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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Un rilancio riuscito a metà, la recensione di Karnak - Il punto debole in ogni cosa

A distanza di 50 anni dalla loro creazione per mano di Stan Lee e Jack Kirby sulle pagine di Fantastic Four, Gli Inumani hanno conosciuto nell’ultimo lustro una popolarità mai vissuta precedentemente. Citati a più riprese nella serie tv Agents of S.H.I.E.L.D., a breve avranno l’onore di un serial ad essi interamente dedicato, ad accompagnare la grande quantità di iniziative editoriali che la Marvel dedica ormai stabilmente alla razza segreta più famosa del proprio universo. Il tutto rientra in una precisa strategia della Casa delle Idee, che non potendo contare sui diritti di sfruttamento cinematografico legati agli X-Men, da tempo stabilmente in mano alla Fox, ha progressivamente depotenziato le serie mutanti a favore degli Inumani, cercando di farne i nuovi outsider di successo dell’editore. Ma la trasformazione di Freccia Nera, Medusa e soci da tradizionali comprimari a protagonisti della ribalta non ha dato i frutti sperati, sia dal punto di vista commerciale che da quello qualitativo.

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Nella pletora di progetti dedicati agli Inumani, il più atteso era certamente la serie dedicata al loro membro più misterioso, Karnak, realizzata dalla penna prestigiosa di Warren Ellis per le matite di Gerardo Zaffino. Diventata in corsa una miniserie di sei numeri a causa dei ritardi dovuti a divergenze creative culminate con l’abbandono dell’illustratore, sostituito da Roland Boschi, arriva finalmente in Italia grazie a Panini Comics.

Come nelle sue più recenti prove su commissione, vedi la straordinaria run di sei numeri su Moon Knight, Ellis si avvicina a un personaggio dalla lunga vita editoriale sottoponendolo ad un processo di revisione che, pur non tradendone la rappresentazione tradizionale, mira ad individuare e ad estrarre quell’idea specifica che lo caratterizza facendone il perno su cui costruire l’intera serie. Karnak, guerriero appartenente alla famiglia reale degli Inumani, rappresentava in tal senso un candidato ideale al revisionismo ellisiano, in virtù di una psicologia complessa ma mai esplorata appieno nei suoi oltre 50 anni di vita. Inumano atipico, per volere paterno non è stato sottoposto al tradizionale rituale della Terrigenesi, procedimento grazie al quale i giovani della sua razza acquisiscono capacità fuori dall’ordinario grazie all’esposizione alle nebbie terrigene; uomo normale tra esseri speciali, ha colmato il gap con i suoi concittadini con lo studio, la meditazione e l’allenamento, diventando il primo tra i guerrieri di Attilan, capace di individuare il punto debole in ogni cosa e frantumarla. Toltosi la vita durante gli eventi di Inhumanity, è stato capace anche di individuare una crepa nell’oltretomba e tornare tra i vivi.

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Ellis alza ulteriormente la posta trasformando Karnak nel Magister della Torre della Saggezza, rettore di una scuola di filosofia il cui indirizzo è un incrocio tra nichilismo, realismo speculativo e decostruzionismo alla Jacques Derrida. Le capacità particolari del personaggio vengono quindi spostate sul piano astratto: il guerriero inumano riesce ad individuare le falle e le contraddizioni nella struttura del pensiero e nelle convinzioni degli avversari per poi abbatterle. È proprio nella sua torre che lo troviamo ad inizio volume, quando viene distolto dal suo ritiro dall’agente Coulson dello S.H.I.E.L.D.. La spia chiede il suo aiuto per ritrovare un ragazzo rapito da una setta interna al gruppo terroristico dell’A.I.M. e restituirlo ai suoi genitori. Si tratta però di un giovane fuori dal comune, che ha acquisito poteri speciali in seguito al rilascio della bomba terrigena da parte di Freccia Nera durante Infinity. Ma Karnak scoprirà presto che il ragazzo potrebbe non essere una vittima e che le cose sono molto diverse da quelle che sembrano.

