successo a me, ma dice anche molto di sé agli altri, dei propri gusti, della propria cultura, di come percepisce il mezzo che usa. È ovvio che chi ha questa fortuna la sfrutti cercando e raccontando quello che più lo emoziona e probabilmente anche chi lo legge si emozionerà.
Non mi interessa la cultura americana perché è molto distante dal mio modo di ragionare e dai miei valori, per la maggior parte la disprezzo profondamente. Mi interessa molto il luogo in cui vivo, la gente che ci vive con me e quella che ci è vissuta in passato, i pensieri e le loro emozioni. E questo cerchio dall’Italia si restringe al Lazio, tra un po’ forse avrò voglia di parlare solo del mio quartiere di Piazza Bologna.
La cosa che non tollero è quando qualcuno dice come qualcosa andrebbe, o non andrebbe, fatta in senso assoluto. Perché assoluti sono solo i pensieri degli ignoranti.
L’ambientazione familiare è un elemento molto presente nelle tue storie, pur con una rilettura in chiave fantastica. Hai mai pensato di fare il contrario, cioè di raccontare storie e personaggi immaginari o “inconsueti” in un contesto più realistico e attuale?
La cosa che mi dà più emozioni è leggere storie che ruotano intorno ai personaggi e personaggi che vanno fino al fondo di loro stessi. Protagonisti tridimensionali, come si dice, che hanno reazioni tanto reali da essere spesso senza eleganza e scomodi perché ricordano quando ci si guarda allo specchio. Questo di conseguenza è quello che provo a riproporre quando scrivo. Andando avanti, preferirei anzi dare maggiore realismo anche al contesto entro cui si muovono.
Sia nella Dottrina sia nel racconto breve di Giulio Maraviglia apparso su “Lexy Presents” è molto presente il riferimento al Futurismo, una corrente artistica italiana del Novecento che, tra l’altro, ha fornito vari spunti alla definizione del fumetto come linguaggio (penso allo studio effettuato sul movimento, all’uso narrativo dei caratteri tipografici, all’invenzione delle linee di forza, ecc.). Che cosa ti affascina in particolare di questo movimento artistico?
I motivi di fascino sono infiniti. Per dirne uno, mi entusiasma il loro spirito artisticamente rivoluzionario. Condivido questa esaltazione della capacità incendiaria della creatività.
Proprio come te, penso che abbiano gettato le basi per quello che è lo spirito più profondo del fumetto. E credo che il fumetto sia il loro sogno che si è realizzato, cioè arte che esce dai musei, arte per tutti.
Tuttavia l’arte per tutti oggi è diventata prevalentemente cinema, televisione, videogiochi, realtà virtuale, mentre il fumetto è invece stato per lo più relegato al ruolo di medium minore per pochi collezionisti e nostalgici. Sei d’accordo?
La storia la scrivono i vincitori, no?
Uno dei temi sotterranei della Dottrina è la finzione, o forse dovrei dire l'uso distorto della realtà per controllare e manipolare le coscienze. Forse, proprio in questo discorso va inquadrata la attinente campagna di marketing realizzata dal Gruppo Saldatori... ritieni che quella campagna (al di là dell'attenzione creata, che ha sicuramente giovato alle vendite) sia stata utile a comprendere il significato della Dottrina? E, in generale, in che modo pensi che il marketing possa aiutare il fumetto?
Non penso che il marketing aiuti a comprendere il significato di una storia a fumetti che, se c’è, è bene che resti anche soggettivo per chi legge. Il marketing dovrebbe aiutare a parlare di un prodotto e a venderlo. E secondo me i fumetti hanno bisogno di entrambe le cose.
Una volta si diceva che i fumetti erano roba da bambini, oggi si dice che le Graphic Novel sono roba da radical chic… In una parte degli appassionati (perlomeno in Italia) si è radicata l’idea che denominare con il termine “Romanzo Grafico” un certo tipo di narrazione a fumetti denoti un atteggiamento snobistico, di presa di distanza dalle forme e dalla tradizione del fumetto “puro”. Tu cosa ne pensi? Ti senti un “radical chic”?
