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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Una parodia dissacrante e rispettosa, la recensione de L'anello dei signori

A più di 15 anni dall’uscita del primo capitolo della saga al cinema, la trilogia de Il Signore degli Anelli continua ancora ad essere oggetto di interesse e di ammirazione da parte di legioni di fan, nonché di omaggi e di parodie. È ascrivibile a quest’ultimo genere L’Anello dei Signori, ultimo lavoro della coppia formata da Roberto Megna e Carlo Lauro, già creatori delle strisce di Dick & Cok, pubblicate sul web. Gli autori riprendono i loro personaggi, e li gettano in un’avventura demenziale che ruba alla trilogia di Peter Jackson solamente l’avvio, salvo battere poi un’irriverente strada tutta propria.

I due gnorrit, lontanissimi parenti degli hobbit immaginati da Tolkien, hanno contratto un debito con una banda di orghetti, spacciatori di erba pipa. Decidono quindi di intraprendere un lungo viaggio per vendere un anello, trovato per caso sulle pendici del Monte Farto, e usare così il ricavato per pagare gli orghetti. Non sanno però che l’anello, lasciato a loro insaputa sul Monte da Frego e Slim, ha dei poteri magici e ha suscitato l’interesse di essere malvagi come Accollum e Nasauron, Signore della terra di Mortorior. Ad accompagnare i due gnorrit nella loro poco nobile impresa accorreranno lo stregone Mago, il cavaliere Jon Sgomento, l’elfo Bob Cappuccio e il nano Tyrchion Ballister. Lungo la strada la Compagnia dovrà sfuggire ai Nazigul, i cavalieri nazisti al soldo di Nasauron, e incrocerà il proprio cammino con altri personaggi strampalati, dando il via a vicende dagli esiti imprevedibili e allucinanti.

L’Anello dei Signori è una parodia irriverente che cammina però sul solco di un profondo rispetto per il materiale a cui è ispirata. Megna e Lauro ci forniscono versioni comiche di personaggi iconici senza tradirli mai, ma mettendone in luce gli aspetti più ridicoli. È il caso di Jon Sgomento, farsesca sintesi tra Aragorn e Jon Snow de Il Trono di Spade, la cui solennità appare del tutto fuori contesto rispetto allo scenario delirante in cui si muove, suscitando non poche risate. I due autori ci propongono un sunto delle saghe fantasy più amate degli ultimi anni, mostrandoci una folle carrellata che da Il Signore degli Anelli passa attraverso Il Trono di Spade e arriva fino a Harry Potter: la Compagnia visiterà anche la Sbarriera, rifugio dei Guardiani della Botte (per i quali il concetto di prendere il nero assumerà un significato nuovo e demenziale), per finire a Pigwarts, la scuola di Enrico Posteri. Megna riesce a cogliere gli elementi potenzialmente ridicoli di queste amatissime saghe e a metterle alla berlina senza pietà, costruendoci intorno battute e situazioni comiche irresistibili.

Il tratto cartoonesco di Lauro, degno compare dello sceneggiatore, aumenta esponenzialmente la carica comica e insolente di questo Anello dei Signori, mettendo in scena personaggi grotteschi che strappano risate a prima vista. L’unico difetto imputabile al divertente tour de force congegnato dal duo calabrese è l’eccessiva lunghezza della storia che, partita come un treno carico di caratterizzazioni azzeccate e di trovate divertentissime, arriva al capolinea a corto di ispirazione e con le polveri un po’ bagnate: elemento che non ne pregiudica però l’irriverente e iconoclastica riuscita.

Un cinecomic atipico e maturo, la recensione di Logan

"Andrò molto lontano..."
 "Perché, Shane?"
 "Un uomo ha la sua via tracciata... non può cambiarla... non avrei dovuto dimenticarlo."
 "Voglio che tu resti, Shane."
 "Si infrange la legge quando si uccide, e non c'è rimedio. A torto o a ragione... rimane sempre un marchio... che non si cancella più. Ora torna presto dalla mamma, e dille da parte mia che non tema più niente. La tranquillità è tornata nella vallata."