Ellis ci accompagna attraverso l’affascinante indagine psicologica di un personaggio che reinventa completamente, trasformando il vecchio comprimario di Fantastic Four in un asceta del pensiero a metà strada tra un monaco ed un santone. Un guru dalla forte connotazione filosofica le cui convinzioni verranno messe a dura prova dagli eventi. Lo sceneggiatore inglese ci ricorda costantemente che c’è un punto debole in ogni cosa, anche in un guerriero che si è dotato di un sistema di pensiero apparentemente inattaccabile: e se lo avesse fatto per nascondere il suo senso di inadeguatezza e la sua immaturità emotiva? La risposta arriverà in un finale che lascia interdetti per un cinismo inusuale in un prodotto mainstream.

Potremmo obiettare che le questioni filosofiche poste dall’autore attraverso la bocca di Karnak non vengono adeguatamente sviluppate e si perdono in un finale non del tutto all’altezza, ma necessario per smascherare la natura ipocrita del protagonista. Ritroviamo invece tutti gli elementi caratteristici della scrittura di Ellis, dalla tensione narrativa incalzante ai dialoghi taglienti, vedi gli scambi di opinione tra Karnak e Coulson, perfetto contraltare ai deliri autoreferenziali dell’inumano.

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La continuità grafica soffre purtroppo del repentino abbandono di Gerardo Zaffino, figlio di Jorge, maestro del fumetto argentino autore di alcune storie del Punitore negli anni ’80, pubblicate anche in Italia dalla Star Comics. Dotato di un segno grezzo e sporco, arricchito dall’abbondante uso di neri e retini, Zaffino si è rivelato subito la scelta ideale per illustrare le vicende di un personaggio così complesso e ambiguo. Il passaggio dal suo stile a quello più tradizionale e pulito di Boschi, con un intermezzo del nostro Antonio Fuso, è il punto debole dell’intera miniserie. Il francese è autore di un buon storytelling ma senza particolari guizzi, che suscita il rimpianto per la riuscita finale di un’opera che, pur con qualche difetto, occupa un posto di rilievo tra i progetti più interessanti della Marvel odierna.

Le novelle di Dino Battaglia, la recensione di Lovecraft e altre storie

Continua la riproposizione da parte delle Edizioni Npe dell’opera di Dino Battaglia, maestro veneziano del tavolo da disegno che ha lasciato un solco profondo nella storia del fumetto italiano, nonostante i 34 anni ormai trascorsi dalla sua prematura scomparsa. Dopo i primi tre volumi dedicati rispettivamente alle trasposizioni realizzate dai racconti di Poe e Maupassant e a L’Uomo della legione, prima storia realizzata da Battaglia per la collana Un uomo, un avventura di Sergio Bonelli, è la volta di Lovecraft e altre storie, raccolta antologica di racconti brevi a sfondo fantastico in cui l’influenza dello scrittore di Providence è palese, nonché dichiarata fin dal titolo, solo nel primo episodio. Le altre novelle, che a una prima lettura non sembrano contenere alcun nesso tra loro, sono in realtà accomunate dal mostrare al lettore le conseguenze, dall’esito sempre tragico, delle scelte dei protagonisti. In questo senso, non è fuori luogo inserire questi brevi parabole nella categoria dei racconti morali.