Radical chic non me l’avevano mai detto. Se lo sapesse mamma…
I fumetti sono anche, e non solo, roba da bambini. Credo che chi fa un lavoro creativo provi a riproporre le cose che lo appassionano, non ci vedo nascoste grandi ideologie. Le denominazioni non le capisco mai bene, sono cose da archivisti eppure chi le fa crede di redigere manifesti ideologici.
La Montego, la casa editrice che hai fondato e diretto, ha ormai da tempo interrotto le sue pubblicazioni. Cosa hai tratto da questa avventura editoriale? Se la rifacessi oggi, cambieresti qualcosa?
Oggi pretenderei di avere un ruolo più definito, perché si voleva che mi assumessi delle responsabilità senza poi darmi realmente il potere di decidere.
Come apprendistato devo tutto alla Montego, troppe cose per elencarle. La prima e più fondamentale è che avevamo completa libertà d’espressione e questo mi ha abituato a usare la fantasia senza condizionamenti. È il più grande insegnamento, a qualsiasi cosa mi dedicherò.
Tu hai lavorato sia con la Bonelli (su Martin Mystère), sia con progetti più autonomi e personali. Puoi spiegarci, dal tuo punto di vista, la differenza tra questi due modi di lavorare? Hai mai pensato di proporre qualche tuo lavoro all’estero?
Lavorando per un personaggio che ha già una sua storia si è al suo servizio, invece creando un proprio progetto si rischia di più, si mette in gioco se stessi, non c’è il Buon Vecchio Zio Marty che ci protegge. Sentendomi agli inizi, ho voglia di rischiare in prima persona, in questa prospettiva certo mi piacerebbe molto concretizzare qualche progetto all’estero, sperimentare diverse libertà creative.
Ti consideri più un appassionato di fumetti o uno scrittore di fumetti? Quali sono le tue letture preferite in questo momento?
In questo periodo della mia vita mi considero più sceneggiatore perché mi piacciono pochi dei fumetti che escono e questi in genere non piacciono alla maggioranza di chi legge o fa fumetti. In questo momento amo molto Fats Waller di Sampayo e Igort, il primo volume di Les Passe-Murailles un albo francese di Cornette e Oiry, Jinbe di Adachi, The Death Ray di Clowes e una storia di Topolino che rileggo spesso, “Macchia Nera e il buon vicinato” di Savini e Cavazzano.
Se ti dessero carta bianca, con quale personaggio (italiano, Marvel, DC…) ti cimenteresti volentieri, e perché?
Mi tufferei anima e corpo su qualunque personaggio per cui mi dessero carta bianca.
So che uno dei tuoi miti è l’ex sceneggiatore di fumetti Peppe Ferrandino. Come mai secondo te ha abbandonato il fumetto per dedicarsi alla scrittura di romanzi? Ritieni che il fumetto in Italia oggi (non tanto come linguaggio, quanto come apparato) offra a uno scrittore la possibilità di raccontare le storie che vuole?
Ferrandino è difficile da inquadrare, anche nei gesti più ovvi. Penso che sia troppo avanti per accettare di scrivere secondo i canoni imposti dalla necessità di guadagnare e dalla tua domanda capisco che è un’intuizione che hai avuto anche tu. Grant Morrison ha dichiarato recentemente a Newsarama che spera di riuscire a dedicarsi alla prosa, perché non è stato soddisfatto dell’accoglienza che ha ricevuto il suo stupendo “Seaguy”. Lui dice che i lettori di fumetti non sono più in grado di capire le strutture metaforiche, il simbolismo che in Morrison è cardinale per apprezzare la sua scrittura. Detto in maniera banale, crede che ci si aspetti dai fumetti solo una lettura di svago, che non costringa a pensare.
Io non riesco a dare ai lettori la responsabilità del disagio di Morrison, perché sono vari e tutti interessati a cose diverse. È un chiaro interesse degli editori, e spesso degli autori stessi, raggiungere il più largo consumo possibile, per una questione di guadagno, di successo. Certo la difficoltà di lavorare dipende dal tipo di storie che un autore vuole raccontare, più sono diverse da quelli che si ritengono i parametri di mercato, più è difficile realizzarle.