Se c’è un personaggio della cinematografia classica affine a Logan, il Wolverine della pluridecennale saga degli X-Men, questo è proprio Shane, il Cavaliere della Valle Solitaria interpretato da Alan Ladd nell’omonimo western cult di George Stevens. In uno dei rari momenti di pace della pellicola di James Mangold, qui per la seconda volta alle prese con una trasposizione cinematografica delle avventure del mutante artigliato, i protagonisti in fuga si concedono poche ore di riposo in una stanza d’albergo regalandosi una visione del film di Stevens. Le parole di Shane, che echeggeranno in altri momenti del film, sono il centro morale dell’intera vicenda umana di Logan, un uomo buono trasformato suo malgrado in una macchina assassina, che convive con il peso di troppe morti sulla coscienza.

Scegliendo di adattare liberamente Old Man Logan, celebratissima saga post-apocalittica di Mark Millar e Steve McNiven che non poteva essere riproposta integralmente a causa della nota vicenda dei diritti di sfruttamento cinematografico dei mutanti Marvel, saldamente in mano alla Fox e separati dal resto del Marvel Universe, Mangold decide di andare oltre la pur efficace e gigionesca verve dell’opera di partenza per allestire un western crudo e crespuscolare, crudele e nichilista, per quanto attraversato da effimeri attimi di tenerezza. Conscio del passo falso commesso col precedente Wolverine – L’immortale, il regista desatura la pellicola di ogni elemento supereroistico e fantascientifico, senza però negare l’esistenza del grande romanzo degli X-Men. Quelle vicende eroiche sono avvenute, anche se poi sono state raccontate su carta in modo diverso, allontanandosi parecchio dalla realtà, sostiene Logan sfogliando un finto numero di Uncanny X-Men realizzato per l’occasione da Joe Quesada e Dan Panosian.

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Quello che ci restituisce Mangold è un futuro prossimo venturo desertificato, arido e brullo, dove buoni e cattivi attraversano highways sconfinate a bordo di bolidi di lamiere e metallo. Troviamo un Logan invecchiato, che ha smesso i panni di Wolverine e sopravvive come conducente di limousine a nolo. Scopriamo presto che il vecchio Wolvie vive in un capannone abbandonato, dove con l’aiuto del mutante albino Calibano nasconde un quasi centenario Professor Xavier dagli occhi del mondo. Il Professore non è più quello di un tempo, è malato e non ha più il controllo dei suoi poteri mentali; lo stesso Logan non può più contare sul pieno funzionamento del suo fattore rigenerante. Nel frattempo la razza mutante è quasi scomparsa, da 30 anni non si registrano nascite di individui col gene X. E tutti questi fatti potrebbero essere collegati. Logan scoprirà la verità quando verrà avvicinato da una donna che gli chiederà di proteggere la figlia, una bambina misteriosa che potrebbe essere l’ultima speranza del genere mutante, inseguita da un gruppo di spietati mercenari potenziati al soldo di un perfido scienziato.

Con Logan – The Wolverine, James Mangold confeziona un’ultima avventura epica e dolente, una prova d’autore che travalica i confini a volte angusti del cinecomic. Il regista torna ai livelli di Copland, il film d’esordio che lo fece conoscere al grande pubblico nel ’96 e che si può considerare l’inizio di un’ideale trilogia di film dedicati ad eroi solitari, romantici e perdenti che prosegue con Walk The Line, il biopic su Johnny Cash del 2005 e si conclude proprio con Logan (è significativo e non casuale che i titoli di coda del film siano accompagnati da The Man Comes Around dello stesso Cash). Road-Movie, ultima malinconica ballata o romanzo di formazione a seconda che lo si veda dagli occhi di Logan e Xavier o della piccola Laura, Logan si candida a diventare una pietra miliare del genere, destinata ad essere ricordata a lungo. Attraversata da improvvise esplosioni di violenza, inedite per un cinecomic, si tratta di un’opera atipica, che annovera tra i suoi riferimenti cinematografici i western crepuscolari di Clint Eastwood e Sam Peckimpah (col quale condivide un certo nichilismo di fondo) e che rappresenta per Wolverine quello che Alamo è stato per Davy Crockett, l’ultima impresa che consegna l’eroe alla leggenda.