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In Omaggio a Lovecraft, un guidatore sfortunato è costretto da una pioggia torrenziale a fermarsi in una cittadina apparentemente deserta, fino al tragico epilogo; in La Malizia del diavolo Battaglia si rifà alla tradizione delle miniature medievali per raccontare la storia di un fante e del furto della sua borsa piena d’oro, punita dal diavolo in persona; in Totetanz l’artista si produce in una nerissima danza macabra, genere tipico della pittura medievale, in cui le anime degli uomini danzavano con la morte che le trascinava verso il suo regno. In questo racconto dalle atmosfere gotiche, il pittore Peter è intento a derubare il vecchio e avaro maestro Annekeen quando quest’ultimo lo trova con le mani nel sacco; non avendo altra scelta che ucciderlo, Peter sogna di usare l’insperata ricchezza per convincere la vedova di Annekeen, Marion, a scappare con lui. Peccato che l’anima del defunto tornerà per tormentare l’apprendista. Ne Il Patto, la Contessa Mansi teme che la sua bellezza, ammirata da tutti, possa un giorno sfiorire. Per allontanare il pericolo, la Contessa stringerà un patto dalle conseguenze nefaste. Il volume si chiude con gli adattamenti di due classici: in Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde l’autore mette i suoi chiaroscuri al servizio dell’omonima novella di Robert Louis Stevenson, mentre ne Il Golem Battaglia si confronta col più celebre mito del folklore praghese, ispirandosi in parte all’omonimo capolavoro del cinema espressionista tedesco girato da Paul Wegener nel 1920, per cercare poi una via personale nell’illustrare con la consueta efficace i vicoli fumosi della Praga del ‘500.

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In Lovecraft e altre storie ritroviamo le stesse atmosfere gotiche del precedente volume dedicato agli adattamenti da Poe, inquietanti ed ammalianti allo stesso tempo. Pur scegliendo di adattare racconti classici, è un sentimento senza tempo come l’angoscia del vivere quello che Battaglia illustra con maestria nelle sue novelle. Bisogna considerare l’arco temporale nel quale si sviluppa la carriera dell’autore, dal dopoguerra fino alla prematura scomparsa, all’alba degli anni ’80: anni in cui il nostro paese esce in macerie dal secondo conflitto mondiale, per arrivare fino alle violenze degli anni di piombo e della strategia della tensione. Pur non trattando direttamente tematiche politiche e sociali nei suoi lavori, è l’inquietudine strisciante per un presente non facilmente decifrabile e un futuro incerto, sublimata dalla paura della morte, che impregna tutta l’opera di Battaglia e i racconti contenuti in questo volume in particolare. E nessuno meglio di lui è riuscito a mettere su carta questa angoscia, grazie alle atmosfere spettrali ed opprimenti delle sue storie, realizzate con un uso dei chiaroscuri e di toni grigi che ha fatto scuola. Abbandonata “l’ossessione” per i neri pieni tipica del suo apprendistato su strisce come Asso di Picche nell’immediato dopoguerra, come sottolineato da Angelo Nencetti nella sua brillante introduzione, Battaglia si apre alle influenze artistiche più disparate: guarda alla grafica mitteleuropea, subisce l’influsso del Liberty e dell’Art Nouveau e ammira l’opera di artisti come Duilio Cambellotti e il Gustavino, uno dei più grandi illustratori del dopoguerra per libri di grandi case editrici come Mondadori e Rizzoli. Proprio da quest’ultimo apprende la tecnica che diventerà la cifra stilistica tipica della sua opera, cioè quella di creare effetti chiaroscurali grazie ad un uso misto di “neri” realizzati a pennino a cui andava ad aggiungere sfumature a secco di matite e pastelli.

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La svolta finale verso la mezza tinta avviene quando la casa editrice inglese Fleetway commissiona a Battaglia degli adattamenti di Shakespeare e racconti mitologici, incoraggiandolo in quella direzione. È in questo periodo che l’autore conosce il lavoro di illustratori come l’inglese Aubrey Beardsley e l’irlandese Harry Clarke, famosi per i loro adattamenti delle opere di Poe. Se degli inglesi apprezzava la compostezza formale, Battaglia ammirava anche le illustrazioni di autori mitteleuropei come Bruno Paul e Adolf Munzer, capaci di riproporre su carta quei tormenti e i toni passionali che erano stati tipici dello Sturm und Drang, grazie ad uno stile che faceva del grottesco la propria caratteristica precipua. È possibile ritrovare queste e altre influenze nello straordinario lavoro dell’artista veneto, un intellettuale del tavolo da disegno la cui arte sapeva parlare però a tutti. E a distanza di quasi cinquant’anni dal primo apparire di questi racconti, siamo ancora rapiti dalle atmosfere gotiche, dai foschi paesaggi, dai luoghi spettrali, dalle misteriose presenze, “metafore delle nostre più profonde inquietudini, esplorazioni negli oscuri meandri della psicologia umana e negli orrori malcelati di una condizione esistenziale lacerata, contraddittoria ed enigmatica” (Gianni Brunoro).

