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Nadia Rosso

Nadia Rosso

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Tra mito e storia: L'Età del Bronzo di E.Shanower

Vedea Troia in cenere e in caverne:
o Ilïon, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne!


(Purgatorio, XII, 61-63, girone dei Superbi)

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta…
L’Età del Bronzo è per gli autori greci, che la raccontano come una perduta età dell’oro, l’età degli eroi. È l’epoca (1450 a.C.-1100 a.C.) in cui Micene, capitale dell’Egeo, domina su tutto il Peloponneso e accentra il suo potere nelle mani di un unico uomo, il sommo re. Il paesaggio è brullo, le montagne contornano le rade pianure fatte di sassi e rocce inospitali. È terra di pastori. Micene è però sommersa d’oro: le sue tombe sono letteralmente cariche di maschere auree e foglie sottili da poggiare sugli occhi dei defunti. La città è sotto la protezione di Hera, ma il sigillo della dea non basta a propiziarsi i commerci e i passaggi delle navi che si dirigono dal Mediterraneo ai paesi asiatici, passando per i porti e i dazi delle città dell’Asia Minore. Troia invece è là, a poco più di sei chilometri dal mare Egeo e vicinissima allo stretto dei Dardanelli, in una condizione fortemente strategica e, quindi, fortemente invidiata.
La guerra di Troia sarebbe stata cantata diversi secoli dopo la vicenda che il mito tramanda; l’eco della sua portata negli equilibri dell’Egeo non avrebbe tardato ad arrivare e a generare fantasie su fantasie, leggende su leggende. Un archeologo tedesco, Heinrich Schliemann, ne restò così affascinato da partire con la moglie, nel 1870, alla volta della Turchia e della Grecia. Ne La scoperta di Troia l’archeologo commenta l’appassionata ricerca delle tombe degli Atridi, di coloro che, superbamente e troppo ambiziosamente, partirono all’assalto di Troia per abbatterne la potenza e spegnerne la gloria e il predominio sull’ambito e strategico Ellesponto.
Dopo secoli e secoli, l’epopea troiana continua però ad affascinare e ad ammaliare i lettori con le storie dei mitici re Priamo, Agamennone, Menelao. L’artista americano Eric Shanower non per nulla, quindi, intitola la sua graphic novel in sette volumi a questa età e alle due civiltà che intorno al II millennio a.C. si contesero la supremazia nel mar Egeo. Il ciclo in progetto, dall’autunno del 1991, si inserisce perciò perfettamente nella storia della ricezione del mito greco e troiano. Una storia di dare e avere, di rielaborazioni e confronti, di fusione degli orizzonti.
L’Età del Bronzo non smentisce l’intenzione dichiarata dal suo autore: «La storia parla alla nostra nuda umanità […]. In che altro modo avrebbe potuto essere continuamente rinnovata da un’era alla successiva, narrata e rinarrata, definita nei dettagli, abbellita nei vecchi episodi, e arricchita di episodi nuovi? Chiamatela come volete […] ecco a voi la storia, di nuovo. Una nuova versione, per un nuovo secolo.» (dalla Postfazione dell’autore a Mille Navi).
