Ridere per sopravvivere: Gintama, il capolavoro perduto di Hideaki Sorachi
- Pubblicato in Focus
In un panorama saturo di anime che inseguono formule collaudate e protagonisti predestinati, Gintama è sempre stato un’anomalia. Un’irregolarità vivente, una scheggia impazzita dentro il sistema editoriale di Shonen Jump, capace di ridere del proprio editore, dei propri colleghi e di se stesso. È l’opera che ha trasformato il nonsense in linguaggio narrativo e la parodia in filosofia, un progetto nato quasi per caso e diventato, con il tempo, un simbolo di libertà creativa. Hideaki Sorachi ha dato vita a un universo che mescola samurai, alieni, androidi, cabaret e tragedie familiari con la stessa disinvoltura di un autore che non ha paura di essere contraddittorio. E forse è proprio questa incoerenza dichiarata, questa ribellione costante, a rendere Gintama un fenomeno unico nel suo genere.
La storia è nota ma mai banale: in una versione alternativa del Giappone del periodo Edo, la nazione è stata conquistata dagli Amanto, alieni che hanno vietato l’uso delle spade e umiliato i samurai. È un’ambientazione che nasce dal paradosso e ci sprofonda dentro, un mondo in cui la tradizione incontra la fantascienza e in cui la dignità del passato si scontra con l’assurdità del presente. In questo scenario si muove Gintoki Sakata, un ex-samurai dai capelli argentati che sopravvive facendo il tuttofare insieme ai giovani Shinpachi Shimura e Kagura, una ragazzina aliena della potente razza Yato. La loro piccola agenzia, la Yorozuya, accetta qualsiasi incarico pur di guadagnare qualcosa, e ogni lavoro diventa pretesto per un’avventura, una risata o una catastrofe.
Ma Gintama non è mai stato solo una commedia. È un continuo oscillare tra farsa e tragedia, un’opera che svela la malinconia dietro il sorriso. Gintoki è un antieroe pigro, sfrontato, spesso ridicolo, ma profondamente umano. Vive di zucchero e sarcasmo, nasconde il dolore dietro le battute e affronta il mondo con l’unica arma che gli resta: l’ironia. In lui si concentra il tema più profondo dell’intera serie — la resistenza attraverso la leggerezza. Sorachi non racconta eroi che vincono, ma persone che sopravvivono, e lo fa con una naturalezza disarmante.

L’anime, prodotto da Sunrise e trasmesso da TV Tokyo a partire dal 2006, ha dato corpo e voce a questa follia controllata. In Giappone, il pubblico si è subito diviso: da un lato chi ne amava la comicità demenziale, dall’altro chi non riusciva a incasellarlo in nessun genere. La regia, inizialmente affidata a Shinji Takamatsu e poi a Yoichi Fujita, ha compreso il cuore del manga e lo ha amplificato. L’animazione, pur priva di grandi mezzi, brilla per inventiva e ritmo. È un’opera che sa come far ridere anche con il fermo immagine di un personaggio che guarda in camera, sa come costruire pathos in mezzo al disordine e sa perfino ridicolizzare la propria produzione. Alcuni episodi sono veri e propri meta-manifesti dell’industria: in più di un’occasione, Gintama ironizza apertamente sui problemi interni di Jump o sugli scontri tra staff, arrivando persino a spiegare — dentro la narrazione stessa — i motivi di una pausa o di una censura. Era una forma di ribellione giocosa ma lucidissima, un modo per dire al pubblico che dietro ogni serie ci sono persone, scelte, compromessi. Pochi anime hanno avuto il coraggio di esporre le proprie crepe come Gintama.
In Italia, l’anime è arrivato grazie a Dynit, che ha curato i primi doppiaggi e la distribuzione home video, mentre una parte della serie è stata successivamente trasmessa su Anime Night, l’appuntamento serale di MTV dedicato all’animazione giapponese. Pur non avendo mai raggiunto la popolarità di colossi come Naruto o One Piece, Gintama ha conquistato un pubblico di appassionati grazie al suo humor intelligente e all’originalità del tono. L’autoironia sul doppiaggio, le battute “intraducibili” e le frequenti rotture della quarta parete hanno reso difficile ma affascinante l’adattamento. Ogni versione linguistica di Gintama diventa, inevitabilmente, un’opera a sé.