Un plauso al lavoro delle Edizioni NPE, che stanno riproponendo ad una nuova generazione di lettori i lavori di Battaglia, Sergio Toppi e, prossimamente, Attilio Micheluzzi, facendoli così uscire dallo scrigno della memoria al quale erano stati confinati dopo conclusione della gloriosa epoca delle riviste d’autore e donandogli una nuova giovinezza.

Il revisionismo supereroistico di Jeff Lemire, la recensione di Black Hammer 1

Il vecchio Abe si sveglia come sempre di buon mattino, nella sua fattoria nella contea di Black Hammer. Lavora i campi, dà da mangiare agli animali e munge le vacche. Questa è la sua vita da 10 anni, dopo averne passato il resto in città, e non la cambierebbe per nulla al mondo. Peccato che il resto della sua strana famiglia non la pensi così: nulla di anomalo, considerando che si tratta di un gruppo di supereroi sotto mentite spoglie, scomparsi molti anni prima durante una crisi dimensionale e riapparsi in questa isolata contea, nel bel mezzo del nulla. Abe era Abraham Slam, atletico combattente del crimine; sua nipote Gail è in realtà Golden Gail, adulta bloccata nel corpo di una bambina di 9 anni. Ci sono poi il Colonnello Weird, bislacco cosmonauta ormai fuori di senno che va e viene da una sorta di limbo spazio-temporale, la para-zona; Barbalien, marziano mutaforma e Madame Dragonfly, strega che vive in una capanna a breve distanza dalla fattoria. 10 anni prima questo gruppo di eroi si era riunito a Spiral City per scongiurare la minaccia dell’Anti-Dio, un essere quasi onnipotente che con un nome così, nessuno lo vorrebbe come nemico. Scomparso nell’esplosione con cui si era concluso lo scontro, il composito quintetto viene considerato defunto dal resto del mondo salvo riapparire misteriosamente in un contesto di provincia in cui i supereroi non sono mai esistiti. L’unico partecipante alla battaglia di Spiral City di cui non si hanno più notizie è Black Hammer, il più grande eroe della città che si è sacrificato per salvare i suoi compagni. Di lui rimane solamente la sua arma, un martello nero, appunto, e il mistero che aleggia sulla sua sparizione avvolge l’intera vicenda. Constatata l’impossibilità di allontanarsi dalla contea e di fare ritorno a casa, il gruppo non ha altra scelta se non quella di camuffare il proprio aspetto agli occhi degli altri abitanti e di iniziare una nuova vita, come la più singolare e insolita delle famiglie.

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Leggendo Black Hammer di Jeff Lemire e Dean Ormston tornano alla mente classici del revisionismo supereroico come Miracleman e Watchmen, opere la cui influenza arriva fino ad oggi come un’onda lunga. Dal primo apparire di questi lavori seminali, la figura del supereroe è stata decostruita e dissezionata da una schiera di autori più o meno brillanti, che lo hanno eletto a simbolo dei complessi cambiamenti della società nel corso dei decenni. Quello che rende Black Hammer diverso da tutto quello che è stato già visto, nonostante le numerose citazioni e strizzatine d’occhio ai classici del genere di cui è infarcito, è l’ambientazione rurale, assolutamente inedita, filtrata dalla grande capacità da narratore di Lemire: è la lettera d’amore dello scrittore al fumetto di supereroi con cui è cresciuto, condita però della sensibilità tipica della scena indie nella quale si è fatto le ossa. Come ricorda lo stesso autore nella bella postfazione al volume, dichiararsi fan sfegatati di fumetti di supereroi era considerato quanto meno controcorrente, nell’ambiente dei comics indipendenti in cui il fumetto mainstream di Marvel o DC è visto come il fumo agli occhi. Black Hammer era in gestazione nella mente di Lemire fin da quei primi anni della sua carriera, in cui esordiva con piccole storie ambientate nella provincia canadese come Essex County, “racconti di famiglie e paesini”, come li ha definiti lo stesso autore, connotati da un forte sapore autobiografico e malinconico e dalla consapevolezza dell’impossibilità di cambiare il proprio destino.