La riscrittura del mito operata da Shanower è infatti un grandioso palinsesto bachtiniano ricostruito sulle tracce di tutti quei testi, di tutti quei miti e quelle leggende che rendono ancora oggi le tragiche ed epiche vicende di Troia assolutamente leggibili e godibili da ogni lettore. La monumentale opera pensata dallo scrittore e disegnatore americano non può, pertanto, non relazionarsi ai celebri poemi epici del cieco cantore di Chio e, contemporaneamente, non rifarsi a quei testi che hanno aggiunto particolari e dettagli preziosi al complicato districarsi della vicenda. Si fa riferimento dunque ai tanto noti poemi dell’Iliade e dell’Odissea, entrati di diritto nel novero dei classici nella Poetica di Aristotele; alle Argonautiche di Apollonio Rodio; alla storia di Troilo e Cressida tinta d’amor cortese; alle tragedie di Sofocle ed Euripide; alle testimonianze dei loro epigoni latini; ai frammenti di opere preziose e controverse; allo sdegno lucreziano del De Rerum Natura per gli atti barbari e superstiziosi. Si fa, dicevamo, riferimento a tutto questo, alla nostra tradizione, ai nostri miti, alla nostra cultura, ma si potrebbe anche non aver letto un solo rigo dell’Iliade, si potrebbe a malapena conoscere il nome di Chaucer o di Benoît de Sainte-Maure, ci si potrebbe insomma avvicinare alla storia completamente all’oscuro delle vicende che tanto da fare hanno dato a letterati ed artisti, e rimanere, nonostante la naïveté dell’impresa, assolutamente affascinati dai disegni e dallo storytelling dell’artista americano, dal suo modo di raccontare i fatti e di riferire le vicende, dalla sua accattivante visione dei destini achei e troiani.
C’è posto per tutto. Come un’unica e grande religione sincretica, il ciclo di Shanower – incompleto al momento, in quanto solo due dei volumi in progetto, Mille navi e Sacrificio, hanno ancora fatto la loro prima apparizione in fumetteria – tenta di assimilare e aggregare la storia della Guerra di Troia ai miti e ai temi pagani e cristiani, greci e latini, francesi, italiani e inglesi a questa collegati, in un amalgama logico e consequenziale, fornendo una propria versione della storia, venendo a patti con quello che essa ci ha concesso di conoscere attraverso scavi e testimonianze scritte, mentre altre volte, più avara, attraverso frammenti di grammatici interessati più all’exemplum scelto che alla bellezza e al ritmo dei versi. Certo, l’impresa è ardua, forse impossibile, ma l’ingegno e l’estrema pazienza e passione del suo autore ne hanno fatto un’opera che tenta, senza eccessive difficoltà (o non dovremmo forse dire ‘vistose’, dato che il prezzo della leggerezza è un faticoso lavoro di scrittura e di controllo?), di riunire in un più logico coacervo di azioni e nascite, morti e tradimenti, il comporsi della guerra troiana, dalle sue cause più affascinanti alle sue più nefaste conseguenze. Per questo motivo, Shanower ha letto tanto (e bene), ha interpretato passi ambigui e ha selezionato dall’asse paradigmatico delle possibilità l’azione o le vicende più congeniali alla sua storia. Nonostante il difficile confronto e le più critiche attese che, giustamente, attendono al varco ogni interprete del ciclo troiano – ciclo forse fra i più imitati e recepiti dalla cinematografia, dalla letteratura e dall’arte di ogni tempo e luogo – Shanower ha sempre pensato ad una sua personale interpretazione del mito, ad una sua lettura delle vicende.

