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Biancaneve, la recensione del live-action Disney

  • Pubblicato in Screen

Non avevamo dubbi che fosse soltanto una questione di tempo. Era davvero possibile pensare che la Disney potesse resistere alla tentazione di portare sul grande schermo la versione live action del suo lungometraggio di animazione più famoso, dopo i successi ottenuti con le trasposizioni di altri suoi celebri classici? Certamente no, benché, quando il progetto venne ufficializzato nel 2016, i boss della major californiana non potevano di sicuro immaginare che il mondo sarebbe cambiato in maniera così repentina. In quegli anni, l’Occidente stava vivendo un momento particolarmente favorevole dal punto di vista politico e sociale, soprattutto grazie alla lunga presidenza di Barack Obama, che aveva portato con sé non solo un’attenzione maggiore verso i diritti civili e i temi ambientalisti, ma anche il ritorno in auge di rivendicazioni sostenute da varie minoranze e di istanze promosse da associazioni in lotta per la parità di genere. Tanti elementi che sembravano preannunciare l’avvento di una comunità dei popoli più inclusiva. Per cui, quale migliore occasione di trasformare Biancaneve nel manifesto di questo movimento, che all’epoca pareva inarrestabile?

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Ecco, dunque, la scelta di affidare il ruolo della protagonista a Rachel Zegler, un’attrice di origini colombiane (piuttosto distante, quindi, dall’immagine classica del personaggio dei fratelli Grimm), di rimuovere i sette nani dal titolo – decidendo, inoltre, di utilizzare la motion capture per rappresentarli all’interno della pellicola - e avanti così con altre soluzioni controverse in nome di un politically correct estremamente radicale. Purtroppo per la Disney, tuttavia, nel marzo del 2020 - il mese nel quale era stato fissato l’inizio delle riprese (in seguito posticipate a causa della pandemia di Covid 19) – apparve sempre più evidente l’esistenza di una profonda spaccatura nella società statunitense, ulteriormente esacerbata dalla prima presidenza di Donald Trump, che ha dato voce a una folta rappresentanza di persone fermamente contrarie a questa nuova visione del mondo. Poi, a creare altri problemi alla produzione, oltre all’emergenza sanitaria appena menzionata, ci si sono messi di mezzo gli scioperi degli attori e degli sceneggiatori di Hollywood e l’osceno ritorno della guerra come metodo per risolvere le dispute. In particolare, il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023, che ha scatenato la sanguinosa offensiva israeliana delle settimane successive, ha apparentemente generato una divisione all’interno del cast, in quanto Gal Gadot (che interpreta la Regina Cattiva) ha pubblicamente preso le difese di Israele, il suo paese natale, mentre la Zegler si è schierata con il popolo palestinese. E a dispetto di foto recenti in cui le due attrici sono state ritratte assieme sorridenti, la preoccupazione che le numerose polemiche che hanno circondato il film (senza dimenticare le critiche feroci piovute sui social alla messa in onda online dei suoi trailer) potessero portare a veri e propri fenomeni di disordine pubblico o a forme di dissenso ancora più gravi, ha spinto i vertici della casa cinematografica a convertire la première di Los Angeles in una proiezione per pochi intimi, con un red carpet ridotto ai minimi termini. Tutte cose che rischiano pericolosamente di penalizzare gli incassi della pellicola e di spostare l’attenzione lontano dal suo reale valore artistico.

