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G.O.D.S., recensione: la cosmogonia Marvel secondo Jonathan Hickman

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Scegliere di recensire l’ennesima serie ideata da Jonathan Hickman, pur consapevoli che negli USA non mancano le novità a fumetti meritevoli di un articolo di approfondimento, vuol dire rischiare di andare incontro a una pioggia di critiche da parte di chi – comprensibilmente - preferirebbe vederci scrivere d’altro. Tuttavia, è davvero possibile far finta di niente di fronte a un’opera imperfetta ma affascinante come G.O.D.S. (senza considerare le ambizioni dietro al progetto, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto addirittura condurre a una riscrittura della cosmogonia della Marvel)?

La risposta sembra scontata, eppure a ogni nuovo lavoro del cartoonist del South Carolina, i social e i blog di settore non perdono occasione di ospitare qualche commento negativo nei suoi confronti. C’è chi mal digerisce la sua narrazione troppo articolata e complessa. Chi trova insopportabile il suo continuo ricorrere alle infografiche (che, a onor del vero, si sono diffuse come un virus letale su varie testate della Casa delle Idee, a prescindere dalla loro reale utilità). O ancora, chi non gradisce la sua tendenza a introdurre personaggi mai visti prima, che finiscono spesso per rubare la scena ai protagonisti, per poi sparire dalla circolazione, appena passata la mano ad altri autori.
Rimproveri non del tutto campati in aria, sia chiaro, a cui aggiungiamo anche l’apparente insofferenza a lavorare su character dalla continuity molto rigida con i quali, a volte, Hickman non riesce a sfruttare appieno la sua enorme creatività (un limite - se così lo vogliamo chiamare – che potrebbe essere la motivazione che lo ha spinto ad accettare di diventare il deus ex machina del nuovo Universo Ultimate). Ciò non toglie, però, che se è ancora possibile scrivere qualcosa di buono di quello che la Marvel ha prodotto di recente, lo si deve in gran parte proprio al nostro Jonathan. Con un avvertimento: se chi ci sta leggendo, pensa di rientrare tra i “detrattori” elencati sopra, è bene che stia alla larga da G.O.D.S., dato che la miniserie in questione è – assieme a Decorum - quanto di più hickmaniano si sia visto negli ultimi anni. Pure riassumerne la storia è un’impresa decisamente complicata, nella consapevolezza che poche righe saranno giusto sufficienti a delineare in maniera approssimativa i protagonisti della vicenda e a fornire solo qualche informazione di base sugli eventi raccontati.

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A ogni modo, per farla breve, scopriamo che dopo una guerra durata eoni tra le Autorità Superiori (traduzione un po’ libera dell’originale The-Powers-That-Be) e l’Ordine Naturale delle Cose, due entità astrali che incarnano rispettivamente magia e scienza, l’accordo che ne è seguito ha sancito che entrambe potessero continuare ad agire sulla Terra esclusivamente tramite i propri servitori. Quello delle Autorità Superiori viene denominato Avatar, mentre per l’Ordine Naturale delle Cose opera un’intera organizzazione, il Centum, i cui membri vengono chiamati centivar. La fragile tregua ha retto fino ai giorni nostri, ma rischia di terminare a causa del matrimonio tra Wyn, l’attuale Avatar, e Aiko Maki, destinata a diventare il novantasettesimo centivar. Costei decide, inevitabilmente, di separarsi dal marito, sebbene i due, in considerazione del loro ruolo, non potranno fare a meno di incontrarsi nelle varie crisi cosmiche (tra cui l’evento Babilonia, che dà il via alla vicenda, in procinto di essere scatenato dal proto mago Cubisk Core) che mirano a compromettere la realtà per come la conosciamo.

Confusi? È probabile. E se già le premesse non incoraggiavano alla lettura, temiamo che, dopo questo scampolo di trama, anziché aumentare la curiosità verso la miniserie potremmo aver ottenuto il risultato opposto, facendo desistere anche i più temerari nell’avventurarsi alla scoperta del mondo di Wyn e soci (che – credeteci – non sono pochi!). All’inizio, oltretutto, abbiamo descritto G.O.D.S. come un’opera imperfetta e in effetti non si può negare che per gran parte degli episodi la storia sembri girare a vuoto e che i legami con il Marvel Universe tradizionale siano piuttosto labili - cosa che, verosimilmente, allontanerà i fan di lungo corso dell’editore newyorkese (le vendite non esaltanti, registrate fin dalla prima uscita, parrebbero proprio dimostrare questa ipotesi). Oppure che di parecchi personaggi non si apprenda quasi nulla, rendendo alquanto difficile entrare in empatia con essi e che siano ancora numerosi i particolari che ci sono stati celati (non ci viene nemmeno rivelato il significato dell’acronimo – o meglio “word puzzle”, come specificato da Hickman stesso in alcune interviste - che dà il titolo alla miniserie). Ciononostante, la capacità con cui lo sceneggiatore americano, partendo da pochi spunti e da qualche concetto noto anche ai frequentatori occasionali della Casa delle Idee, riesce a plasmare interi piani dimensionali, nuove realtà e scenari inesplorati, è a dir poco impressionante.