E qual de’ numi inimicolli?
L’epopea moderna doveva però subire, a detta dell’autore, qualche ritocco. Potevano gli dei occupare tanta parte delle vicende, potevano essi deviare il corso della storia, il destino degli eroi, le decisioni di potenti re e regine? Non più, non più almeno nel XXI secolo, senza rischiare di far apparire l’epopea ingenua e anacronistica. Lo stratagemma teatrale euripideo del deus ex machina – vera e propria irruzione sulla scena del dio nelle faccende umane per sciogliere l’intreccio e risolvere una situazione intricata – non può più funzionare per il lettore moderno ormai smaliziato e abituato a ben altre tecniche stranianti. Senza l’intromissione di divinità e celesti creature scese appositamente dall’Olimpo, e lasciando nell’opera solo tracce di sogni e preghiere, suppletivo umano alle mancanze divine nella vita terrena, l’autore ha tessuto la sua versione dei fatti, tentando di appianare, se non proprio di annullare, le divergenze nelle leggende nate intorno ai più noti personaggi del fortunato ciclo. La storia ricomincia, dunque. E non è forse questa la caratteristica dei cicli, quella di ricominciare a cantare?
Preoccupazione costante è stata, quindi, quella di relegare dèi capricciosi e testardi, viziati e inebriati dal tributo di sangue umano, a mero sfondo, a latente credenza, a larvale e costante presenza in residui diurni fatti di doni e offerte votive, preghiere e dormiveglia agitati da strani tremori e visioni apocalittiche. Pensiamo alla resistenza di Cassandra, figlia del re troiano Priamo, alle profferte amorose del dio Apollo e alla conseguente punizione di poter proferire solo eventi a cui nessuno crede. In Shanower, il momento dell’amplesso (che in verità non avvenne) è ricordato dalla fanciulla di fronte al fratello Eleno, colpevole di averla lasciata da sola al tempio mentre il dio abusa di lei. Le visioni di Cassandra, l’odio nei confronti di Elena non saranno mai realmente intese dai suoi concittadini. Sarà con un’immagine angosciante e premonitrice di sventure, il sogno di partorire una torcia, che Ecuba (Ennio, Annales) coglierà il messaggio nascosto dietro questo cattivo presagio per la città di Troia. Il frutto di questo infausto parto sarà Paride, personaggio che Shanower ha cura di assimilare spesso e volentieri ad immagini di fuoco e a fiaccole ardenti. Il giovane troiano ritornerà, nonostante l’interdetto, alla corte del re Priamo, avviando così le nefaste vicende che il mito tramanda. Non per nulla, Orazio canterà il fuoco greco che brucia le dimore troiane, «uret Achaicus/ignis Iliacas domos» in un sinistro, quanto efficace, accostamento di termini.
Fuoco, fiamme, armi e disperazione, pianti e lutti. In queste visioni c’è tutta la paura per l’incognito e per il futuro, c’è l’ansia delle madri – Ecuba, Teti, Elena, Clitemnestra – per il destino dei propri figli, c’è il timore di condurli alla morte e la speranza di poterli sottrarre ad un destino breve seppur glorioso. Per questo, confessa l’autore, nella sua storia i sogni restano, le preghiere fanno da eco alle domande senza risposta, gli oracoli non sono altro che il calcolo di indovini e di sovrani il cui machiavellismo governa e impera su tutto, il raptus delle sacerdotesse è furor e pazzia, forse, o forse qualcosa di ben più umano e clinicamente curabile.
Gli dèi non abitano L’Età del Bronzo, sembra suggerire l’autore. Non c’è più posto per loro in questa epopea moderna corretta e rivisitata. E se non c’è più alcun dio, è stato detto nel testamento letterario di un grande romanziere russo, allora tutto è permesso. La guerra e il lutto possono quindi procedere senza ipocrisie, sfoggiando la turpe ragion di Stato e la dura legge dell’imperialismo che ieri era di Troia, di Atene, di Roma e che oggi si traveste di democrazia.