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Il tempo è un altro elemento chiave del film, il tempo che passa e che lascia ogni possibilità di eroismo alle pagine colorate di un fumetto per ragazzini, mentre la realtà si colora di spietata crudeltà: quel numero di Uncanny X-Men che Laura custodisce gelosamente e che sembra essere la chiave per il ritorno ad un’età dell’oro ormai perduta ed irrecuperabile, oltre che per una lettura metatestuale della pellicola stessa. Nel dare l’addio dopo ben 17 anni al personaggio che ha segnato la sua carriera, trasformando uno sconosciuto attore australiano in una superstar mondiale, Hugh Jackman sfodera probabilmente la sua migliore interpretazione di sempre. Il suo Logan è una maschera di sofferenza fisica e morale, che non si dimentica facilmente. Raramente si è visto un tale livello di identificazione tra un attore e il suo personaggio, interpretato per ben 9 volte nell’arco di 17 anni: un re-casting, per quanto inevitabile nel lungo periodo, appare al momento impensabile. Si congeda alla grande anche Patrick Stewart, qui alla sua ultima apparizione come Charles Xavier, al quale Mangold regala il ruolo che era stato di Walter Brennan nei film di Howard Hawks e John Ford, il vecchio del Far West che offre al pubblico momenti di ilarità e perle di saggezza allo stesso tempo. Menzione d’onore per Dafne Keen, che nonostante la giovanissima età regala spessore e profondità al ruolo di Laura, X-23. Un unione di forze che contribuisce a collocare Logan nel pantheon dei cinecomic più riusciti ma che, visto il livello di maturità ormai raggiunto, ne rappresenta anche l’inevitabile canto del cigno.

Regia: James Mangold
Interpreti: Hugh Jackman, Patrick Stewart, Dafne Keen, Richard E. Grant, Boyd Holbrook
Anno: 2017
Nazione: USA
Distribuzione: 20th Century Fox
Durata: 135 min

La rinascita di James Robinson, la recensione di Airboy

Ti chiami James Robinson, scrivi fumetti e hai attraversato gli anni '90 da protagonista con lavori acclamati dalla critica e apprezzati dal grande pubblico. Hai mietuto successi presso le tre grandi del fumetto americano: in casa DC, hai tenuto a battesimo un giovane Tim Sale sulle pagine di Legends of The Dark Knight, realizzando i testi della prima storia di un'artista giovane ma già eccelso che negli anni a seguire legherà il proprio nome al Cavaliere Oscuro. In rapida successione hai poi realizzato le tue opere più significative: The Golden Age, una rilettura avvincente e nostalgica delle icone del fumetto DC del periodo bellico, legando poi il suo nome al rilancio di Starman, che di quella schiera di giustizieri impegnati contro le forze dell'Asse era stato uno dei frontmen. Jack Knight, il nuovo e riluttante Uomo delle Stelle figlio dell'eroe degli anni '40, è il protagonista di una serie ispirata e al passo coi tempi che diventa uno dei simboli del decennio insieme a Sandman, Preacher e Transmetropolitan. Trovi il tempo di lasciare il segno anche in casa Marvel, dove realizzi un mirabile ciclo di Cable, graziato dal tratto kyrbiano di José Ladronn, e alla Image, con una straordinaria sequenza di episodi di WildC.A.T.S. che dimostra, già prima della celebrata di Alan Moore, che i personaggi creati da Jim Lee e soci sono più di semplici doppioni dei mutanti di casa Marvel ed è possibile costruirci intorno qualcosa di interessante. Un decennio di successi eppure il tuo nome non entra mai nella lista dell'aristocrazia dei fumettisti inglesi: Alan Moore, Neil Gaiman, Grant Morrison, Peter Milligan, Warren Ellis, Garth Ennis sembrano godere di una considerazione che a te sembra negata.