Oltre a Ferrandino, ci sono altri autori (di fumetti e non solo) che ti hanno in qualche modo influenzato o ispirato?
Negli anni Settanta, in pieno funambolismo verbale e letterario, Goffredo Parise, incontrando per strada un bambino, si fece attrarre dal suo abbecedario. Aprendolo lesse “l’erba è verde”. Legò l’immediatezza di quell’immagine anche alla sua profondità e in un periodo di abbondanza di parole e concetti, sentì il bisogno di un ritorno alla semplicità per ritrovare i sentimenti, le cose essenziali della vita. Così, cominciando dalla lettera A, scrisse un racconto per ogni sentimento fondamentale, poi raccolti nei “Sillabari” appunto. Sono piccoli gioielli che somigliano molto a poesie per la brevità e la capacità di suggestione, con una scrittura fortemente determinata alla ricerca della semplicità.
Più volte in questa intervista credo di aver ripetuto le parole sentimento, emozione e simili. La lista degli autori che mi influenzano è lunghissima e intuibile, soprattutto per il fumetto. Ti cito l’esempio di Parise perché in questo momento della mia vita è la cosa che mi è più vicina.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Il 15 ottobre 2005 uscirà il terzo volume de La Dottrina. Per me e Carmine è il fumetto più importante che abbiamo mai realizzato. Lo abbiamo riletto, riflettuto e curato in ogni parte. Ci abbiamo messo dentro tutti noi stessi e crediamo fermamente che sarà a lungo il nostro massimo. Speriamo che venga letto e che ne possiamo parlare molto per condividerne le emozioni che ci ha dato realizzarlo e che speriamo restituisca a chi lo legge. In questo momento tutti i nostri pensieri sono lì.
Grazie mille Alessandro, e in bocca al lupo!
Crepi! Grazie a te e a presto.
Davide Scagni - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Francesco Farru
Ciao Alessandro. Tra pochi giorni uscirà la versione definitiva delle Strabilianti Vicende di Giulio Maraviglia – inventore, per conto della Free Books. Ce ne vuoi parlare? Come è partita l’idea di questa ristampa?
Non svelo segreti dicendo che la Free Books vuole trovare uno spazio nel mercato italiano e cerca un personaggio di successo provandone diversi. In questa prospettiva, Andrea Materia ha proposto a me e a Carmine di Giandomenico di raccogliere in volume la miniserie della Montego per presentarla in edicola a un numero maggiore di lettori e noi abbiamo accettato con entusiasmo.
La nuova edizione ristamperà tutte le storie del personaggio e avrà delle modifiche o dei contenuti particolari? Sono previste riedizioni per le altre tue storie pubblicate dalla Montego, Povero Pinocchio e Il Dono Nero?
Le modifiche sono nel formato più grande e nella copertina inedita di Carmine che è davvero mozzafiato. Non ci sono interventi rilevanti nei dialoghi e sarà ristampata solo la miniserie di tre albi.
Non sono previste riedizioni di altre storie che ho scritto, quella di Giulio Maraviglia è legata all’eventualità di una serie che non sarebbe possibile con Povero Pinocchio e Il dono nero che si esauriscono come romanzi.
Le Strabilianti Vicende di Giulio Maraviglia è una miniserie che unisce solide trame d’avventura a un’ambientazione insolita e affascinante: una immaginifica Roma degli anni ’20 piena di macchinari incredibili e di personaggi realmente esistiti in ruoli inconsueti. Come ti è venuta questa idea?
L’idea originaria era quella di fare una serie sui misteri di Roma, poi ci hanno investito gli anni Venti. La documentazione su questo immaginario non è stata difficoltosa perché sono appassionato dell’Italia e delle avanguardie della prima metà del Novecento, anzi sta diventando una vera ossessione, come forse si legge anche da La Dottrina.