Deh, mi sciogliete la diletta figlia…
In Sacrificio, ancor più che in Mille navi, Shanower prende posizione riguardo alle decisioni forti e irrevocabili dell’individuo di fronte alla Storia e al potere della superstizione e del fanatismo delle masse stanche e frustrate. Se in Mille navi, infatti, l’autore si è quasi limitato a riferire i fatti (ma l’obiettività storiografica è una chimera che non si può inseguire a lungo), a presentare un individuo in base alle scelte che ognuno può sempre fare, in Sacrificio qualcosa cambia; le decisioni dell’esercito panellenico e di Agamennone, in primis, vengono quasi giudicate; le loro azioni non hanno più alcunché di meccanico e dato ed il lettore sente che esse possono essere soppesate e giudicate una ad una. Ancor prima della persona del sovrano, con tutta la carica di simboli e significati che la regalità finisce per rivestire, viene presentata la notte angosciata e angosciante di un uomo, significativamente senza paramenti regali, che deve immolare la propria figlia per placare una divinità irata per via dell’uccisione del suo cervo sacro.
Episodio centrale dell’epopea (e, non a caso, del secondo volume di Shanower intitolato, lo ripetiamo, Sacrificio), l’offerta della vergine Ifigenia viene riferita dall’autore tenendo in considerazione le diverse versioni del mito. Alcune raccontano di un sacrificio realmente portato a compimento solo perché l’ambizioso re Agamennone, appartenente alla stirpe maledetta degli Atridi (in quanto figlio di Atreo, discendente di Tantalo, reo di aver osato provare la supposta onniscienza degli dei imbandendo loro le carni del proprio figlio Pelope durante un banchetto) deve propiziare il lungo viaggio che attende le navi achee, frenate in Aulide da un vento incessante che le blocca sulla spiaggia; le altre versioni riferiscono invece di un salvataggio in extremis da parte della vendicativa Artemide, a cui l’Atride aveva ucciso in passato un cervo, animale a lei sacro (in verità si tratta di Atteone, giovinetto di cui Ovidio racconta la metamorfosi in animale per un error, ossia per aver visto la dea fare il bagno nuda). E, in effetti, anche nella versione di Shanower il dubbio resta. Atterrati da un tuono nel bel mezzo della tempesta, gli increduli soldati si ritrovano solo con una cerva appena sacrificata. Nessuna traccia di Ifigenia. Secondo la versione di Euripide (Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride) la fanciulla sarebbe stata trasportata in Tauride e ritrovata successivamente dal fratello Oreste, che a sua volta si sarebbe macchiato di un delitto tremendo, il matricidio, non sfuggendo così alla persecuzione delle Erinni e alla maledizione che grava sulla discendenza di Atreo. Ma, a prescindere da questa o quell’altra versione del mito, è il lungo travaglio del re Agamennone a tenere desta l’attenzione del lettore. Graficamente, Shanower non poteva fare di meglio. Le fattezze del re, che siamo ormai abituati ad associare all’impronta aurea della celebre maschera (rinvenuta a Micene dallo Schliemann nel 1876), si fanno sempre più ottenebrate da una cupezza e da un senso di colpa che non ha confronti nella storia. A fare da eco allo stato d’animo del sovrano è il fruscio del vento, insostenibile, sempre presente, quasi ossessionante nel suo ripetitivo scandirsi sillabico che delimita, visivamente, i margini delle vignette, fino al momento in cui l’innocente Ifigenia compare sulla soglia della tenda per dichiarare il suo assenso al sacrificio che accrescerà la gloria degli achei. In verità, Shanower qui addolcisce la pillola: Ifigenia non diede mai l’assenso al proprio sacrificio se il mito la ricorda in ginocchio, supplicante i suoi carnefici, ammutolita dal terrore. D’altra parte, non le fu mai detta la verità e l’essere sollevata dinanzi all’altare fu interpretato dalla fanciulla come parte del cerimoniale, nel rispetto dei riti nuziali. Shanower evita persino di mettere in scena la parte forse più crudele tramandata dalle varie versioni sul sacrificio, che vogliono che sia stato il padre ad abbassare il pugnale sulla figlia. Nella scena disegnata dall’artista americano, il padre Agamennone e lo zio Menelao sono mischiati infatti tra la folla, quasi privi della responsabilità dell’atto appena compiuto.
Solo allora il vento si cheta. Queste pagine sembrano non a caso riecheggiare lo sdegno di Lucrezio, che pare accettare la versione che vorrebbe perpetrato davvero l’orrendo sacrificio in nome di una religio irrazionale e fanatica, pura superstizione, per un atto di tale portata: «Tantum religio potuit suadere malorum», a così grandi delitti la religione poté spingere gli uomini.
I personaggi diventano quindi sempre più sfaccettati e la dimensione umana, con l’ambizione, la paura, il coraggio che è proprio di certe azioni, viene ad essere la condicio senza la quale non si potrebbe capire del tutto il comportamento di Paride, di Elena, di Odisseo o di Agamennone. Pagina dopo pagina, episodio dopo episodio l’affresco creato da Shanower si arricchisce di nuove tinte e prepara a nuove interpretazioni. Ed ecco che l’uomo, così come Shanower lo dipinge, non è mai tipo ma personaggio.
Il primo paperback è dunque un preambolo al secondo, come il secondo lo sarà al terzo, in una ciclicità continua e ininterrotta. I destini del popolo acheo e di quello troiano si uniscono fatalmente, le lance si incrociano in battaglia, i fiati si sospendono prima della partenza, il vento si placa. Ifigenia ha pagato per tutti e per la colpa del padre e del padre del padre, Achille va incontro al suo destino, il deforme Tersite non riesce più a mettere in cattiva luce l’uomo che ha sacrificato «la cosa più bella» di Micene, Odisseo capisce di poter far leva sulla sua astuzia per manipolare il re e la folla cieca dell’esercito acheo. Shanower ha ormai avviato la macchina da guerra, ha insinuato il dubbio nel lettore, ha suggerito una delle possibili interpretazioni del mito e della storia.