Poi, inevitabili, i primi passi falsi. Uno script deludente per la trasposizione cinematografica di League of Extraordinary Gentlemen, pallida versione per il grande schermo della  geniale serie di Moore e Kevin O'Neill contribuisce ad affossare la considerazione nei tuoi confronti da parte del pubblico. Da li in poi ne azzeccherai poche, con molte prove non convincenti. La tua vita somiglia ormai ai fumetti che scrivi: ad uno sguardo superficiale potranno apparire come semplici fumetti di supereroi, ma in realtà c'è un filo rosso che li unisce, ed è il passare del tempo. Non sembra essere un caso che ti abbiano scelto per sceneggiare il ciclo finale di Fantastic Four, che ha chiuso la serie dopo più di 50 anni di vita: come nel caso del Favoloso Quartetto, hai un futuro roseo alle spalle. Finché un giorno arriva una telefonata...

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Leggere Airboy è stata una sorpresa inaspettata, perché nonostante James Robinson sia un autore con un curriculum di tutto rispetto, le sue prove più convincenti sembravano appartenere ad un passato ormai remoto. L'autore di Starman confeziona una prova smagliante, che non sfigura rispetto alla sua produzione dei giorni migliori. Partendo dal reboot di Airboy, un personaggio degli anni '40 ormai caduto nel dimenticatoio, Robinson realizza invece un brillante esempio di opera metanarrativa, nella tradizione di un certo cinema cerebrale alla Spike Jonze (il cui Ladro di Orchidee viene citato dall'autore come influenza determinante) o, per arrivare a tempi più recenti, al Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu. Se quest'ultimo raccontava la crisi di un ex attore di successo tra allucinazioni e tentativi di rilancio, Airboy racconta la crisi di ispirazione dell'autore Robinson, simile per condizione al Barton Fink dell'omonimo film dei fratelli Coen, vincitore della Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1991. È una seduta di psicanalisi autoprescrittasi dallo stesso Robinson, che qui si fa personaggio e protagonista della stessa vicenda, con sincerità e coraggio disarmante. Già il modo in cui si apre la storia desatura l'intera vicenda di ogni aspetto eroico e mitologico, anticipando alla perfezione il tono dissacrante di cui sarà infarcita: troviamo James Robinson nel bagno di casa sua, seduto sul water, intento a rispondere alla telefonata di Eric Stephenson, direttore editoriale della Image Comics. Stephenson vuole che Robinson curi il rilancio di Airboy, personaggio ormai dimenticato degli anni '40, un giovane aviatore che combatteva gli assi del Terzo Reich nei cieli d'Europa. Il personaggio aveva goduto di un certo successo negli anni dell'impegno bellico, salvo cadere nel dimenticatoio a guerra terminata.

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Una parabola molto simile a quella dello stesso Robinson, che vive una fase di ripiegamento in se stesso, tra un matrimonio in crisi e un bicchiere di whisky nel bar vicino casa. Neanche il nuovo incarico sembra riuscire a smuoverlo: questo “Airboy” proprio non lo ispira. Un suggerimento della moglie Jann lo scuote dal torpore: forse il coinvolgimento di un disegnatore lo potrebbe aiutare. La scelta cade su Greg Hinkle, penciler proveniente dalla scena indie. L'artista arriva a San Francisco, città d'adozione dello scrittore, e i due prendono un appartamento in affitto per mettersi al lavoro sul rilancio di Airboy, ma la pagina resta bianca. L'ispirazione latita e James, come un Virgilio in acido, decide di forzarla un po' spingendo se stesso e Greg attraverso una sequenza epica di eccessi, da far impallidire Una Notte da Leoni: alcool, droga, sesso e più chi ne ha più ne metta. Finché ai due, stremati dopo una notte brava, appare Airboy in persona ad ammonirli e a rimetterli in riga. Airboy! Ma come, non è un personaggio dei fumetti?  Il confine tra realtà e sogno comincerà improvvisamente a disfarsi quando l'aviatore trascinerà i due ricalcitranti creativi indietro nel tempo, per combattere insieme a lui la Germania nazista.

