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Intervista a Dan Jurgens: l'autore della morte di Superman fra passato e presente

Durante i giorni di Lucca Comics & Games abbiamo avuto l'opportunità di incontrare il grande Dan Jurgens, sceneggiatore e disegnatore americano autore di molte run di successo per DC e Marvel, fra le quali la storica morte di Superman. Grazie a Panini Comics abbiamo posto alcune domande all'autore, che potete ascoltare nel video qui di seguito o nella sua trascrizione.



Comicus (Luca): Ciao Dan e benvenuto su Comicus e a Lucca Comics & Games! È la tua prima volta qui a Lucca?
Jurgens: Ciao! Si, è la mia prima volta a Lucca ed è meraviglioso poter essere qui.

Comicus (Luca): Che idea ti sei fatto della manifestazione?
Jurgens: All’inizio facevo fatica ad immaginare come tutto potesse svolgersi correttamente in una fiera all’aperto, soprattutto in caso di pioggia – e credo che abbiamo avuto la risposta a quella domanda (ride, ndr). Ma è tutto molto divertente e il gran numero di visitatori mi ha lasciato a bocca aperta.

Comicus (Luca): Ho una domanda per te, direttamente dai miei ricordi di ragazzo. Ricordo di aver letto un pezzo del grande Ray Bradbury su Superman (introduzione al TPB americano di Man of Steel di John Byrne, ndr.) intitolato: Perché Superman? Perché oggi? Sono passati quarant’anni, e nel frattempo tu sei diventato il più importante autore di Superman degli ultimi trenta. Quindi ti chiedo: Perché Superman? Perché è ancora un personaggio così rilevante oggi, in questi tempi oscuri?
Jurgens: Penso che Superman rappresenti davvero il meglio dell’umanità, tutto quello che ciascuno di noi dovrebbe aspirare a essere. Si dice spesso che Superman rappresenta quello che vorremmo essere, mentre Batman rappresenta quello che siamo. Penso che proprio quando le cose si fanno un po’ più oscure, quello è il momento in cui abbiamo più bisogno della luce di Superman.

Comicus (Antonio): Oltre ad essere il più grande autore di Superman degli ultimi trent’anni, sei anche un grandissimo fan del personaggio. Per questo motivo ci risulta difficile immaginare il momento in cui hai deciso di sviluppare una storia sulla sua morte. Siamo curiosi di sapere quale fu la tua reazione nel momento in cui ti sei reso conto che avresti lavorato a una storia in cui, alla fine, Superman sarebbe morto.
Jurgens: Bisogna dire che, in realtà, non ci fu veramente chiesto di creare una storia in cui alla fine Superman sarebbe morto. Quella della morte fu un’idea che partorimmo come team creativo, qualcosa che pensammo sarebbe stata una grande avventura. E più ne parlavamo, più realizzavamo che avrebbe potuto essere una storia che ci avrebbe detto qualcosa di veramente importante su Superman.

Comicus (Luca): La storia uscì durante il periodo di maggior successo dei fumetti della Image Comics, con i suoi eroi moderni e violenti. Mi chiedevo se il ritorno di Superman dalla morte potesse simboleggiare il ritorno dell’archetipo del supereroe classico, in opposizione a quelli moderni e violenti.
Jurgens: Cominciammo a pianificare la morte di Superman alla fine del 1991, e quando cominciammo a strutturare la trama la Image Comics ancora non esisteva. Noi stavamo semplicemente cercando il modo di raccontare una storia coinvolgente che avrebbe detto qualcosa di molto chiaro su Superman. Dopo la conclusione della nostra storia, con la morte del personaggio, la DC smise di pubblicare fumetti con Superman protagonista per un certo periodo. Noi non sapevamo come e quando Superman sarebbe tornato: non avevamo risposte a nessuna di queste domande. Fu quando la storia si trasformò in un successo di massa internazionale che realizzammo che il mondo ci stava guardando e che dovevamo inventarci qualcosa di convincente e all’altezza delle aspettative, e fu così che iniziammo a ideare il ritorno di Superman.