Or va, sciogli le navi
Le mille navi achee, ferme ormai da tempo sulla spiaggia dell’Aulide, sono pronte a salpare. Questa è l’immagine finale di Sacrificio. Il terzo volume, Tradimento, attende di essere completato. L’impresa immane attende una soluzione, ma il talentuoso Shanower lavora da anni con cura e con relativa calma. D’altra parte, i primi diciannove albi hanno già in parte ripagato il loro autore con premi (due volte vincitore del Premio Eisner nella categoria Miglior scrittore/disegnatore) e riconoscimenti da ogni parte del mondo. Age of Bronze è tradotta in mezza Europa e, ovunque venga pubblicata, raccoglie plausi e lodi.
L’asciuttezza del suo tratto inchiostrato in bianco e nero rende realisticamente i dettagli ricostruiti filologicamente. Gli scenari, l’abbigliamento, i culti, le tradizioni, tutto ciò che fa la gioia di un antropologo e di un etnologo, sono qui riassunti e impiegati quasi senza far notare lo sforzo della ricostruzione, la fatica della ricerca che sottende una simile impresa.
L’indiscutibile bravura dell’artista americano permette dunque ad ogni lettore, colto o meno colto, di godere della lettura, di godere del disegno, di emozionarsi di fronte alle vicende tutte umane di una madre che teme per la sorte del figlio, di un padre perseguitato dalle erinni, di un amante che darebbe la propria vita per il proprio amato, di una vittima innocente che paga il fio di appartenere ad una famiglia maledetta dagli dèi. L’amore, la rabbia, la vendetta, il tradimento, la morte, il dolore, il lutto, la pietà: ogni sentimento umano entra a far parte della saga troiana. Non ci sono dubbi sul fatto che questa fiction storica abbia avuto sin dall’inizio tutto questo come scopo. Shanower sa bene infatti come miscelare gli ingredienti e riuscire a somministrare con le giuste dosi il pathos necessario perché il lettore senta su di sé la grandezza di un tale tema e convenga, con l’autore, nel dichiarare che la storia (il mito) affascina perché è capace di raccontare le «cose piccole e grandi allo stesso tempo, questioni come amore, lussuria, morte, la percezione di sé e l’individuo in relazione col mondo». Parole, non per niente, stranamente vicine a quanto scritto ne Il midollo del leone da Italo Calvino sulla funzione della letteratura (dell’arte, tout court, aggiungiamo noi): «La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini, deve […] insegnar loro, servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a essere sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti. Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla vita, come tutti noi dobbiamo continuamente andare ad impararlo».