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Riguardo quest’ultimo – che è il vero aspetto che ci interessa - non vogliamo certo affermare di far parte di coloro che giudicano un film sulla base di alcune immagini promozionali, sebbene la chiara intenzione di far assomigliare il più possibile la versione live action al capostipite animato del 1937 (come già successo con molte delle trasposizioni precedenti), ci aveva fatto seriamente temere per il risultato finale. Timori che, sfortunatamente, si sono rivelati più che fondati visto che, nonostante un inizio abbastanza promettente, contrassegnato da coloratissimi allestimenti scenici e un lungo e coinvolgente numero musicale, l’arrivo nella vicenda della Regina Cattiva determina non solo la progressiva – e narrativamente giustificata - discesa di una cappa oscura sul reame di Biancaneve, ma anche la fine di ogni tentativo di dare alla pellicola un’identità precisa. Riferendoci proprio alla protagonista: come si fa a pensare che acconciature e costumi elaborati per un film ormai vicino ai novant’anni d’età possano apparire credibili in un’opera contemporanea? È vero che stiamo parlando del personaggio di una fiaba, tuttavia, vedere la povera Zegler abbigliata come una bambola e costretta a sfoggiare un taglio di capelli assolutamente inadeguato ai suoi lineamenti, ci ha lasciati alquanto perplessi. Per tacere poi dello sconcertante trattamento riservato ai sette nani (ovviamente mai chiamati così), la cui natura digitale contrasta in maniera netta con la concomitante presenza di attori in carne e ossa. L’inevitabile uso massiccio della CGI, necessaria, tra le altre cose, a ricreare gli animaletti del bosco (i quali, detto per inciso, risultano quasi sempre più verosimili di Cucciolo e compagnia) avrebbe dovuto far presagire a coloro che hanno imposto simili scelte il rischio di dare al pubblico l’impressione di essere spettatore non di un prodotto cinematografico ma di un algido e banale videogame (a quanto pare, le amare lezioni apprese da Robert Zemeckis non hanno insegnato nulla). Rischio che, neanche a dirlo, si concretizza puntualmente a ogni inquadratura in cui compaiono i nani, ridotti persino a protagonisti di sciatti e infantili siparietti comici.

L’unica decisione che ci sentiamo di condividere è la sostituzione del Principe Azzurro con un simpatico mascalzone a capo di un gruppo di ribelli che si oppone alla Regina (lo interpreta il giovane attore di belle speranze Andrew Burnap), il quale, oltretutto, è il solo personaggio che si esprime con dialoghi di un certo livello. Ma è il guizzo estemporaneo di una trama che appare costantemente come la brutta copia di quella elaborata per l’opera originale. E la colpevole principale di ciò è senza dubbio l’unica sceneggiatrice accreditata Erin Cressida Wilson (è noto, tuttavia, che alla stesura dello script hanno partecipato pure Greta Gerwig, Chris Weitz e diversi altri autori), da cui era lecito aspettarsi una buona dose di coraggio in più. Possiamo anche essere d’accordo che la storia di Biancaneve, divenuta ormai patrimonio universale, si presti alla diffusione di un messaggio maggiormente inclusivo. Perché, allora, non spingere in maniera convinta in questa direzione, anziché limitarsi a un cast multietnico e a brevi sussulti femministi, che odorano tanto di semplice strategia commerciale? Senza considerare la generale mancanza di spessore di gran parte dei comprimari, utili esclusivamente a riempire gli spazi vuoti offerti dalle varie scenografie.

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Cosa dire poi della regia? Che Marc Webb non fosse un cineasta visionario e raffinato lo sapevamo già dai suoi film precedenti (per chi non se lo ricordasse, ha girato anche i due lungometraggi di Spider-Man con Andrew Garfield). Evidentemente, però, quando il copione che gli viene fornito non si dimostra adeguato e la produzione concede poco spazio alla creatività, la sua direzione diventa scolastica e totalmente anonima.
Un fiasco colossale, quindi? Saremmo davvero tentati di concludere la nostra analisi in questo modo, ma sarebbe ingiusto nei confronti di coloro che hanno lavorato con impegno per garantire alla pellicola un minimo di qualità. Prima fra tutti Mandy Moore, autrice delle belle e trascinanti coreografie. Meritano un encomio pure il compositore Jeff Morrow e i songwriter Benj Pasek e Justin Paul che, con la collaborazione di Jack Feldman, hanno realizzato le nuove, piacevolissime canzoni. Infine, una menzione speciale per le due interpreti principali, entrambe decisamente in parte: Rachel Zegler è una solare e credibilissima Biancaneve, perfettamente a suo agio nei passaggi musicali (come già aveva dimostrato nel remake di West Side Story di Steven Spielberg) e in grado di esprimere una sincera purezza d’animo. Mentre Gal Gadot è parsa quasi divertita nell’esibirsi in atti di malvagità assoluta.