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Black Hammer è la sintesi brillante delle due anime di Lemire: essenzialmente, è Essex County con i supereroi. L’amore per il genere è evidente fin dalla presentazione dei personaggi, topoi presi a prestito dagli amati albi in quadricromia di Marvel e DC. Abraham Slam, atletico pugile senza poteri che ha modellato il suo fisico alla perfezione per offrire il suo contributo durante la Seconda Guerra Mondiale, è ispirato tanto a Capitan America quanto a Wildcat della Justice Society Of America; Il Colonnello Weird è un omaggio all’eroe dello spazio della DC Adam Strange, mentre i suoi trip nella para-zona sono un tributo alle lisergiche tavole di Steve Ditko per il Doctor Strange della Marvel; il marziano Barbalien è Martian Manhunter, il J’onn J’onnz della Justice League, mentre Golden Gail è una sintesi tra Capitan Marvel e Mary Marvel e, come loro, acquisisce straordinari poteri urlando una parola magica. Ultimo membro della gallery allestita da Lemire è Madame Dragonfly, che richiama tanto la maga Madame Xanadu dei fumetti DC quanto le megere anfitrione dei fumetti horror anni ’50 targati EC Comics, e che consente all’autore di aggiungere un tono soprannaturale alla storia.

Fra tutti i personaggi che compongono questa strana “famiglia”, Abe è l’unico che si è adattato alla loro nuova vita, anche perché come giustiziere in calzamaglia era ormai datato e prossimo alla pensione, mentre gli altri passano le giornate a rimpiangere quella precedente. È difficile, per chi ha solcato i cieli, adattarsi ad un contesto rurale e retrogrado di cui si è misteriosamente prigionieri, come in una versione aggiornata di The Dome di Stephen King o del Truman Show di Peter Weir. Particolare cura viene data dallo scrittore alla caratterizzazione di Gail, donna adulta intrappolata nelle sembianze di una bambina di 9 anni, attraversata da pulsioni che dovrà sopprimere per salvare le apparenze. Con delicatezza e amore verso questi personaggi e le loro debolezze, Lemire ci accompagna pagina dopo pagina nella vita quotidiana di una famiglia “disfunzionale”, i cui membri sono costretti a convivere loro malgrado. I momenti migliori della serie sono proprio quelli in cui la narrazione del vivere di tutti i giorni prende il sopravvento sulla dimensione prettamente “super”, come nelle scena, raccontata magistralmente dallo scrittore, in cui Abe porta a casa la fidanzata Tammy, la cameriera della Tavola Calda locale, per presentarla alla “famiglia”: la situazione darà luogo ad una serie di equivoci, travestimenti e parapiglia che non hanno nulla da invidiare a produzioni teatrali come Rumori Fuori Scena. Notevole è il cambio di registro che l’autore è capace di imprimere alla serie, passando con disinvoltura da scene di vita campagnola a ricordi della gloria che fu, solcando i cieli della metropoli: ognuno dei sei albi che compongono il volume è incentrato su ciascuno dei personaggi principali, in modo da passare alle atmosfere golden age dei primi supereroi con Abraham Slam e Golden Gail, alle avventure spaziali di Barbalien e Colonnello Weird, fino alle tinte horror dei Racconti della Cripta di Madame Dragonfly.