Di complotti, pregiudizi e altro... (Eisner e non solo)

Taeterrima gens secondo Tacito, deicidi secondo i cristiani, infidi e traditori secondo la vulgata popolare, uccisori di bambini durante i sacrifici pasquali persino secondo il Chaucer dei Racconti di Canterbury, personaggi tragicomici secondo Shakespeare, usurai e venditori di lorgnettes secondo il Flaubert del Dizionario dei luoghi comuni, gli ebrei hanno subìto in ogni tempo e in ogni luogo ogni sorta di etichettatura e di epiteto, ogni sorta di infamia e di pregiudizio sia nel mondo della fiction, sia nel mondo sottratto all’effetto di reale di barthesiana memoria. Non c’è dunque da sorprendersi se ancora il XXI secolo si macchia di preconcetti e idee false, perpetuate di generazione in generazione da gente ignorante e bigotta o, e forse è peggio, da gente in malafede e manipolatrice. Le idee popolari, le convenzioni facilmente accettate senza uno scrupoloso e legittimo controllo delle fonti, amava sostenere il misantropo e illuminista Chamfort (1741-1794), sono di certo delle stupidaggini. Il problema nasce quando le dicerie, le maldicenze, le superstizioni smettono di occuparsi di gatti neri e numero di commensali a tavola e toccano invece la natura di un popolo, il destino di una nazione ormai, proverbialmente (sic!), senza casa, senza identità politica univoca, ma non per questo senza radici.

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Il lamento per la terra strappata e la terribile poesia del coro del Va’ pensiero verdiano (ora penosamente assurto a emblema della razza padana di celtica stirpe) fissano una delle tante persecuzioni e diaspore della storia nei confronti del popolo ebraico; l’imperialismo dell’impero romano porta invece il saccheggio e la violenza persino nell’interdetto e inviolabile Sancta Sanctorum di Gerusalemme, sotto i colpi di Pompeo prima, sotto le grida d’incitamento di Vespasiano e di Tito poi. La violenza viene così legittimata e l’antisemitismo nei confronti di chi ha ucciso il Messia, seppur ignorandolo, viene rinvigorito ed esasperato per l’ennesima volta. Ma, evidentemente, la religione ha in tutti questi episodi e in tutti questi attacchi di intolleranza poco da spartire con la vera natura dell’odio per i «figli d’Israele»; lo spauracchio dell’ebreo è diventato un passepartout per ogni atto di aggressione, una licenza a guerreggiare e incamerare territori e ricchezze. Una buona scusa e un motivo di forte distrazione per il popolino, altrimenti attirato dai veri problemi di politica interna. I re cattolici infatti capiranno presto la lezione degli antichi e se ne serviranno per la buona conduzione dello Stato. La Chiesa, che uscirà rinnovata dai provvedimenti adottati per la salvaguardia della fede nel IV Concilio lateranense (1215), stabilirà persino l’abbigliamento più adatto a rendere riconoscibile ogni ebreo, permettendo così implicitamente ai sovrani europei di scatenare feroci pogrom ed espulsioni coatte dai propri confini.

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Cacciati dunque da tutti i territori della futura Europa, ad esclusione di qualche isola felice, agli ebrei viene offerta una chance nella Spagna e nel Portogallo del XV secolo: la conversione. I marranos, i ‘porci’, così vennero bollati perché traditori nei confronti del proprio credo e falsi adulatori del nuovo dio cristiano, furono infine espulsi, previo avvertimento di tre mesi, dall’ultima paladina della fede cattolica, Isabella di Castiglia, e dal marito, Ferdinando d’Aragona, il 31 luglio del 1492. Durante questo felix annus la Spagna strappò ai mori, e riconquistò sotto il proprio vessillo, il regno di Granada, cacciò gli ebrei e si avviò precipitosamente a diventare grande finanziatrice delle imprese che avrebbero portato, il 12 ottobre dello stesso fatale anno, Colombo a toccare le coste di San Salvador. Questo il prezzo pagato dall’età moderna.