In chiusura, dunque, non resta che porsi una domanda: con tanti talenti a disposizione e un budget stimato tra i 240 e i 270 milioni di dollari, come ha fatto la Disney ad arrivare a un esito così modesto? Che qualcuno ci aiuti a rispondere, perché noi non ne siamo proprio capaci.

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Dalla censura di Diabolik ai manga: quando fumetti e cartoni spaventano l'Italia

  • Pubblicato in Focus

Nel nostro paese, sono molte le campagne e le crociate anti-fumettistiche che, dagli albori ad oggi, hanno impedito agli artisti di tutto il mondo di presentare la propria arte. negli anni '60 e '70, ad esempio, l'Italia si trovò più volte a fare i conti con fumetti e cartoni animati ritenuti "pericolosi" per i giovani. Prima fu il caso di Diabolik, il fumetto noir delle sorelle Giussani, accusato di diffondere modelli criminali e immoralità. Poi, negli anni '70, arrivò la battaglia contro i "robottoni" giapponesi, con Mazinga Z e Ufo Robot Goldrake nel mirino di genitori e politici preoccupati per la violenza e l’influenza culturale straniera. Censure, sequestri e campagne mediatiche si abbatterono su queste opere, segnando un'epoca in cui il fumetto e l’animazione venivano visti non come forme d’arte, ma come minacce all’ordine pubblico e alla morale dei più giovani. Ma fu davvero giustificata questa "caccia alle streghe" culturale?

Tutto inizia in una Milano degli anni 60, dove Tex Willer è già nelle mani di tutti i più giovani lettori, investiti dalle emozioni dei grandi film western di quel periodo. È cosi che in un freddo novembre del 1962, due sorelle dell’aristocrazia Milanese, Angela e Luciana Giussani, presentano all’Italia il loro fumetto: Diabolik. Un ladro, antieroe, che entrerà presto sia nelle edicole che nei cuori di tutti gli appassionati di fumetto.  Nel 1965, il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani avviò una vera e propria crociata contro i fumetti ritenuti pericolosi per i giovani, tra cui Diabolik.
Taviani e altri esponenti politici sostenevano che il fumetto noir Istigasse alla criminalità mostrando un ladro come protagonista positivo, e minasse l’autorità delle forze dell’ordine, poiché l’ispettore Ginko falliva spesso nel catturare Diabolik, cosi come promuovesse comportamenti immorali, sia per l’assenza di una distinzione netta tra bene e male, sia per la figura di Eva Kant, una donna indipendente e complice del protagonista.
A seguito delle pressioni politiche, nel 1965 la magistratura sequestrò diversi numeri di Diabolik con l’accusa di oscenità e incitamento al crimine. Inoltre, vennero intensificati i controlli sui contenuti dei fumetti in edicola.

Questa iniziativa si inseriva in un clima più ampio di censura e regolamentazione della stampa per ragazzi. Nello stesso periodo, il governo e alcune associazioni cattoliche volevano introdurre norme più rigide per limitare la diffusione di fumetti ritenuti “dannosi” per la moralità pubblica. Nonostante i tentativi di censura, Diabolik sopravvisse e divenne un'icona del fumetto italiano. Le critiche e i sequestri non fecero altro che alimentarne la notorietà, consolidandolo come uno dei personaggi più longevi della storia editoriale italiana. Nacque cosi il fumetto nero.