Negli ultimi anni c’è una tendenza generalizzata a mischiare la nostalgia e la fantasia (penso alla League of Extraordinary Gentlemen di Alan Moore, a Planetari di Warren Ellis oppure, per restare in casa nostra, al recente Brad Barron di Tito Faraci), non soltanto nel fumetto, ma anche per esempio nel cinema con l’imminente Guerra dei Mondi by Spielberg & Cruise. Come mai, secondo te, questo desiderio di attualizzare le mode e gli stili (certe volte, persino le ideologie) del passato?
La cultura popolare vive del riflesso del postmodernismo imperante in cui tutti viviamo, che ha la caratteristica di usare idoli, sagome di cartone. Stabilito che tutti gli idoli, i topoi, sono già stati creati, di conseguenza gli autori si riferiscono al passato. Il grande contributo di Alan Moore è stato quello di infondere la tridimensionalità a queste sagome di cartone con l’approfondimento psicologico. Come nel caso della Guerra dei Mondi, sono convinto che non basti raccontare gli stereotipi con tecniche moderne per modernizzarli, o per dare grandi emozioni, o che ciò servirà a capire meglio il nostro ermetico presente.
Il postmodernismo in effetti ha un approccio molto “strumentale” e distaccato all’immaginario. Pensi che oggi si debba invece avere un maggior coinvolgimento nelle storie che si raccontano, cioè mettersi a nudo in prima persona, provare a restituire un’anima agli idoli?
No assolutamente. Io posso parlare sono dei miei gusti del momento, è giusto che convivano quanti più modi differenti possibile di raccontare storie. È una follia stabilire a tavolino cosa si deve o non deve fare. Il problema è proprio invece nel caso opposto, cioè quando viene messa in discussione la possibilità di esprimersi ognuno a proprio modo. La tendenza a considerare assoluti i propri gusti personali è l’anticamera della giustificazione dell’ignoranza.
Negli Anni Venti c’era un acceso entusiasmo verso la modernità e grandi aspettative verso ciò che di “nuovo” poteva offrire la tecnica (con i suoi riflessi negativi, ovviamente…). È questo che ti affascina di quel periodo?
Sì. È come se gli anni Venti fossero l’essenza del Novecento concentrata in dieci anni. Tutto è stato inventato lì, il cinema, le avanguardie artistiche, l’atonalismo nella musica colta e poi il jazz. L’idea è quella di un gigantesco baraccone di pionieri di cui il mondo di Giulio Maraviglia potrebbe essere la metafora, e subisco un fascino insopprimibile per baracconi e pionieri.
Giulio Maraviglia è nata come miniserie, ma presenta un universo talmente ricco di potenzialità da meritare uno sviluppo più approfondito. Ci sono speranze di leggere nuove storie dedicate a questo personaggio e al suo mondo?
Molto del futuro e del passato di Maraviglia lo decideranno le vendite del volume in edicola. Con Carmine avevamo già fatto un po’ di progettazione, era anche in fieri una nuova miniserie. La direzione che avrebbero preso le storie già s’intravedeva nel racconto breve “Il cantore dei balocchi”, su Lexy Presents numero 12. Cioè uno sviluppo delle vicende sempre più incentrato sull’anima dell’uomo degli anni Venti.
Proprio in Giulio Maraviglia è cominciata la tua collaborazione con Carmine di Giandomenico, disegnatore che, oltre ad essere tuo amico, hai sempre sostenuto e apprezzato. Non ti chiederò un’opinione sul suo primo progetto personale “Oudeis”(però, se vuoi…). Piuttosto: anche tu sei un fan sfegatato di Claudio Baglioni?!? E ci sono altri disegnatori con cui hai lavorato bene, o con cui ti piacerebbe lavorare?
Sinceramente non sono un fan sfegatato di Baglioni come lo è Carmine. L’ispirazione però è bene accetta da ogni parte.