Comicus (Antonio): A proposito della tua carriera, secondo la tua opinione, credi che il processo creativo sia cambiato in termini di libertà per l’autore negli ultimi trent’anni o è rimasto più o meno lo stesso?
Jurgens: Penso che dipenda interamente dal tipo di progetto. Se un autore lavora su personaggi di sua proprietà, allora sì, avrà un controllo creativo molto maggiore. Se l'autore lavora su proprietà di una corporation, tali corporation possono decidere di esercitare un controllo maggiore, sebbene, a volte, scelgano semplicemente di riporre molta fiducia negli autori, soprattutto se li conoscono, lasciando che facciano molto - se non tutto - di ciò che vogliono. Dipende dalle persone coinvolte e dal progetto.
Oggi direi che probabilmente c’è un controllo maggiore. E ovviamente, con l’arrivo dei film, dei videogiochi e di altri media, più crescerà la popolarità di questi personaggi più è probabile che questo controllo verrà esercitato.

Comicus (Antonio): Un’ulteriore domanda legata a questo argomento: sostanzialmente tu hai sempre lavorato con Marvel e DC. Escludendo il breve periodo con la Valiant, non hai mai collaborato con un editore indipendente. Qual è la ragione di questa scelta?
Jurgens: In realtà, l'ho fatto. Una volta c'era un’etichetta chiamata Bravura (un imprint della Malibu Comics, ndr) con personaggi i cui diritti appartenevano agli autori. Walter Simonson aveva una serie lì e anche Howard Chaykin. In tanti avevano piazzato delle proprietà lì, me compreso. Il problema è che (la Malibu, ndr) è andata praticamente in bancarotta (risata generale, ndr). È fallita proprio per quello e successivamente è stata acquisita dalla Marvel. Una dura lezione che ho imparato a mie spese.

Comicus (Luca): Sono un grande fan della Justice League di Keith Giffen e JM De Matteis, che fin dall’inizio coinvolse un eroe creato da te, Booster Gold. Eri d’accordo con quella caratterizzazione ironica data al personaggio?
Jurgens: Booster Gold aveva iniziato a essere pubblicato da un anno o giù di lì. Keith Giffen mi chiamò e mi disse che stava lavorando a questo nuovo albo della Justice League. Mi chiese: ti piacerebbe o, comunque, saresti d'accordo se inserissi Booster nella Justice League? Io risposi: certo! Naturalmente! Ma il loro primo numero non era ancora uscito. Quindi chiesi di farmelo avere, per capire cosa stessero facendo. Così, come si usava allora, mi mandarono delle fotocopie. E quello che vidi nel primo numero mi piacque molto, pensando che sarebbe stato fantastico.
Non solo io, molti altri pensavano lo stesso. Vedevamo la Justice League mentre veniva realizzata - Io la chiamavo Terra, Keith (ride, ndr) - le storie si svolgevano, erano in continuità con il resto dell’Universo DC, ma avevano un sapore particolare, che io trovavo molto divertente.

Comicus (Antonio): L’ultima domanda riguarda Spider-Man: quando eri al lavoro sul personaggio in Marvel, ti trovavi probabilmente nel momento migliore della tua carriera. Secondo noi, a dispetto della sua breve durata, la tua gestione fu una delle migliori di Spider-Man, soprattutto se confrontata agli ultimi quindici anni del personaggio. Quale fu la ragione secondo te, per cui non arrivò il successo che tutti si aspettavano?
Jurgens: Quando ho iniziato a lavorare su Spider-Man, avevamo preso vari accordi su quale sarebbe stata la cronologia relativa alla situazione dei cloni di Ben Reilly e Peter Parker. Eravamo tutti sulla stessa linea. Tuttavia, fin da quando arrivai lì, la Marvel cominciò a cambiare idea su cosa voleva, su dove voleva andare e sul tipo di storie che voleva fare. Alla fine, il tipo di storia che io volevo realizzare faceva sempre più fatica ad adattarsi a quel modo di agire. È difficile fare piani per il prossimo anno di storie, se si cambia continuamente idea.
Pensai che le cose non stessero funzionando per il meglio. Così mi sono detto: sarebbe meglio se mi facessi da parte. Ed è esattamente quello che ho fatto.

Grazie mille Dan. È stato davvero un onore essere qui con te.