Il manga, in Giappone, ha seguito una traiettoria altrettanto tormentata. Pubblicato inizialmente su Weekly Shonen Jump nel 2004, Gintama ha goduto di un successo stabile per oltre un decennio, fino a quando, nella sua fase conclusiva, ha iniziato a subire un calo di vendite. Nonostante ciò, Sorachi si è rifiutato di troncare la storia bruscamente. Insieme al suo storico editor Onishi, ha combattuto per ottenere la libertà di concludere l’opera secondo la propria visione. Quando Jump decise di accorciare i tempi, Sorachi spostò Gintama su Jump Giga, una rivista parallela che gli avrebbe dovuto garantire più spazio. Ma la pubblicazione lì durò solo tre volumi: troppo breve per un finale degno. Così l’autore decise di trasferire la conclusione su un’app gratuita, chiudendo infine l’intera saga con il volume 77 nel 2019. È un caso raro nella storia dell’editoria giapponese: un autore che, pur di rispettare la propria idea, trascina la serie da una testata all’altra, resistendo alla pressione del mercato. È un atto di coerenza e affetto verso i lettori, un ultimo gesto samurai da parte di chi i samurai li aveva già raccontati come nessuno.

Anche in Italia la pubblicazione del manga ha avuto un percorso accidentato. I primi diciotto volumi furono editi da Planeta DeAgostini, che però interruppe la collana per motivi interni. Dopo anni di attesa, la serie è stata finalmente ripresa da Star Comics, che ne ha curato la ristampa e ha reso disponibile anche la parte finale. Un percorso a ostacoli che riflette, in piccolo, la storia stessa di Gintama: complicata, disordinata, ma sostenuta dalla tenacia dei fan.
L’opera di Sorachi vive di paradossi. È una commedia che parla di dolore, un’epopea che si prende gioco delle epopee. Le gag dissacranti e le parodie di altri anime (da Dragon Ball a Attack on Titan) non sono mai solo parodie. Sono il modo in cui l’autore dialoga con la cultura popolare, smontandola e rimontandola con affetto. In un episodio può ridicolizzare l’intero concetto di “amicizia shōnen” e in quello successivo mostrare quanto, in fondo, quell’amicizia sia l’unica cosa che ci tiene in vita. È un equilibrio delicatissimo, che Sorachi gestisce con la naturalezza di un equilibrista consapevole di camminare su un filo sopra il vuoto.
A rendere Gintama così potente è anche il suo cast corale. Ogni personaggio, anche quello che nasce come macchietta, finisce per rivelare una profondità insospettabile. Lo Shinsengumi di Kondo, Hijikata e Okita, ad esempio, passa dal ruolo di spalla comica a quello di protagonista tragico in più di un arco narrativo. Gli antagonisti, come Takasugi o Utsuro, incarnano versioni distorte di Gintoki: sono ciò che il protagonista avrebbe potuto diventare se avesse ceduto al rancore o alla follia. Questa specularità tra bene e male, tra onore e sopravvivenza, dà all’opera una dimensione morale complessa. Gintama non predica, ma osserva. Non premia la virtù, ma la resilienza. Ogni personaggio è imperfetto, e proprio per questo reale.

Nel corso degli anni, la serie ha saputo crescere con il suo pubblico. I primi episodi sono dominati da un umorismo quasi slapstick, ma man mano che la storia prosegue, l’ironia si fa più consapevole, più legata alla memoria e alla perdita. Sorachi non ha mai nascosto il suo pessimismo verso la società moderna. Dietro il caos di Gintama si intravede un senso costante di disillusione: il Giappone invaso dagli Amanto è la metafora di un Paese che ha ceduto la propria identità culturale alla modernità, e i samurai che sopravvivono ai margini rappresentano l’uomo comune di oggi, schiacciato ma ancora dignitoso. È un’opera che ride di tutto, ma non banalizza nulla.