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Black Hammer non sarebbe stato lo stesso senza l’apporto delle matite di Dean Ormston, scelta singolare eppure perfetta per un autore di “scuola Vertigo” che non aveva praticamente mai lavorato su una serie di supereroi. L’artista di Books Of Magic e Lucifer, con le sue linee sottili e un tratto volutamente non appariscente e dimesso, in particolare nelle scene rurali, conferisce un sapore indie e underground all’opera, riuscendo nell’impresa di fornire un commento metatestuale per immagini al lavoro di Lemire: basti pensare alle splendide e “false” copertine d’epoca che, citando svariati periodi della storia del fumetto, riporteranno la memorie del lettore all’analogo lavoro svolto da Rick Veitch sul Supreme di Alan Moore. Il comparto grafico viene suggellato dall’apporto cromatico dei colori di Dave Stewart, che formano con le matite di Ormston un binomio inscindibile: Stewart fa un uso sapiente del colore per differenziare le varie fasi del racconto di Lemire, scegliendo toni spenti e opachi per le scene di quotidianità provinciale, virando verso tonalità accese e squillanti per le sequenze prettamente supereroistiche ambientate a Spiral City, quasi a rimarcare che ci sono ricordi, in ognuno di noi, che bruciano più vivi delle realtà stessa. E forse è proprio questa la chiave del grande successo di critica e di pubblico di Black Hammer, quella di parlare a tutti quelli che, guardando il cielo, sognano di spezzare le catene che li trattengono a terra. Lemire e Ormston suggeriscono che non bisogna rassegnarsi a considerare il proprio futuro alle spalle, e nel farlo restituiscono freschezza e stupore infantile ad un genere logoro e usurato come il fumetto di supereroi. Per questo bisogna ringraziarli, senza perdersi troppo in analisi critiche o metatestuali che fanno gonfiare di orgoglio autoreferenziale il petto dei critici.

Quando gli alieni invasero i fumetti, la recensione di Aliens 30° Anniversario

Sul finire degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 arrivano sul grande schermo, in rapida successione, una serie di pellicole destinate a rivoluzionare il cinema di fantascienza e horror e a diventare dei classici istantanei. Autori come Ridley Scott, David Cronenberg e John Carpenter iniettano nel genere una nuova sensibilità, più al passo con i tempi, realizzando film in cui il nemico che minaccia la vita delle persone si insinua come un parassita all’interno dell’individuo stesso. Probabilmente influenzati dal nuovo clima sociale seguito dalla scoperta di nuove e pericolose malattie a trasmissione sessuale, film come Alien di Scott, Brood – La covata malefica di Cronenberg e La Cosa di Carpenter sono attraversati dalla fobia di un possibile contagio e ci mostrano un orrore che esplode davanti agli occhi dello spettatore attraverso agghiaccianti mutazioni del corpo umano. Tra le pellicole citate, sarà Alien a conoscere il maggior successo di pubblico, tanto da dare vita ad una saga cinematografica e a una derivazione cartacea che proseguono ancora oggi, tra alti e bassi.

La storia dell’equipaggio di una nave spaziale che si reca in missione di salvataggio su un pianeta ostile, salvo venire poi decimato da una minaccia implacabile, non costituiva una novità, perché era il soggetto di Terrore nello spazio, film cult del 1965 diretto da Mario Bava che gli sceneggiatori di Alien, Dan O’Bannon e Ronald Shusett avevano sicuramente visto, tanto da riproporne l’atmosfera opprimente e alcune situazioni chiave all’interno del loro film. Ma il prodotto finale si allontanava dalla dimensione artigianale della pellicola di Bava non solo per l’ingente budget messo a disposizione dalla Fox, ma soprattutto per il talento algido e visionario del regista Ridley Scott e per il design della creatura xenomorfa, l'implacabile mostro del film, ad opera dell’artista svizzero H.R. Giger. Alien uscì nel 1979 ed ebbe un impatto profondo sul cinema di fantascienza, inaugurandone un filone dark, ed influenzò tutto il cinema fantastico a venire insieme a Blade Runner, l’altra pellicola seminale del regista inglese. Altro elemento di forte innovazione introdotto dal film fu la presenza di un eroina femminile, la Ellen Ripley interpretata da Sigourney Weaver, che ben presto resta sola a fronteggiare il mostro, avendo la meglio. La saga di Ripley e della sua guerra contro i letali xenomorfi continuerà nel 1986 con Aliens – Scontro Finale di James Cameron, che realizza un entusiasmante mix di azione ed horror, girando un aggiornamento fantascientifico dei western classici con Ripley e un manipolo di Marines, guidati dal coraggioso Hicks, assediati in un pianeta colonia da una miriade di xenomorfi assetati di sangue. Il film incassa più del predecessore, rendendo inevitabile un terzo capitolo che arriverà però solamente nel 1992 col deludente Alien 3 di David Fincher. Il franchise di Alien, nel frattempo, sarebbe stato sfruttato in altri media.