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All’alba degli anni 80, l’Italia fu investita da un’altra onda culturale: quella dei robottoni. Goldrake arriva in Italia nel 1978, (anche se la sua popolarità esplose negli anni successivi), la serie subì varie modifiche prima di essere trasmessa al pubblico. Le autorità italiane, preoccupate per l'impatto che alcune scene di violenza e temi di guerra potevano avere sui giovani spettatori, modificarono diversi aspetti. Queste modifiche includevano la riduzione della violenza per cui molte scene di combattimento furono tagliate o modificate. Ad esempio, in alcune versioni, i personaggi non morivano o venivano gravemente feriti, e si cercava di minimizzare l'intensità delle scene di battaglia.
Ci fu poi l’eliminazione di temi troppo adulti; la serie giapponese, pur essendo principalmente destinata a un pubblico giovane, trattava anche tematiche più complesse come la vendetta e la guerra, che venivano esaltate nel contesto delle azioni di Actarus. In Italia, alcuni di questi temi vennero attenuati. Ovviamente subì anche varie Modifiche ai dialoghi, che vennero cambiati per adattarsi meglio al pubblico italiano e per evitare riferimenti troppo forti alla violenza. Inoltre, la traduzione dei nomi dei personaggi fu alterata, per esempio, Koji Kabuto che diventa "Alcor" e Daisuke Umon che diventa "Actarus". In altri paesi però, come Francia e Germania, questo non avvenne, e la serie venne solo leggermente modificata in alcune scene attenuandone la violenza.

Nonostante la censura, Goldrake divenne un vero e proprio fenomeno di culto. Il suo protagonista, Actarus (che era uno dei piloti di Goldrake), divenne un eroe per i ragazzi italiani degli anni '80. Malgrado le modifiche e le limitazioni imposte dai produttori, molti fan difendevano la serie, ritenendola un capolavoro di animazione e una delle prime serie giapponesi a portare un messaggio di speranza e giustizia, anche nei confronti di un mondo in guerra.
La serie suscitò anche un dibattito su quanto fosse giusto censurare contenuti per motivi educativi, alimentando discussioni tra adulti, esperti di cultura e genitori. Alcuni ritenevano che l'educazione dei bambini non dovesse essere influenzata da programmi troppo edulcorati ma che dovessero confrontarsi con tematiche più dure, mentre altri preferivano che venissero evitati temi troppo pesanti.

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Tra gli anni '80 e '90, In Italia arrivano anche i manga più famosi tra cui Akira, Devilman, Ken il guerriero, Maison Ikkoku, Lamù... stampati anche grazie a Granata Press, che nel 1996 però fallisce, lasciando alcune serie incompiute. Il senso di lettura della serie, però, fu ribaltato e specchiato, ritenendo che questa fosse una novità per il pubblico italiano non ancora pronto e, dunque, lontana dal rispetto della versione originale. Questo fu anche uno dei motivi per cui Dragon Ball arrivò in Italia con Star Comics con estremo ritardo; solo nel 1995 infatti I Kappa Boys, allora dei giovani editori, riuscirono a portare il manga più famoso di Akira Toriyama in Italia, con la promessa che il senso di lettura fosse quello originale. Già la DeAgostini ne aveva fatto richiesta nel 1992, ma, con la lettura specchiata e la paura di altre censure, il Giappone declinò.

Nemmeno gli anime di quel periodo vennero risparmiati, la massiccia importazione di serie tra la metà degli anni '80 all’inizio degli anni 2000 diventò un vero fenomeno culturale in Italia, come non si vedeva più dalle avventure dei robottoni di qualche anno prima. Fininvest/Mediaset cominciò ad investire in questi ultimi, e, grazie anche a dei costi limitati, li comprò direttamente dall’America. Questo portò ad inglobare anche la censura e i dialoghi americani pesantemente modificati e tagliati a serie come Dragon Ball, Yu-Gi-Oh!, Naruto e One piece che, in alcuni casi cambiarono direttamente la percezione della serie, snaturandola a pura serie per bambini.