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Lucca Comics & Games 2025: il nostro reportage

  • Pubblicato in Focus

A dispetto di condizioni meteorologiche non altrettanto favorevoli come nell’edizione dello scorso anno, ma comunque più che accettabili, considerando che gli unici giorni veramente critici sono stati il giovedì e la domenica, Lucca Comics & Games 2025 si è conclusa registrando l’ennesimo, straordinario successo di pubblico. Non solo per il numero di biglietti venduti (oltre 280.000), ma anche per il consueto afflusso di appassionati e di semplici curiosi, che hanno invaso le strade del bellissimo centro storico della cittadina toscana, con il solo scopo di sentirsi parte del festival e di condividerne l’euforia. La kermesse lucchese è da tempo diventata un vero e proprio fenomeno di costume, a cui parecchie persone scelgono di partecipare a prescindere dal reale interesse verso la cultura pop. Tutto ciò nella consapevolezza di dover spendere cifre folli per un alloggio (anche a distanza di diversi chilometri dalle mura della città), della quasi impossibilità di trovare un parcheggio libero, se non lo si è prenotato con larghissimo anticipo, e di molti altri disagi da tollerare, tra i quali, naturalmente, le code estenuanti a cui bisogna sottoporsi per assistere a un particolare evento o per poter incontrare il proprio autore preferito. Oltretutto, in questa edizione, dopo le numerose proteste rivolte al sistema di prenotazione online delle signing session, utilizzato negli ultimi anni da alcuni editori, per evitare che molti appassionati decidessero di passare una notte in bianco di fronte a un determinato padiglione, in modo da essere i primi della fila il giorno successivo, diversi autori hanno cercato di accontentare più persone possibili, restando nella loro postazione ben oltre il tempo stabilito (il caso più eclatante è – come già successo altre volte – Zerocalcare, encomiabile nel suo stakanovismo). Per chi si ferma più giorni, poi, Lucca vuol dire anche (o soprattutto) avere la possibilità di incontrare a cena un autore famoso, o di chiacchierare con loro per strada fino a notte fonda. Oppure, di andare a farsi una birra con gli amici e finire a brindare assieme a C.B. Cebulski, l’editor in chief della Marvel. Tutte cose che succedono realmente - e più di frequente di quanto si possa immaginare – e che contribuiscono a creare quella magia che circonda la manifestazione, rendendola un appuntamento irrinunciabile.

Quest’anno il tema del festival era il French Kiss, attraverso il quale si è voluto rendere omaggio alla libertà d’espressione, che da sempre anima il fumetto francese, ma che anche la kermesse lucchese ha spesso rivendicato come uno dei suoi pilastri fondativi. Non a caso a realizzarne il poster è stata Rébecca Dautremer, notissima illustratrice transalpina di libri per l’infanzia, attiva pure in campo pubblicitario. L’autrice delle storie di Jacominus Gainsborough ha addirittura trasferito il suo studio nella Limonaia di Palazzo Guinigi, uno degli edifici più iconici della cittadina toscana, per garantire ai visitatori la possibilità di vederla lavorare dal vivo. In più, una delle mostre di questa edizione ha riguardato proprio la sua ultima opera, il graphic novel Ruby Rose, alcune tavole della quale sono state esposte in anteprima mondiale.