Tra le figure secondarie più emblematiche c’è Hasegawa Taizō, soprannominato Madao abbreviazione di marude damena ossan, “un uomo completamente inutile”. Ex impiegato di dogana, perde il lavoro e precipita in una spirale di disoccupazione e fallimenti che lo trasforma in un barbone con gli occhiali da sole sempre storti. Ma dietro la sua comicità disperata, Sorachi costruisce una delle satire sociali più taglienti della serie: Madao rappresenta l’uomo comune schiacciato dal sistema, il lavoratore giapponese che, una volta escluso dalla routine produttiva, perde anche la propria identità. È un personaggio tragicomico che incarna la precarietà esistenziale del Giappone moderno, dove la vita stessa sembra avere senso solo finché si lavora.
Il tono della serie raggiunge il suo apice nella saga finale, trasposta nell’ultimo film, Gintama: The Final (2021). Lì Sorachi chiude un cerchio lungo quindici anni. Il film, prodotto da Bandai Namco Pictures, si presenta come la vera conclusione della storia e riassume tutto ciò che Gintama è sempre stato: un addio comico e tragico allo stesso tempo. C’è azione spettacolare, ci sono morti e rinascite, ma soprattutto c’è una consapevolezza struggente. Gintoki, Shinpachi e Kagura non sono più i buffoni di una serie comica, ma amici che si salutano dopo aver condiviso un lungo viaggio. La pellicola è un omaggio al pubblico e all’autore stesso, piena di autocitazioni e di quella ironia malinconica che è la cifra più autentica di Sorachi. Dopo la fine, resta la sensazione di aver assistito a qualcosa di irripetibile: una commedia che ha imparato a parlare della vita meglio di tanti drammi.

L’eredità culturale di Gintama è profonda ma spesso sottovalutata. In patria è diventata un riferimento trasversale, citata da autori comici, youtuber, persino politici. È una serie che ha insegnato a un’intera generazione che si può essere dissacranti e sinceri allo stesso tempo. All’estero ha avuto una diffusione più lenta, ma costante: piattaforme di streaming, community dedicate e progetti di fansubbing hanno mantenuto viva la passione anche dopo la fine della serializzazione. In Italia, la prova più tangibile di questa longevità è rappresentata da iniziative come il podcast Anime d’Argento, interamente dedicato a Gintama. Creato da un gruppo di appassionati italiani, il programma esplora gli episodi, i temi e le curiosità dell’opera con uno sguardo critico e affettuoso, dimostrando come l’interesse per la serie continui a rinnovarsi anche a distanza di anni. È il segno di una comunità che non ha mai smesso di ridere e riflettere insieme ai suoi protagonisti.
Rileggendo o rivedendo Gintama oggi, si percepisce chiaramente quanto fosse avanti rispetto al suo tempo. Sorachi ha costruito una narrazione postmoderna in piena regola, in cui la consapevolezza del linguaggio è parte integrante della trama. I personaggi sanno di essere personaggi, ma proprio per questo diventano più veri. È un gioco di specchi continuo, dove la risata nasce non dall’assurdità del mondo, ma dalla nostra incapacità di accettarlo. In un certo senso, Gintama è un’opera sul mestiere stesso di raccontare: sulla difficoltà di dare un senso a qualcosa che, per sua natura, non ce l’ha.
Quando i titoli di coda dell’ultimo film scorrono e la musica si spegne, resta una sensazione familiare: quella di aver vissuto qualcosa che somiglia terribilmente alla vita. Disordinata, ironica, dolorosa, tenera. Gintama non offre risposte, ma un invito: ridere, anche quando non c’è niente da ridere. E forse è questa la più grande lezione di Hideaki Sorachi: che la comicità non è fuga, ma resistenza. Che la leggerezza, se coltivata con sincerità, è la forma più alta di coraggio.
Tra l'altro, con tutte le proposte di nicchia abbastanza scadenti che abbiamo avuto nel panorama italiano negli ultimi anni, e l'aumento costante del prezzo, Star Comics dovrebbe davvero mettersi una mano nella coscienza a ristampare questo shonen, che merita davvero una lettura da parte di tutti.