In compagnia dell’inseparabile candelabro a sette punte, ghettizzati persino nella ‘liberale’ Venezia, gli ebrei continuarono le loro metamorfosi per sopravvivere all’ignoranza di cui il popolo si faceva scudo e ai calcoli subdoli dei regnanti di ogni tempo. E se il cristiano – intimava Sant’Agostino, facendosi forte di precedenti disposizioni canoniche – non doveva occuparsi della riscossione dei tributi e non doveva vendere o mercanteggiare, all’ebreo non restò che occuparsi delle faccende più esecrabili per il resto degli uomini toccati dalla grazia divina, e finire così per vivere latui e pregare al lume delle sette sacre candele.

La vicenda dei fantomatici Protocolli dei Savi Anziani di Sion si inserisce proprio nello stupidario scritto dalla Storia nel corso dei secoli, e dei millenni, intorno alle sinistre qualità possedute dal popolo ebraico per soggiogare le nazioni che un tempo lo avevano tenuto sotto scacco. Un complotto in tutta regola, scandito da un disegno perfido, diabolico, globale. E proprio The Plot (trad.it. Il Complotto, Einaudi 2005) è il titolo dato da Will Eisner alla sua opera postuma, una sorta di testamento su cui si deve ancora sufficientemente riflettere e scrivere. L’esigenza di dare una risposta definitiva alle alterne vicende dei Protocolli ha sempre solleticato, infatti, la volontà di uomini di non poca levatura morale e intellettuale. La storia segreta dei Protocolli dei Savi di Sion (questo il sottotitolo dell’opera) doveva quindi anche essere raccontata da un genio dell’arte sequenziale, qual è nel panorama mondiale contemporaneo lo scomparso Will Eisner (1918-2005). Figlio di immigrati ebrei, il padre di Spirit conosce in America il pregiudizio e l’ignoranza nei confronti del suo popolo e decide di volerne sapere di più e di scrivere una risposta, la sua, alla pletorica presenza dei Protocolli nelle librerie e nelle bancarelle di mezzo mondo. La loro diffusione è forse paragonabile, infatti, alla fortuna dell’hitleriano Mein Kampf che, scrive Eisner nella Introduzione al volume, era stato già da lui «relegato in un’ideale biblioteca della letteratura malvagia».

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Il ‘perfido disegno’, secondo i fautori dei Protocolli, sarebbe nato all’indomani dell’affaire Dreyfus quando Theodor Herzl, per rispondere all’ondata di antisemitismo scoppiato in Francia in seguito al caso giudiziario più celebre dell’Ottocento, organizzò a Basilea il primo Congresso sionista. Il potere intellettuale non aveva vinto, lo zoliano J’accuse rivelava retroscena politici e malaffare nazionale, ma non riusciva a mettere al riparo dagli attacchi di intolleranza né Dreyfus, né tantomeno la bistrattata figura dell’ebreo nel mondo. E allora, secondo chi crede ancora oggi alla validità di questi falsi storici, ecco che gli ebrei decidono di riunirsi a Basilea e di mettere per iscritto un programma da veri signori del male, un resoconto dettagliato della scalata al mondo e ai piani alti della finanza e della politica. Il tutto da attuarsi in una Russia in preda a profondi disagi economici e politici e retta da uno zar, Nicola II, pronto a fare dell’ebreo la testa di turco della situazione. Niente male per una sceneggiatura, ma abbastanza ridicolo e maldestro per un gruppo di sedicenti rappresentanti delle tribù ebraiche che si mettono a tavolino per discutere del mondo e del suo futuro, parlando come delle macchiette che fissano i loro movimenti scandendoli con frasi dal tono apodittico e profetico ad un tempo, e davvero troppo esplicite e adattate alla bell’e meglio per essere più comprensibili: «Il piano di comando deve sgorgare già pronto da un’unica testa […]»; «Il nostro regno sarà l’apologia dell’idolo Visnù […]»; «Voi non potete immaginare come si possano condurre facilmente i “goyim” più intelligenti a un’incosciente ingenuità, coltivando la loro autoillusione e il bisogno di incensamento. […]».