Oltre alla Dautremer, non sono mancati, come di consueto, altri ospiti di prestigio, a cominciare da Tetsuo Hara, il notissimo disegnatore di Ken il guerriero, il quale, tuttavia, benché sia stato l’autore che, più di tutti, ha catalizzato l’attenzione del pubblico, si è ritrovato al centro di diverse polemiche, che hanno ingiustamente colpito anche l’organizzazione della manifestazione e la Panini Comics (l’editore che ha portato il cartoonist giapponese in Italia). Nella realtà, il “trambusto” è stato originato da Coamix Inc. (la casa editrice di cui Hara è co-fondatore), che ha offerto la possibilità di incontrare il celebre mangaka, acquistando delle litografie a tiratura limitata e altro merchandising a prezzi esorbitanti (fino a 12.600 €). Ora, per quanto cifre simili possano sembrare esagerate, sono le stesse che si pagherebbero in qualunque altra parte del mondo (dove l’incontro con Hara, tuttavia, non sarebbe compreso), e soprattutto non avevano nessun collegamento con gli eventi (uno showcase e due panel, di cui uno molto interessante moderato da Igort, che ha visto anche la presenza di John Romita Jr.) e i firmacopie a cui l’artista nipponico ha partecipato. L’unico problema ha riguardato proprio la gestione di questi appuntamenti, dato che la prevedibile ed enorme richiesta del pubblico, ha determinato, ancora una volta, l’inevitabile ricorso alle famigerate prenotazioni e lotterie online. Ciononostante, la visita di Hara ha permesso l’allestimento di una splendida mostra - intitolata Come un fulmine dal cielo, prendendo a prestito uno dei passaggi più conosciuti della sigla italiana dell’anime di Kenshiro - all’interno della suggestiva Chiesa dei Servi di Lucca, dove per la prima volta al mondo sono state esposte fuori dal Giappone oltre 100 tavole originali di Hokuto no Ken e di altri manga illustrati dal maestro nipponico.



Ulteriore ospite di altissimo livello è stato Kevin Eastman, anch’egli protagonista di una bellissima mostra (A Twisted Ronin Ninja), dove era possibile ammirare diverse tavole originali e alcuni bozzetti preliminari, che hanno ripercorso tutta la sua lunga e illustre carriera. Il co-creatore delle celeberrime Tartarughe Ninja era in Italia per merito della sempre più agguerrita Mirage Comics, nella cui postazione si sono alternati pure il già citato John Romita Jr. (al solito disponibilissimo con i suoi numerosi fan), Darick Robertson e Simon Bisley, oltre a uno stuolo di validissimi artisti nostrani, tra cui Federico Mele, Marco Santucci, Maria Laura Sanapo e Luca Strati.

Come da tradizione, Lucca Comics offre sempre una vetrina importante al variopinto mondo dei comics americani, ospitando sia creativi che collaborano con major come Marvel e DC Comics, sia autori che preferiscono lavorare in progetti creator-owned e che trovano in realtà come Image Comics o Dark Horse il loro naturale punto di riferimento. Notevolissimo il parterre di artisti dell’industria statunitense presenti alla kermesse lucchese: basta citare ospiti portati da Panini Comics come Dan Jurgens, il leggendario autore della Morte di Superman (che abbiamo avuto l’onore di intervistare), e Chip Zdarsky, scrittore sempre più coinvolto nei prossimi progetti di rilancio Marvel, anticipati da un interessante panel a cui hanno partecipato l’attuale editor in chief della Casa delle Idee, il già citato C.B. Cebulski, e lo staff Panini al gran completo rappresentato da Marco M. Lupoi, Nicola Peruzzi ed Emanuele Emma. Anche quest’anno l’editore modenese ha inserito nella sua proposta lucchese una serie di conferenze di altissimo livello come “L’anno di Superman”, “American Graffiti” e il nuovo capitolo della serie “Scrivere l’America” moderati con l’abituale professionalità e competenza dall’instancabile Marco Rizzo. Di assoluto livello il resto degli ospiti targati Panini, dalle star nostrane ma ormai di casa nei comics USA come Carmine Di Giandomenico, Valerio Schiti e Alessandro Cappuccio, alla nutrita pattuglia di artisti Disney capitanati dal maestro Giorgio Cavazzano e rappresentati, tra gli altri, da Fabio Celoni, Andrea Freccero e Marco Gervasio. Ma non è stata certamente da meno Bao Publishing che, oltre alla star Zerocalcare che ha anticipato a Lucca il titolo della sua nuova serie Netflix (Due Spicci), ha proposto una rosa di nomi di assoluto prestigio che ha in Brian K. Vaughan, uno dei più grandi scrittori di comics dei nostri tempi, e in artisti eccellenti come Marcos Martin, Muntsa Vicente, Bilquis Evely, Mat Lopes e Niko Henrichon le proprie punte di diamante. Possiamo anticiparvi che abbiamo partecipato a delle “round table” private con questi straordinari artisti, di cui vi daremo conto presto.