Per me Oudeis è un’opera di grande complessità sul disorientamento dell’uomo provocato dalla natura stessa della strada che percorre. È un racconto che confonde perché non analizza le domande, ma prova a scavare dentro il segnale d’allarme attivato da questo senso di smarrimento. Ho riletto più volte molte frasi di Oudeis per capire come sono complesse nella loro apparente spontaneità da flusso di coscienza. È una capacità di racconto quasi inedita per un progetto a fumetti e mi ha affascinato da subito, quando Carmine l’ha presentato ad alcuni disegnatori della Montego. Questi poi mi hanno consigliato lui per Giulio Maraviglia che allora era quasi solo nei miei pensieri.
Carmine è stato l’evento più importante e rivoluzionario della mia vita professionale e non solo. Tutto il mio lavoro nei fumetti lo devo a lui, mi ha motivato a spingermi fin dove mi sono spinto. Siamo diventati amici e io gli devo moltissimo anche nella mia vita privata.
Un altro disegnatore con cui mi sono trovato benissimo è stato Andrea Borgioli, che ha disegnato Il dono nero numero 3. Mi piacerebbe molto lavorare ancora con lui.
Mi piacerebbe moltissimo lavorare con Michele Petrucci e credo che lui lo sappia.
L’ultimo traguardo della mia vita come sceneggiatore sarebbe lavorare con Igort. Le storie raccontate attraverso le sue pagine entrano in una dimensione più alta, come una poesia. Si elevano dallo stato di semplici oggetti di carta.
Parliamo di La Dottrina, la tua seconda storia disegnata da di Giandomenico: il primo numero è uscito nel 2002, il secondo esattamente un anno dopo, nel 2003… Ormai sono passati due anni, e i restanti due numeri non si sono ancora visti. Qual è il problema?
Non ci sono problemi. Il tempo che ci prendiamo è quello di cui pensiamo ci sia bisogno per realizzare la storia. Una volta terminato un volume poi è sempre necessario farlo uscire nei periodi commercialmente più opportuni. Così il terzo è terminato, ma uscirà dopo l’estate, posso darti per la prima volta la data ufficiale che sarà il 15 ottobre 2005. È qualche giorno prima della fiera di Lucca per permettere ai lettori che l’hanno ordinato di averlo in anteprima, ma sufficientemente vicino alla fiera perché ci si possa anche incontrare e parlarne. Dopo Lucca faremo qualche presentazione, probabilmente in alcune librerie di fumetti romane.
La Dottrina è un romanzo grafico molto ambizioso, che unisce le (apparenti) vicende supereroistiche di un “giustiziere mascherato” chiamato La Smorfia con riferimenti al Futurismo, alle Avanguardie del primo Novecento, all’estetica del Ventennio e dei regimi totalitari in genere, creando un’ambientazione claustrofobica che sembra quasi il riflesso negativo della Roma di Giulio Maraviglia. È proprio così, oppure ci sono dei punti di contatto tra questi due mondi?
La tua osservazione è molto bella, ma forse più che della Roma di Giulio Maraviglia, è il riflesso negativo mio e di Carmine. Gli unici punti di contatto tra i due mondi sono gli autori, che non è poco.
Cosa intendi con “riflesso negativo” tuo e di Carmine? Avete inserito degli elementi autobiografici?
Intendo che certo per realizzare La Dottrina siamo andati a pescare nel lato più oscuro di noi, dove si sono cementate le paure. E sicuramente ogni lavoro creativo risente delle circostanze della vita di chi lo svolge. Mia mamma quando vede immagini de La Dottrina ripete sempre la stessa frase “quanti danni può fare una maestra sbagliata alle elementari”.
La vicenda de La Dottrina sembra voler sfidare la percezione del lettore con immagini e situazioni a volte familiari, a volte volutamente incomprensibili. Di sicuro, tutto sarà più chiaro con la conclusione della serie, ma per ora l’effetto è alquanto straniante… a tratti il lettore si trova, suo malgrado, a perdere le coordinate della vicenda raccontata, fino a sospettare di essere vittima di un grande inganno. È un effetto voluto, oppure solo una mia sensazione?