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In tempi più recenti c'è stato, invece, l'indagine del 2021 contro i manga “pericolosi” che ha acceso un forte dibattito sui fumetti giapponesi con contenuti violenti, sessualmente espliciti o ritenuti inadatti ai minori. Questo è avvenuto a seguito di alcuni episodi di cronaca e dell’attenzione crescente verso i contenuti mediatici consumati dai giovani. Il caso ha coinvolto politici, associazioni per la tutela dei minori e persino alcuni editori. L’interesse per questa legge è nata dopo che alcune testate giornalistiche e associazioni hanno segnalato la vendita di manga con contenuti ritenuti "estremi" nei normali negozi e fumetterie, senza restrizioni particolari. Alcune delle serie più discusse includevano titoli come: Goblin Slayer, Prison School ed Elfen Lied. La proposta aveva il sostegno di alcune associazioni, tra cui il MOIGE (Movimento Italiano Genitori), e puntava a tre punti in particolare:

- regolamentare la vendita di manga e fumetti con contenuti espliciti, imponendo restrizioni più severe.
- introdurre un sistema di classificazione più chiaro (sul modello di quello usato per i videogiochi con il PEGI).
- prevedere sanzioni per chi vende manga inappropriati ai minori, anche online.

La risposta del pubblico fu immediata, in quanto i fan dei manga hanno accusato il governo di voler censurare le opere giapponesi e di trattare il pubblico come incapace di scegliere consapevolmente. Gli editori hanno invece sottolineato che esistevano già sistemi di avvertenza (come il bollino "Per un pubblico maturo" su molti volumi) e che il problema non era la regolamentazione, ma la scarsa conoscenza del pubblico su questi avvisi. Le fumetterie e le librerie, d’altro canto hanno espresso preoccupazione per l’eventuale difficoltà nel gestire nuove restrizioni, temendo che avrebbe limitato le vendite senza una vera necessità. 
Molti poi hanno anche fatto notare che fumetti occidentali come quelli della Bonelli o graphic novel americane possono avere contenuti simili ai manga senza subire la stessa attenzione mediatica.

Dopo settimane di discussione, la proposta di legge non è mai stata approvata ufficialmente, ma ha lasciato un segno, difatti alcune librerie e fumetterie hanno iniziato a prestare maggiore attenzione alla classificazione dei manga e alla loro esposizione e alcuni editori hanno rafforzato l’uso di bollini di avvertenza, come “18+” o “Mature Content” o semplicemente incellofanandoli. Infine, on rete si è aperto un dibattito più ampio sulla percezione dei manga e sulla loro distribuzione in Italia.

Oggi il fumetto in Italia, ha un impatto enorme, secondo AIE dei 100 milioni di euro spesi nel 2021, 58,3 milioni (il 58,1%) sono manga, 29,7 milioni (il 29,7%) graphic novel, fumetti e comic strip, 12,2 milioni (il 12,2%) fumetti per bambini e ragazzi.
Sugli anime invece, a differenza del passato, abbiamo molta scelta, tra Netflix, Chrunchyroll, Hulu e Amazon Prime e, spesso e volentieri, questi escono in contemporanea con il Giappone. Chi vuole, ha anche a disposizione un doppiaggio ben curato.
Insomma, un grandioso passo avanti in una Italia, che inizialmente, aveva paura solo di un coltello e una calzamaglia nera.

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La vita di Otama, recensione: il viaggio artistico di Otama Kiyohara

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Pubblicato da Sergio Bonelli Editore, La vita di Otama nasce dalla collaborazione tra Keiko Ichiguchi e Andrea Accardi, che riportano in vita la figura di Otama Kiyohara. Prima pittrice giapponese a sperimentare lo stile occidentale e pioniera nel dialogo tra due mondi artistici, Otama ha vissuto tra Tokyo e Palermo, intrecciando il suo destino con quello dello scultore Vincenzo Ragusa.