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Come non segnalare, poi, la partecipazione di ben quattro grandi esponenti della scuola ispano-argentina del calibro di Horacio Altuna, Enrique Breccia, Alfonso Font e Carlos Gómez, ospiti della Sergio Bonelli Editore e autorevolissimi rappresentanti di quella folta schiera di artisti spagnoli e latinoamericani, che a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta si sono cimentati a più riprese con le storie di Tex. Proprio ad Aquila della Notte e ai suoi autori ispanici è stata dedicata quest’anno l’ennesima, interessantissima mostra, ¡Hola, Tex!, con la quale si è voluto dare corpo alla perfetta commistione creatasi tra l’esuberanza espressiva dell’historieta e il fumetto western all’italiana.
Sempre più copiosa la rappresentanza di autori provenienti dal Paese del Sol Levante, che oltre a Tetsuo Hara comprendeva, tra gli altri, Takashi Murakami, di cui è stato presentato in anteprima Pino, rilettura fantascientifica della favola di Pinocchio, Ebine Yamaji, mangaka molto apprezzata per l’intimismo maturo e senza filtri che contraddistingue le sue opere, i creatori di Gachiakuta Kei Urana e Hideyoshi Andou, gli alfieri del genere ero guro Shintaro Kagō (ormai un habitué di Lucca) e Asagi Yaenaga, e due rilevanti esponenti del fumetto horror nipponico come Hōsui Yamazaki e Miyako Cojima.
Notevole anche la presenza di altri autori asiatici, tra cui Byeonduck, autrice coreana ospite di J-Pop e i taiwanesi Yu Peiyun, Zhou Jiangxin, AAA-Bao e YAYA.
Moltissimi, oltre a quelli già citati, i cartoonist italiani, e per questo impossibile elencarli tutti, benché siano risultati fondamentali, assieme ad alcuni importanti portavoce stranieri del fumetto d’autore, come Lee Lai, Guy Delisle, David B. e Peter Kuper, ad accrescere il prestigio di questa edizione.

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Da segnalare l’esordio della nuova Fumo di China - con ben tre copertine differenti e una veste grafica elegantissima – e de La fine del mondo, coraggioso tentativo del Manifesto di riportare in edicola una rivista a fumetti antologica, con grandi firme come Bruno Bozzetto, Zerocalcare, Gipi, Zuzu, Maicol&Mirco (che è anche l’ideatore e curatore della testata) e tanti altri.
Meritano una citazione anche le mostre dedicate al capolavoro del fumetto argentino L’Eternauta, alla grande character designer giapponese – pure lei tra gli ospiti del festival - Akemi Takada (basti citare tra i suoi lavori gli anime di Orange Road, L’incantevole Creamy, Lamù, Cara dolce Kioko e Patlabor), e a due figure di spicco del fumetto italiano contemporaneo come Grazia La Padula e Sergio Algozzino.

Ma Lucca è ormai da anni anche e soprattutto fenomeno multimediale, e i riflettori sono stati catturati in tal senso dalla presenza del giovane cast dell’amatissima serie Stranger Things e dal duo di ideatori composto dai fratelli Duffer. La coppia di scrittori/produttori e le giovani star del programma cult hanno sfilato sul red carpet del pucciniano Teatro del Giglio in un affollatissimo evento che ha anticipato i temi della quinta stagione dello show – di prossima uscita su Netflix – e che ha ribadito, come se ce ne fosse bisogno, il grande affetto del pubblico italiano nei confronti della serie.



In chiusura, non possiamo fare a meno di citare due polemiche – una immaginaria e una reale – che hanno alimentato il gossip della manifestazione. Se il presunto fastidio di Tetsuo Hara nei confronti di alcune vignette di Leo Ortolani che ironizzavano sui prezzi dei pacchetti degli incontri col Sensei sono da derubricare allo status di pettegolezzo, ben più concreto il caso che ha riguardato il celeberrimo autore di videogiochi Hideo Kojima. Il quale, per essersi fatto ritrarre in una foto in compagnia di Zerocalcare e di una copia in giapponese del volume Kobane Calling (nel quale l’autore solidarizza con la causa curda), si è trovato al centro di un incidente internazionale col governo turco. Il tutto viene raccontato con ironia dallo stesso Zerocalcare in un video da lui pubblicato sul suo profilo Instagram.