Abbiamo cercato di ricreare la sensazione di straniamento che si prova quando ci si pongono domande sulla realtà. Ma questo è solo un elemento della storia, che io credo anche marginale. Mi piacerebbe che alla fine chi legge non percepisse di essere stato solo vittima di un artificio, in quel caso, almeno io, sentirei di non aver raccontato molto più che un giochino. Se La Dottrina non trasmettesse soprattutto sentimenti come spero, avrei sbagliato mira.
In effetti La Dottrina trasmette una certa angoscia e ansia trattenuta (il parallelo con l’ambiente repressivo della scuola è evidente) ma anche un impeto di ribellione che aspetta di scoppiare. Nel terzo capitolo – il mio preferito finora – si sviluppa una storia d’amore tra due personaggi che sembra proprio la chiave di volta della vicenda…
È una delle chiavi di volta più prevedibili. La storia d’amore fra Tea e Tonio è molto rappresentativa di come io e Carmine vediamo La Dottrina. Cioè un racconto il cui punto di vista insegue i protagonisti e i loro sentimenti di cui ti dicevo, e che lascia in gran parte fuori campo l’azione generale. Questo penso che sia il motivo per cui la storia ha questo ritmo irregolare, “jezzato” come lo definisce Andrea Ciccarelli.
Per l’ambientazione distopica della Dottrina si sono scomodati molti precedenti illustri, da 1984 di Orwell a Fahrenheit 451 di Bradbury fino all’intoccabile V for Vendetta di Moore… Quando hai scritto la storia avevi proprio in mente questi riferimenti? E ti aspettavi le critiche che sarebbero arrivate, dopo questi confronti?
A parte 1984, non avevo questi riferimenti, e chi ha letto entrambi i volumi usciti finora se ne è accorto. I riferimenti sono stati altri, ma non è importante, perché è giusto che chiunque legge la storia ne abbia una propria visione.
Rispetto ad altri fumettisti italiani della tua generazione, mi sembra che ci sia un certo interesse da parte tua per la storia e per la cultura del nostro Paese, dal punto di vista letterario, architettonico, ecc. Una pratica molto rara, specialmente nel fumetto italiano. Tu che ne pensi?
Chi può raccontare quello che preferisce non solo ha una fortuna immensa, come è successo a me, ma dice anche molto di sé agli altri, dei propri gusti, della propria cultura, di come percepisce il mezzo che usa. È ovvio che chi ha questa fortuna la sfrutti cercando e raccontando quello che più lo emoziona e probabilmente anche chi lo legge si emozionerà.
Non mi interessa la cultura americana perché è molto distante dal mio modo di ragionare e dai miei valori, per la maggior parte la disprezzo profondamente. Mi interessa molto il luogo in cui vivo, la gente che ci vive con me e quella che ci è vissuta in passato, i pensieri e le loro emozioni. E questo cerchio dall’Italia si restringe al Lazio, tra un po’ forse avrò voglia di parlare solo del mio quartiere di Piazza Bologna.
La cosa che non tollero è quando qualcuno dice come qualcosa andrebbe, o non andrebbe, fatta in senso assoluto. Perché assoluti sono solo i pensieri degli ignoranti.
L’ambientazione familiare è un elemento molto presente nelle tue storie, pur con una rilettura in chiave fantastica. Hai mai pensato di fare il contrario, cioè di raccontare storie e personaggi immaginari o “inconsueti” in un contesto più realistico e attuale?
La cosa che mi dà più emozioni è leggere storie che ruotano intorno ai personaggi e personaggi che vanno fino al fondo di loro stessi. Protagonisti tridimensionali, come si dice, che hanno reazioni tanto reali da essere spesso senza eleganza e scomodi perché ricordano quando ci si guarda allo specchio. Questo di conseguenza è quello che provo a riproporre quando scrivo. Andando avanti, preferirei anzi dare maggiore realismo anche al contesto entro cui si muovono.
Sia nella Dottrina sia nel racconto breve di Giulio Maraviglia apparso su “Lexy Presents” è molto presente il riferimento al Futurismo, una corrente artistica italiana del Novecento che, tra l’altro, ha fornito vari spunti alla definizione del fumetto come linguaggio (penso allo studio effettuato sul movimento, all’uso narrativo dei caratteri tipografici, all’invenzione delle linee di forza, ecc.). Che cosa ti affascina in particolare di questo movimento artistico?