Le dichiarazioni contenute nei Protocolli non possono davvero essere prese sul serio: per anni la loro veridicità è stata smentita da illustri storici o arguti professionisti della carta stampata; per anni le loro vicende sono state la cartina al tornasole della tolleranza della civile Europa, e non solo; per anni la loro falsità è stata palesemente dimostrata, ma questi documenti, questo artifizio creato ad hoc per uscire da una delicata situazione politica (russa, in questo caso), sono sempre ritornati a rinfocolare furori e fobie, marca dell’ignoranza più perniciosa. Come si può, si chiede Umberto Eco nelle pagine introduttive al volume, credere a dichiarazioni così maldestramente messe su, nella fretta del plagio e della contraffazione su ordinazione? Come si può dare fede ad una messa per iscritto di un programma politico teso a piegare i ‘gentili’ di fronte alla grandezza e alla malvagità di un intero popolo?

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La spy-story non ha mai cessato di interessare e, volta per volta, i paragrafi costituenti le mendaci dichiarazioni sono stati sottoposti ad esame e messi a confronto con le fonti manomesse che li hanno ispirati. Anche Eisner, che ha lavorato al progetto per ben vent’anni col contributo di traduttori e storici di rilievo, ha messo su un’equipe di collaboratori che ha cercato instancabilmente di dar voce ad un graphic novel che non avesse il sapore del libello didascalico (anche se in alcuni punti ne corre inevitabilmente il rischio) e che potesse dimostrare, per l’ennesima e ultima volta, quanto i Protocolli siano stati il risultato di una macchinazione fatta a tavolino non da ebrei cospiratori, ma da servizi segreti ben organizzati in sentore di rivoluzione. L’arma migliore, dunque, per svelare la contraffazione, affrettata appunto dal clima politico russo pre-rivoluzionario, è per Eisner quella della filologia e del raffronto sinottico. Il confronto puntuale con una delle fonti certe della contaminatio, Il dialogo all’Inferno tra Machiavelli e Montesquieu di Maurice Joly (1894), la presa in considerazione di termini che i Savi di Sion non avrebbero potuto utilizzare, i passi più grossolanamente adattati alla situazione russa, svelano pagina dopo pagina la falsità di questi documenti e l’origine che li accomuna ai centoni medievali. Ma il ritmo concitato con cui si chiudono le ultime pagine del Complotto chiarisce poi al lettore che questo non basta, che non c’è modo di evitare la diffusione di questi Protocolli, di evitare che cadano nelle mani sbagliate, di frenare l’ondata di antisemitismo che ancora oggi, dall’Iran alla Svizzera, dalla Germania all’America, si scatena ad ogni decisione di tregua e di pace nei territori mediorientali. La denuncia contenuta ne Il Complotto non basta, certo, ma non si può non tentare almeno di agire. Eisner stesso confessa di «impiegare questo potente mezzo di comunicazione (scilicet: il fumetto) per affrontare un tema che ha un’importanza fondamentale nella mia (scilicet: di Eisner) vita», aggiungendo qualche pagina dopo che «la speranza è che questo lavoro possa contribuire a distruggere questo inganno terrificante».

Ma, emblematicamente, Il Complotto si apre con una immagine di guerra, un rogo, una ferocia metaforicamente incarnata dal fuoco che si leva e che infiamma gli animi e, altrettanto emblematicamente, l’ultima pagina si chiude in perfetta circolarità con una sinagoga in fiamme. In mezzo, la storia dei Protocolli porta le impronte della rivoluzione russa, combattuta col fuoco e con le armi. Il fuoco, la passione torbida, l’odio degli uomini. Un brutta chiusa per sperare ancora in una soluzione della Storia con le armi pungenti ma non sanguinolente della ragione. Un appello, quello di Eisner, alla lucidità e alla intelligenza dell’uomo: un’altra maniera di definire il gramsciano pessimismo della ragione unito, in maniera sempre più pervicace, all’ottimismo della volontà.

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