Antonio Ausilio e Luca Tomassini

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Ridere per sopravvivere: Gintama, il capolavoro perduto di Hideaki Sorachi

  • Pubblicato in Focus

In un panorama saturo di anime che inseguono formule collaudate e protagonisti predestinati, Gintama è sempre stato un’anomalia. Un’irregolarità vivente, una scheggia impazzita dentro il sistema editoriale di Shonen Jump, capace di ridere del proprio editore, dei propri colleghi e di se stesso. È l’opera che ha trasformato il nonsense in linguaggio narrativo e la parodia in filosofia, un progetto nato quasi per caso e diventato, con il tempo, un simbolo di libertà creativa. Hideaki Sorachi ha dato vita a un universo che mescola samurai, alieni, androidi, cabaret e tragedie familiari con la stessa disinvoltura di un autore che non ha paura di essere contraddittorio. E forse è proprio questa incoerenza dichiarata, questa ribellione costante, a rendere Gintama un fenomeno unico nel suo genere.

La storia è nota ma mai banale: in una versione alternativa del Giappone del periodo Edo, la nazione è stata conquistata dagli Amanto, alieni che hanno vietato l’uso delle spade e umiliato i samurai. È un’ambientazione che nasce dal paradosso e ci sprofonda dentro, un mondo in cui la tradizione incontra la fantascienza e in cui la dignità del passato si scontra con l’assurdità del presente. In questo scenario si muove Gintoki Sakata, un ex-samurai dai capelli argentati che sopravvive facendo il tuttofare insieme ai giovani Shinpachi Shimura e Kagura, una ragazzina aliena della potente razza Yato. La loro piccola agenzia, la Yorozuya, accetta qualsiasi incarico pur di guadagnare qualcosa, e ogni lavoro diventa pretesto per un’avventura, una risata o una catastrofe.

Ma Gintama non è mai stato solo una commedia. È un continuo oscillare tra farsa e tragedia, un’opera che svela la malinconia dietro il sorriso. Gintoki è un antieroe pigro, sfrontato, spesso ridicolo, ma profondamente umano. Vive di zucchero e sarcasmo, nasconde il dolore dietro le battute e affronta il mondo con l’unica arma che gli resta: l’ironia. In lui si concentra il tema più profondo dell’intera serie — la resistenza attraverso la leggerezza. Sorachi non racconta eroi che vincono, ma persone che sopravvivono, e lo fa con una naturalezza disarmante.

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L’anime, prodotto da Sunrise e trasmesso da TV Tokyo a partire dal 2006, ha dato corpo e voce a questa follia controllata. In Giappone, il pubblico si è subito diviso: da un lato chi ne amava la comicità demenziale, dall’altro chi non riusciva a incasellarlo in nessun genere. La regia, inizialmente affidata a Shinji Takamatsu e poi a Yoichi Fujita, ha compreso il cuore del manga e lo ha amplificato. L’animazione, pur priva di grandi mezzi, brilla per inventiva e ritmo. È un’opera che sa come far ridere anche con il fermo immagine di un personaggio che guarda in camera, sa come costruire pathos in mezzo al disordine e sa perfino ridicolizzare la propria produzione. Alcuni episodi sono veri e propri meta-manifesti dell’industria: in più di un’occasione, Gintama ironizza apertamente sui problemi interni di Jump o sugli scontri tra staff, arrivando persino a spiegare — dentro la narrazione stessa — i motivi di una pausa o di una censura. Era una forma di ribellione giocosa ma lucidissima, un modo per dire al pubblico che dietro ogni serie ci sono persone, scelte, compromessi. Pochi anime hanno avuto il coraggio di esporre le proprie crepe come Gintama.

In Italia, l’anime è arrivato grazie a Dynit, che ha curato i primi doppiaggi e la distribuzione home video, mentre una parte della serie è stata successivamente trasmessa su Anime Night, l’appuntamento serale di MTV dedicato all’animazione giapponese. Pur non avendo mai raggiunto la popolarità di colossi come Naruto o One Piece, Gintama ha conquistato un pubblico di appassionati grazie al suo humor intelligente e all’originalità del tono. L’autoironia sul doppiaggio, le battute “intraducibili” e le frequenti rotture della quarta parete hanno reso difficile ma affascinante l’adattamento. Ogni versione linguistica di Gintama diventa, inevitabilmente, un’opera a sé.