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Nel 1987 la neonata Dark Horse Comics, che sarebbe diventata presto il terzo editore dell’industria americana dopo Marvel e DC, annuncia di aver acquisito dalla 20th Century Fox la licenza per produrre fumetti tratti dalla saga degli xenomorfi, riprendendo la storia dopo gli eventi di Aliens – Scontro Finale. Unica richiesta della casa cinematografica è quella di ambientare parte della storia sul pianeta Terra e di assegnare il ruolo di protagonisti a Hicks e a Newt, la bambina salvata da Ripley dopo lunghe peripezie nel film di Cameron, mettendo in naftalina proprio il personaggio interpretato dalla Weaver per preservarlo in vista delle future apparizioni cinematografiche. Il contratto con la Fox è un grosso colpo per la casa editrice, che cerca di opporsi al predominio delle Big Two sul mercato inserendo nel proprio listino i marchi più in voga del cinema di genere di quegli anni: dopo Aliens, che otterrà un grandissimo successo, arriveranno Predator, Robocop e Terminator. Per realizzare la miniserie iniziale, gli editor e fondatori Mike Richardson e Randy Stradley chiamano due autori poco conosciuti che stanno muovendo i primi passi nell’industria, lo scrittore Mark Verheiden e l’illustratore Mark A. Nelson. Il risultato della loro collaborazione è Aliens, una miniserie di 6 numeri che esce nel 1988 dando il via all’Aliens Universe a fumetti e che oggi Saldapress, in vista del 30° anniversario, ripropone in un lussuoso cartonato.

La storia si svolge a distanza di 10 anni dagli eventi raccontati in Aliens – Scontro finale. Nel film, Ripley era tornata sul pianeta dove aveva fatto il suo primo incontro con gli alieni, nel frattempo trasformato in una colonia, in compagnia di un gruppo di marine, allo scopo di distruggere le pericolosa razza di parassiti. Stretta tra l’assedio dei mostri e i biechi interessi economici dei burocrati della multinazionale Weiland – Yutani, che vorrebbe portare gli xenomorfi sulla terra per farne un’arma biologica, Ripley era riuscita a distruggere il nido della regina madre degli alieni, salvando allo stesso tempo la piccola e traumatizzata Newt, unica sopravvissuta dei coloni con la quale instaura un rapporto madre-figlia. Dopo lunghe peripezie che costano la vita alla maggior parte dei partecipanti alla missione, Ripley può intraprendere il lungo viaggio verso casa ibernandosi nella nave vascello USS Sulaco insieme agli altri sopravvissuti: Newt, uno sfigurato Hicks e l’androide Bishop, gravemente danneggiato dalla regina madre degli xenomorfi. Verheiden e Nelson immaginano che, dopo 10 anni, gli alieni ancora tormentino i sogni di Hicks e Newt. Il primo, ristabilitosi, è tornato nei marine ma viene allontanato dai suoi commilitoni, che temono un eventuale contagio; la seconda, ormai donna, è ricoverata in una clinica psichiatrica a causa degli incubi sugli alieni. Non viene data nessuna informazione al lettore sul destino di Ripley e Bishop. Visti i suoi precedenti, a Hicks viene affidato il comando di una missione sul pianeta natale degli xenomorfi, allo scopo di sterminarli. In realtà si tratta di una spedizione di facciata: i marine, ignari, vengono seguiti da una nave della Biotechnical, multinazionale che vuole prelevare esemplari alieni e venderli come armi biologiche al miglior offerente, uccidendo al contempo gli uomini di Hicks. Il quale, prima di partire, preleva Newt dall’ospedale psichiatrico in cui è ricoverata per portarla con sé e spingerla ad affrontare i propri demoni. Nel frattempo sulla Terra, all’insaputa di tutti, degli esemplari di xenomorfi sono stati allevati nei sotterranei della sede di una confessione religiosa che trasmette via cavo, con l’intenzione di lanciare un credo religioso basato sul culto dei letali mostri ignorandone la natura omicida. Inutile dire che tutte le trame convergeranno in un finale spettacolare e pirotecnico.