I motivi di fascino sono infiniti. Per dirne uno, mi entusiasma il loro spirito artisticamente rivoluzionario. Condivido questa esaltazione della capacità incendiaria della creatività.
Proprio come te, penso che abbiano gettato le basi per quello che è lo spirito più profondo del fumetto. E credo che il fumetto sia il loro sogno che si è realizzato, cioè arte che esce dai musei, arte per tutti.
Tuttavia l’arte per tutti oggi è diventata prevalentemente cinema, televisione, videogiochi, realtà virtuale, mentre il fumetto è invece stato per lo più relegato al ruolo di medium minore per pochi collezionisti e nostalgici. Sei d’accordo?
La storia la scrivono i vincitori, no?
Uno dei temi sotterranei della Dottrina è la finzione, o forse dovrei dire l'uso distorto della realtà per controllare e manipolare le coscienze. Forse, proprio in questo discorso va inquadrata la attinente campagna di marketing realizzata dal Gruppo Saldatori... ritieni che quella campagna (al di là dell'attenzione creata, che ha sicuramente giovato alle vendite) sia stata utile a comprendere il significato della Dottrina? E, in generale, in che modo pensi che il marketing possa aiutare il fumetto?
Non penso che il marketing aiuti a comprendere il significato di una storia a fumetti che, se c’è, è bene che resti anche soggettivo per chi legge. Il marketing dovrebbe aiutare a parlare di un prodotto e a venderlo. E secondo me i fumetti hanno bisogno di entrambe le cose.
Una volta si diceva che i fumetti erano roba da bambini, oggi si dice che le Graphic Novel sono roba da radical chic… In una parte degli appassionati (perlomeno in Italia) si è radicata l’idea che denominare con il termine “Romanzo Grafico” un certo tipo di narrazione a fumetti denoti un atteggiamento snobistico, di presa di distanza dalle forme e dalla tradizione del fumetto “puro”. Tu cosa ne pensi? Ti senti un “radical chic”?
Radical chic non me l’avevano mai detto. Se lo sapesse mamma…
I fumetti sono anche, e non solo, roba da bambini. Credo che chi fa un lavoro creativo provi a riproporre le cose che lo appassionano, non ci vedo nascoste grandi ideologie. Le denominazioni non le capisco mai bene, sono cose da archivisti eppure chi le fa crede di redigere manifesti ideologici.
La Montego, la casa editrice che hai fondato e diretto, ha ormai da tempo interrotto le sue pubblicazioni. Cosa hai tratto da questa avventura editoriale? Se la rifacessi oggi, cambieresti qualcosa?
Oggi pretenderei di avere un ruolo più definito, perché si voleva che mi assumessi delle responsabilità senza poi darmi realmente il potere di decidere.
Come apprendistato devo tutto alla Montego, troppe cose per elencarle. La prima e più fondamentale è che avevamo completa libertà d’espressione e questo mi ha abituato a usare la fantasia senza condizionamenti. È il più grande insegnamento, a qualsiasi cosa mi dedicherò.
Tu hai lavorato sia con la Bonelli (su Martin Mystère), sia con progetti più autonomi e personali. Puoi spiegarci, dal tuo punto di vista, la differenza tra questi due modi di lavorare? Hai mai pensato di proporre qualche tuo lavoro all’estero?
Lavorando per un personaggio che ha già una sua storia si è al suo servizio, invece creando un proprio progetto si rischia di più, si mette in gioco se stessi, non c’è il Buon Vecchio Zio Marty che ci protegge. Sentendomi agli inizi, ho voglia di rischiare in prima persona, in questa prospettiva certo mi piacerebbe molto concretizzare qualche progetto all’estero, sperimentare diverse libertà creative.
Ti consideri più un appassionato di fumetti o uno scrittore di fumetti? Quali sono le tue letture preferite in questo momento?