Prima di accennare alla trama, è doveroso un piccolo quadro storico-culturale in cui la storia è ambientata. Fino alla metà dell’Ottocento, il Giappone aveva fortemente limitato i contatti con l’Occidente, un isolamento noto come Sakoku. Tuttavia, con il rinnovamento avviato dalla dinastia Meiji nel 1868, si diede il via a un profondo processo di modernizzazione politica, sociale e culturale, ispirato ai modelli occidentali. Il governo affidò tale svolta a consulenti provenienti da diverse nazioni e l’Italia divenne protagonista di un rinnovamento artistico. Fu così che Vincenzo Ragusa arrivò in Giappone in qualità di docente di scultura. Qui i destini di Vincenzo e Otama si intrecciano, dando inizio a un percorso che cambierà radicalmente la vita di lei. Otama diventerà prima allieva e poi musa ispiratrice dello scultore siciliano, la prima nella storia giapponese ad assumere questo ruolo. Si trasferisce a Palermo, sposa Vincenzo e approfondisce la sua ricerca artistica, sperimentando tecniche e materiali occidentali. Realizza numerose opere pittoriche e lavora anche come reporter. A Palermo troverà un mondo a lei sconosciuto, dove cultura, costume e lingua inizialmente le saranno da ostacolo. Ma la sua perseveranza la porterà a integrarsi perfettamente con la città e i suoi abitanti. Insieme al marito fonda la Scuola d’arte orientale, dove insegnerà e sarà la direttrice della sezione femminile dell’istituto.
Dopo la morte del marito, il percorso artistico e personale di Otama volge al termine. Ormai sola, decide di far ritorno nella sua Tokyo che, dopo cinquant’anni vissuti a Palermo, non riconosce più. La città del Sol Levante, che un tempo chiamava casa, non le appare più familiare come un tempo. Ormai non è più Otama Kiyohara, ma Eleonora Ragusa, un nome che rappresenta il cambiamento profondo della sua identità e della sua vita.

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La vita di Otama si distingue come un’opera capace di unire storia, arte e cultura in un racconto intenso e affascinante. È la storia di una donna straordinaria, che con il suo animo gentile ha unito due culture apparentemente distanti: Italia e Giappone. Tra tradizione e modernità, il graphic novel ricostruisce la sua storia con un approccio visivamente raffinato e narrativamente coinvolgente, offrendo ai lettori uno spaccato unico su un’epoca di cambiamento e sulla determinazione di una donna fuori dal comune.
Accardi e Ichiguchi trasformano illustrazioni e sceneggiatura in un linguaggio narrativo autonomo. Lo stile grafico, l’attenzione anche ai minimi dettagli e sfumature catturano perfettamente il contrasto tra i mondi di Tokyo e Palermo. Una ricerca scrupolosa mirata alla perfetta trasposizione della realtà su carta. Ogni pagina sembra un’opera d’arte, in grado di trasmettere visivamente le emozioni più sottili dei personaggi. La composizione delle tavole crea un'atmosfera che ben si sposa con le tematiche della storia, accentuando il percorso interiore di Otama e il suo adattamento a una cultura nuova e sconosciuta.

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L’amore è il tema su cui si regge tutta la trama. Ma limitare a considerare La vita di Otama una semplice storia d’amore risulterebbe riduttivo. È vero, la relazione tra Otama e Vincenzo è la colonna portante della storia che si sviluppa attraverso diverse sfumature – cultura, arte, rispetto e passione – ed è un esempio di come l’amore possa superare qualsiasi ostacolo. Ma non è sempre rosa e fiori. Il loro è anche un amore che ha vissuto diverse difficoltà, come la perdita del figlio durante il terzo mese di gravidanza. Ma anche adattamento e sacrificio, che si riflettono nei momenti più difficili della vita di Otama.
L’arte non è solo una forma di espressione, ma anche uno strumento di emancipazione e per Otama è il veicolo per esplorare nuove possibilità e superare i limiti della sua cultura. L’arte diventa il mezzo per la sua realizzazione sociale, capace di eliminare gli ostacoli linguistici della sua prima esperienza palermitana. La figura di Otama rappresenta il punto d’incontro tra due culture, il Giappone e l’Italia, e il suo percorso artistico è l’esempio più puro di come due mondi opposti possano influenzarsi reciprocamente.

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Il lavoro di Keiko Ichiguchi e Andrea Accardi restituisce un affresco visivo e narrativo che incanta e commuove, invitando i lettori a riflettere sulla bellezza dell'incontro tra mondi diversi e sulla potenza del cambiamento personale. In un'epoca di grandi trasformazioni, La vita di Otama ci offre una testimonianza di determinazione, di amore e, soprattutto, di speranza.

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