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Con Aliens Verheiden e Nelson confezionano un ottimo prodotto di intrattenimento che, pur contenendo qualche ingenuità narrativa dovuta ai 30 anni passati dall’uscita della miniserie, diverte ancora offrendo anche spunti di riflessione. Lo scrittore, alla stregua del contemporaneo Frank Miller de Il Cavaliere Oscuro e del Paul Verhoeven di Robocop, propone una critica sferzante della nascente società della comunicazione di massa e in particolare delle religioni da tv via cavo che infestavano, e ancora infestano, l’etere statunitense. Unendo uno script dal ritmo incalzante e cinematografico a un’ottima caratterizzazione dei personaggi, Verheiden si lanciò anche in alcune ipotesi sugli elementi allora inesplorati della mitologia di Alien, vedi l’origine dello space jockey, chiarita poi da Prometheus del 2012 e differente da quella immaginata dallo sceneggiatore nel 1988. Efficaci anche lo storytelling e il bianco e nero d’atmosfera di Mark A. Nelson, autore di una prova d’impatto e dinamica, pur con qualche incertezza di troppo nella realizzazione dei volti, tutti troppo simili tra loro. L’autore mostrerà una maggiore sicurezza in Aliens: Fortunato, storia che segna la reunion con Verheiden a distanza di 10 anni dal loro primo lavoro e contenuta in appendice al volume, dove l’artista evidenzia un’avvenuta crescita artistica. La miniserie si segnalò all’epoca per l’uso, da parte di Nelson, della Duoshade, una carta a reazione chimica dalla quale fuoriuscivano i retini incorporati, quando l’artista vi stendeva sopra col pennello un apposito reagente. La tecnica, oggi superata, venne in quegli anni adottata e resa celebre dalla superstar John Byrne in alcuni suoi lavori dell’epoca, come Namor per la Marvel e Omac per la DC.

Nonostante gli sforzi profusi all’epoca dai due autori, oggi la prima miniserie di Aliens non fa più parte del canone della saga, a causa di quanto narrato nei titoli di apertura di Alien 3 di David Fincher, che si apre proprio con la morte di Hicks e Newt nello schianto della nave Sulaco su un pianeta – colonia penale. Nella prefazione al volume, Verheiden esprime tutta la sua amarezza a proposito che è sempre stata la stessa dei fan, convinti che i due personaggi avessero ancora tanto da dire. Negli ultimi mesi era stata diffusa la notizia della prossima realizzazione di un nuovo capitolo della saga con la regia di Neil Blomkamp (District 9, Elysium), che avrebbe ripreso il filo della narrazione collocandosi subito dopo il film di Cameron e cancellando, con sollievo di tutti gli appassionati, i pessimi capitoli 3 e 4. Nonostante fossero circolati in rete bozzetti preparatori che facevano ben sperare, la notizia della morte sul nascere del progetto è stata data da Ridley Scott in persona, ormai tornato prepotentemente alla guida del franchise.

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Saldapress celebra i 30 anni della prima miniserie dell Aliens Universe con un’edizione da urlo: uno strepitoso cartonato con copertina lucida nera come i bordi delle pagine, con cui forma un accattivante effetto d’insieme cromatico, a cui si aggiunge il rilievo dello xenomorfo in copertina distinguibile al tatto. Completano questa prestigiosa edizione celebrativa i bozzetti dell’artista, le cover e i frontespizi d’epoca, i brillanti e gustosi interventi degli autori nella prefazione e postfazione, testimonianze di una passione che resta immutata nonostante il passare del tempo.

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