Il manga, in Giappone, ha seguito una traiettoria altrettanto tormentata. Pubblicato inizialmente su Weekly Shonen Jump nel 2004, Gintama ha goduto di un successo stabile per oltre un decennio, fino a quando, nella sua fase conclusiva, ha iniziato a subire un calo di vendite. Nonostante ciò, Sorachi si è rifiutato di troncare la storia bruscamente. Insieme al suo storico editor Onishi, ha combattuto per ottenere la libertà di concludere l’opera secondo la propria visione. Quando Jump decise di accorciare i tempi, Sorachi spostò Gintama su Jump Giga, una rivista parallela che gli avrebbe dovuto garantire più spazio. Ma la pubblicazione lì durò solo tre volumi: troppo breve per un finale degno. Così l’autore decise di trasferire la conclusione su un’app gratuita, chiudendo infine l’intera saga con il volume 77 nel 2019. È un caso raro nella storia dell’editoria giapponese: un autore che, pur di rispettare la propria idea, trascina la serie da una testata all’altra, resistendo alla pressione del mercato. È un atto di coerenza e affetto verso i lettori, un ultimo gesto samurai da parte di chi i samurai li aveva già raccontati come nessuno.

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Anche in Italia la pubblicazione del manga ha avuto un percorso accidentato. I primi diciotto volumi furono editi da Planeta DeAgostini, che però interruppe la collana per motivi interni. Dopo anni di attesa, la serie è stata finalmente ripresa da Star Comics, che ne ha curato la ristampa e ha reso disponibile anche la parte finale. Un percorso a ostacoli che riflette, in piccolo, la storia stessa di Gintama: complicata, disordinata, ma sostenuta dalla tenacia dei fan.

L’opera di Sorachi vive di paradossi. È una commedia che parla di dolore, un’epopea che si prende gioco delle epopee. Le gag dissacranti e le parodie di altri anime (da Dragon Ball a Attack on Titan) non sono mai solo parodie. Sono il modo in cui l’autore dialoga con la cultura popolare, smontandola e rimontandola con affetto. In un episodio può ridicolizzare l’intero concetto di “amicizia shōnen” e in quello successivo mostrare quanto, in fondo, quell’amicizia sia l’unica cosa che ci tiene in vita. È un equilibrio delicatissimo, che Sorachi gestisce con la naturalezza di un equilibrista consapevole di camminare su un filo sopra il vuoto.

A rendere Gintama così potente è anche il suo cast corale. Ogni personaggio, anche quello che nasce come macchietta, finisce per rivelare una profondità insospettabile. Lo Shinsengumi di Kondo, Hijikata e Okita, ad esempio, passa dal ruolo di spalla comica a quello di protagonista tragico in più di un arco narrativo. Gli antagonisti, come Takasugi o Utsuro, incarnano versioni distorte di Gintoki: sono ciò che il protagonista avrebbe potuto diventare se avesse ceduto al rancore o alla follia. Questa specularità tra bene e male, tra onore e sopravvivenza, dà all’opera una dimensione morale complessa. Gintama non predica, ma osserva. Non premia la virtù, ma la resilienza. Ogni personaggio è imperfetto, e proprio per questo reale.

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Nel corso degli anni, la serie ha saputo crescere con il suo pubblico. I primi episodi sono dominati da un umorismo quasi slapstick, ma man mano che la storia prosegue, l’ironia si fa più consapevole, più legata alla memoria e alla perdita. Sorachi non ha mai nascosto il suo pessimismo verso la società moderna. Dietro il caos di Gintama si intravede un senso costante di disillusione: il Giappone invaso dagli Amanto è la metafora di un Paese che ha ceduto la propria identità culturale alla modernità, e i samurai che sopravvivono ai margini rappresentano l’uomo comune di oggi, schiacciato ma ancora dignitoso. È un’opera che ride di tutto, ma non banalizza nulla.