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Cronaca di una crisi di nervi e creativa, schietta e disarmante, sincera e oltraggiosa come la vita, Airboy segna il grande ritorno di James Robinson ai livelli a lui più consoni. Colpisce il grado di onestà con cui l'autore riesce a mostrarsi ai lettori, generando con essi un'empatia inedita nell'attuale panorama del fumetto americano mainstream. Si tratta di un'opera dalla fruibilità semplice ed immediata, che si presta però a molteplici letture: impregnata della consueta nostalgia per una golden age perduta e rimpianta, tipica nei lavori di Robinson, Airboy è però infarcita di una ironia sferzante e smitizzante, che mette alla berlina una certa attitudine a rifugiarsi nel passato per non affrontare un presente che, a guardarlo bene, tanto male non è. Se la vita è un viaggio si tratta solo di scegliere il compagno giusto, come in un buddy movie, e certamente Greg Hinkle risponde a questi requisiti. L'artista, finora sconosciuto al grande pubblico, è la vera rivelazione di Airboy: il suo tratto, cartoonesco senza sfociare mai nella parodia, è perfetto per illustrare le vicende allucinanti ordite dallo script di Robinson, grottesche ma profondamente umane. Straordinario anche l'uso che Hinkle fa del colore, a suggerire gli stati d'animo: monocromatico, con l'uso di retinature gialle, verdi e blu nelle scene “reali”, per poi passare a colori sgargianti nelle scene ambientate nel “mondo” di Airboy. Una sintesi tra testo e disegni tra le più riuscite degli ultimi anni, che speriamo di poter rivedere presto insieme al lavoro su un nuovo progetto. Nel frattempo, Airboy ci parla di morte e rinascita, di come toccare il fondo e risalire verso la luce. E, cosa più importante, lo fa con la forza e con la leggerezza di un sorriso.

Sharaz-de. Le mille e una notte di Sergio Toppi, la recensione

Desiderio, cupidigia. Saggezza, giustizia. I vizi e le virtù che muovono le vicende umane raccontate con fiabesco trasporto nella raccolta di novelle orientali conosciuta come Le Mille e una Notte, animano anche l’opera che Sergio Toppi trasse da quell’antico ciclo, Sharaz-De. Apparso per la prima volta sulla rivista Alter Alter a partire dal 1979 e più volte ristampato, il capolavoro del Maestro Toppi torna disponibile in una elegante versione cartonata grazie alle Edizioni Npe, prima uscita di una collana interamente dedicata ai lavori dell’artista milanese. Primo esempio di racconto-contenitore che da il via ad altri racconti, espediente narrativo che sarà ripreso in seguito in Occidente da Giovanni Boccaccio col Decameron, l’affresco de Le Mille e una Notte ha affascinato nei secoli scrittori e uomini di cultura come William Shakespeare, Luigi Pirandello, Jorge Luis Borges e Pier Paolo Pasolini e artisti come Gustave Doré e Marc Chagall ne hanno tradotto in immagini le novelle. Eppure nessuno di questi pur illustri predecessori legherà il suo nome a queste antiche fiabe come farà Sergio Toppi con la sua brillante reinterpretazione.

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L’artista milanese, conscio dell’impossibilità di riprendere l’intero corpus dell’opera originaria, seleziona alcune novelle dalla morale emblematica, mantenendone però la cornice narrativa: è la storia del re persiano Shariyar che, dopo aver scoperto che la moglie lo tradisce con un servo, si vendica condannandoli entrambi a morte per decapitazione. Poiché una storia simile era accaduta poco prima anche al fratello, il sovrano giura vendetta contro il genere femminile: viene annunciato che, per decreto regio, ogni sera una giovane donna della città sarà condotta nelle stanze del re per giacere con lui; all’indomani, al sorgere del sole, le verrà mozzata la testa. Comincia così una lunga serie di efferate esecuzioni, finché una fanciulla, Sharaz-De, decide di porre fine all’eccidio e di rischiare la sua stessa vita proponendosi come sposa. Durante la notte, la ragazza inizia a raccontare al re delle storie fantastiche, interrompendosi sul più bello e obbligando il re, ammaliato, a mantenerla in vita fino alla notte successiva per ascoltare il finale: l’espediente funziona, e la ragazza prosegue con i suoi racconti per molte e molte notti… Mille e una, appunto.