In questo periodo della mia vita mi considero più sceneggiatore perché mi piacciono pochi dei fumetti che escono e questi in genere non piacciono alla maggioranza di chi legge o fa fumetti. In questo momento amo molto Fats Waller di Sampayo e Igort, il primo volume di Les Passe-Murailles un albo francese di Cornette e Oiry, Jinbe di Adachi, The Death Ray di Clowes e una storia di Topolino che rileggo spesso, “Macchia Nera e il buon vicinato” di Savini e Cavazzano.
Se ti dessero carta bianca, con quale personaggio (italiano, Marvel, DC…) ti cimenteresti volentieri, e perché?
Mi tufferei anima e corpo su qualunque personaggio per cui mi dessero carta bianca.
So che uno dei tuoi miti è l’ex sceneggiatore di fumetti Peppe Ferrandino. Come mai secondo te ha abbandonato il fumetto per dedicarsi alla scrittura di romanzi? Ritieni che il fumetto in Italia oggi (non tanto come linguaggio, quanto come apparato) offra a uno scrittore la possibilità di raccontare le storie che vuole?
Ferrandino è difficile da inquadrare, anche nei gesti più ovvi. Penso che sia troppo avanti per accettare di scrivere secondo i canoni imposti dalla necessità di guadagnare e dalla tua domanda capisco che è un’intuizione che hai avuto anche tu. Grant Morrison ha dichiarato recentemente a Newsarama che spera di riuscire a dedicarsi alla prosa, perché non è stato soddisfatto dell’accoglienza che ha ricevuto il suo stupendo “Seaguy”. Lui dice che i lettori di fumetti non sono più in grado di capire le strutture metaforiche, il simbolismo che in Morrison è cardinale per apprezzare la sua scrittura. Detto in maniera banale, crede che ci si aspetti dai fumetti solo una lettura di svago, che non costringa a pensare.
Io non riesco a dare ai lettori la responsabilità del disagio di Morrison, perché sono vari e tutti interessati a cose diverse. È un chiaro interesse degli editori, e spesso degli autori stessi, raggiungere il più largo consumo possibile, per una questione di guadagno, di successo. Certo la difficoltà di lavorare dipende dal tipo di storie che un autore vuole raccontare, più sono diverse da quelli che si ritengono i parametri di mercato, più è difficile realizzarle.
Oltre a Ferrandino, ci sono altri autori (di fumetti e non solo) che ti hanno in qualche modo influenzato o ispirato?
Negli anni Settanta, in pieno funambolismo verbale e letterario, Goffredo Parise, incontrando per strada un bambino, si fece attrarre dal suo abbecedario. Aprendolo lesse “l’erba è verde”. Legò l’immediatezza di quell’immagine anche alla sua profondità e in un periodo di abbondanza di parole e concetti, sentì il bisogno di un ritorno alla semplicità per ritrovare i sentimenti, le cose essenziali della vita. Così, cominciando dalla lettera A, scrisse un racconto per ogni sentimento fondamentale, poi raccolti nei “Sillabari” appunto. Sono piccoli gioielli che somigliano molto a poesie per la brevità e la capacità di suggestione, con una scrittura fortemente determinata alla ricerca della semplicità.
Più volte in questa intervista credo di aver ripetuto le parole sentimento, emozione e simili. La lista degli autori che mi influenzano è lunghissima e intuibile, soprattutto per il fumetto. Ti cito l’esempio di Parise perché in questo momento della mia vita è la cosa che mi è più vicina.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Il 15 ottobre 2005 uscirà il terzo volume de La Dottrina. Per me e Carmine è il fumetto più importante che abbiamo mai realizzato. Lo abbiamo riletto, riflettuto e curato in ogni parte. Ci abbiamo messo dentro tutti noi stessi e crediamo fermamente che sarà a lungo il nostro massimo. Speriamo che venga letto e che ne possiamo parlare molto per condividerne le emozioni che ci ha dato realizzarlo e che speriamo restituisca a chi lo legge. In questo momento tutti i nostri pensieri sono lì.
Grazie mille Alessandro, e in bocca al lupo!
Crepi! Grazie a te e a presto.
Davide Scagni - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Francesco Farru