Tra le figure secondarie più emblematiche c’è Hasegawa Taizō, soprannominato Madao  abbreviazione di marude damena ossan, “un uomo completamente inutile”. Ex impiegato di dogana, perde il lavoro e precipita in una spirale di disoccupazione e fallimenti che lo trasforma in un barbone con gli occhiali da sole sempre storti. Ma dietro la sua comicità disperata, Sorachi costruisce una delle satire sociali più taglienti della serie: Madao rappresenta l’uomo comune schiacciato dal sistema, il lavoratore giapponese che, una volta escluso dalla routine produttiva, perde anche la propria identità. È un personaggio tragicomico che incarna la precarietà esistenziale del Giappone moderno, dove la vita stessa sembra avere senso solo finché si lavora.

Il tono della serie raggiunge il suo apice nella saga finale, trasposta nell’ultimo film, Gintama: The Final (2021). Lì Sorachi chiude un cerchio lungo quindici anni. Il film, prodotto da Bandai Namco Pictures, si presenta come la vera conclusione della storia e riassume tutto ciò che Gintama è sempre stato: un addio comico e tragico allo stesso tempo. C’è azione spettacolare, ci sono morti e rinascite, ma soprattutto c’è una consapevolezza struggente. Gintoki, Shinpachi e Kagura non sono più i buffoni di una serie comica, ma amici che si salutano dopo aver condiviso un lungo viaggio. La pellicola è un omaggio al pubblico e all’autore stesso, piena di autocitazioni e di quella ironia malinconica che è la cifra più autentica di Sorachi. Dopo la fine, resta la sensazione di aver assistito a qualcosa di irripetibile: una commedia che ha imparato a parlare della vita meglio di tanti drammi.

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L’eredità culturale di Gintama è profonda ma spesso sottovalutata. In patria è diventata un riferimento trasversale, citata da autori comici, youtuber, persino politici. È una serie che ha insegnato a un’intera generazione che si può essere dissacranti e sinceri allo stesso tempo. All’estero ha avuto una diffusione più lenta, ma costante: piattaforme di streaming, community dedicate e progetti di fansubbing hanno mantenuto viva la passione anche dopo la fine della serializzazione. In Italia, la prova più tangibile di questa longevità è rappresentata da iniziative come il podcast Anime d’Argento, interamente dedicato a Gintama. Creato da un gruppo di appassionati italiani, il programma esplora gli episodi, i temi e le curiosità dell’opera con uno sguardo critico e affettuoso, dimostrando come l’interesse per la serie continui a rinnovarsi anche a distanza di anni. È il segno di una comunità che non ha mai smesso di ridere e riflettere insieme ai suoi protagonisti.

Rileggendo o rivedendo Gintama oggi, si percepisce chiaramente quanto fosse avanti rispetto al suo tempo. Sorachi ha costruito una narrazione postmoderna in piena regola, in cui la consapevolezza del linguaggio è parte integrante della trama. I personaggi sanno di essere personaggi, ma proprio per questo diventano più veri. È un gioco di specchi continuo, dove la risata nasce non dall’assurdità del mondo, ma dalla nostra incapacità di accettarlo. In un certo senso, Gintama è un’opera sul mestiere stesso di raccontare: sulla difficoltà di dare un senso a qualcosa che, per sua natura, non ce l’ha.

Quando i titoli di coda dell’ultimo film scorrono e la musica si spegne, resta una sensazione familiare: quella di aver vissuto qualcosa che somiglia terribilmente alla vita. Disordinata, ironica, dolorosa, tenera. Gintama non offre risposte, ma un invito: ridere, anche quando non c’è niente da ridere. E forse è questa la più grande lezione di Hideaki Sorachi: che la comicità non è fuga, ma resistenza. Che la leggerezza, se coltivata con sincerità, è la forma più alta di coraggio.
Tra l'altro, con tutte le proposte di nicchia abbastanza scadenti che abbiamo avuto nel panorama italiano negli ultimi anni, e l'aumento costante del prezzo, Star Comics dovrebbe davvero mettersi una mano nella coscienza a ristampare questo shonen, che merita davvero una lettura da parte di tutti.

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