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Capolavoro della maturità artistica di Sergio Toppi, Sharaz-De è un'apologia della funzione salvifica del racconto: avere una storia da raccontare può salvare la vita, come nel caso della smaliziata protagonista, innalzata dalla propria fantasia e da una spiccata ars oratoria al di sopra della mediocrità del più potente degli uomini. Immaginazione che può ribaltare un destino già segnato, fantasia al potere. E l’atmosfera fiabesca non potrebbe conoscere miglior traduzione in immagini del tratto dell’artista milanese: i personaggi sembrano essere stati evocati dalla nebbia dei tempi, misteriosi ed arcani. A rafforzare la sensazione del lettore di essere stato trascinato in una dimensione da sogno, quasi onirica, contribuisce la scelta stilistica di costruire la tavola verticalmente, rompendo la tradizione del fumetto italiano che vede la classica divisione in griglie orizzontali della pagina: se si parlasse di cinema la definiremmo una scelta di montaggio, cosicché le figure ritratte nella loro interezza e non tagliate da un’inquadratura a piano americano comunicano solennità e importanza, i primi piani contribuiscono a descrivere lo stato d’animo dei personaggi con profondità quasi espressionista, mentre l’uso ricorrente della splash page aumenta esponenzialmente la spettacolarità dell’opera.

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E poi c’è il tratto inimitabile di Toppi, una ragnatela fitta di linee che si incontrano per costruire espressioni eloquenti, sguardi enigmatici, indumenti, anelli, orecchini, monili, pugnali, scudi, copricapi ritratti con cura maniacale per il dettaglio, popolando la tavola di immagini che, come sottolineato da Vincenzo Mollica in una sua felice definizione, sono insieme pittura e scultura. Figure che si liberano dalla costrizione bidimensionale della pagina, tanto che il lettore ha quasi la sensazione di poterle toccare. Definire Toppi semplicemente un “fumettista” appare, con tutto il rispetto, limitante: si rimane estasiati di fronte alle sue tavole che, come rimarcato da Luca Raffaelli, sembrano essere le incisioni di un ebanista, suggestivi bassorilievi che ammoniscono il lettore sui vizi degli esseri umani che, a dispetto del passare dei secoli, restano immutati.

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Del tutto personale è anche la scelta nella realizzazione dello scenario in cui si muovono i personaggi: allontandosi dal tradizionale cliché di un oriente fastoso fatto di oasi e palazzi sfarzosi, l’artista ci propone lande deserte, brulle, fatte di rocce, dirupi, e popolate da rettili e serpi. Natura matrigna, l’avrebbe definita Leopardi, paesaggio dell’anima. Uno stile controcorrente che ha fatto scuola, anche in ambiti diversissimi: è impossibile non scorgere echi di Toppi nell’opera di Walter Simonson e in particolare nella sua gestione di Thor (si vedano alcuni scenari asgardiani e gli ornamenti delle donne), mentre l’ammirazione per il Maestro attraversa tutta l’opera di Frank Miller a partire da Ronin. È quindi un bene che i lavori di Toppi possano essere messi a disposizione di una nuova generazione, in un’edizione di pregio: il volume delle Edizioni Npe ha il merito di proporre l’opera dell’autore in un formato “gigante”, capace di esaltare le spettacolari tavole dell’artista e di far cogliere al lettore tutta la ricchezza iconografica di cui sono intrise. E così i re, le cortigiane, gli stregoni, i demoni, gli eroi, i lestofanti di Sergio Toppi continueranno a vivere, ammonendoci con sguardo severo tratteggiato in un sublime bianco e nero e raccontandoci storie ancestrali di vizi e virtù, sconfitta e redenzione.

 

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