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Quello che maggiormente colpisce è la notevole coerenza con cui il tutto sembra procedere, a dispetto dei molti punti oscuri, e una solidità narrativa che non vacilla neppure quando Hickman si concede il vezzo di ripescare alcune sue creazioni passate, che – come detto sopra – dopo di lui erano praticamente finite nell’oblio (ricompaiono, per esempio, i Cigni Neri, visti per la prima volta durante la sua gestione degli Avengers). Come se ciò non bastasse, l’autore di Infinity e Secret Wars impreziosisce il racconto con dialoghi ammalianti e una prosa che ricorda, a tratti, quella del Neil Gaiman dei tempi migliori. Tanto che il numero più riuscito della miniserie, il sesto (in cui Aiko, per rimediare a un suo errore, chiede aiuto all’enigmatico Leone dei Lupi), non sfigurerebbe affatto accanto a qualche celebre capitolo di Sandman (il fumetto era stato effettivamente presentato come la versione marvelliana della collana dedicata a Morfeo, ma – esclusi alcuni passaggi sicuramente ascrivibili al fantasy o a uno dei suoi sottogeneri, tra cui proprio l’episodio appena citato – a predominare è il supereroismo fantascientifico e non il favolismo mistico/filosofico delle storie del Signore dei Sogni). Persino la cripticità della trama e degli avvenimenti descritti (confessiamo che ancora non abbiamo capito cosa sia esattamente l’evento Babilonia prima menzionato), invece che rappresentare un ostacolo, diventano uno stimolo a proseguire la lettura. Per di più, l’impiego indiscriminato di cambi di prospettiva di vario tipo, in apparente discontinuità con la vicenda principale e di frequenti digressioni nello spazio e nel tempo – che hanno l’evidente scopo di disorientare il lettore, affinché non riesca a mettere subito a fuoco tutti gli indizi relativi ai diversi protagonisti – produce la chiara sensazione di avere di fronte un maestoso affresco, ben lontano dall’essere rivelato per intero. Hickman, infine, lascia pure largo spazio al sentimentalismo, cosa abbastanza inusuale per lui, benché necessario a costruire una metafora molto originale dell’impossibilità di convivenza tra magia e scienza.

Suggestioni e personaggi immaginifici che, per prendere forma, non potevano trovare un disegnatore migliore di Valerio Schiti. Il cartoonist romano ha raggiunto una maturità artistica tale, da essere ormai ritenuto una garanzia dai vertici della Casa delle Idee. Non è un caso che egli venga ripetutamente preso in considerazione in occasione di grandi eventi (Empyre e A.X.E.: Judgement Day, giusto per citarne un paio) e Schiti, anche - e principalmente - in G.O.D.S. ripaga questa fiducia con tavole spettacolari e un character design di altissimo livello, che arriva pure a ridefinire alcuni storici comprimari dell’Universo Marvel (su tutti, il Tribunale Vivente). Per quanto Stuart Immonen sia tuttora il suo nume tutelare, il suo stile sta gradualmente evolvendo verso nuove direzioni, senza, però, rinnegare la morbidezza e l’eleganza del tratto, la perfezione delle anatomie e l’espressività dei volti. I progressi maggiormente evidenti sono nello storytelling – sempre più efficace - e nella composizione delle vignette (magnificate, oltretutto, dagli splendidi colori di Marte Gracia, con cui il fumettista capitolino pare quasi aver costituito una coppia artistica di fatto), che aiutano in maniera determinante a evitare che i testi di Hickman scadano nella didascalia.

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Alla fine, comunque, la domanda che dobbiamo porci è: vedremo mai un seguito di G.O.D.S.? Difficile a dirsi, anche guardando ai dati di vendita a cui abbiamo accennato in precedenza. Da orfani della versione esoterica dello S.H.I.E.L.D. – primo magistrale tentativo di Hickman di uscire dai canoni marvelliani di cui, purtroppo, sembrano essersi perse le tracce – ci viene spontaneo fare gli scongiuri. Tuttavia, sarebbe francamente inconcepibile chiudere l’operazione così presto dopo aver profuso tanto impegno nel promuoverla (si pensi, in particolare, alle tavole introduttive comparse in fondo alle testate dei personaggi principali della casa editrice, qualche mese prima dell’uscita della miniserie o la presentazione di quest’ultima già durante il San Diego Comicon del 2022). Inoltre, ci viene pure il sospetto che G.O.D.S. sia l’oggetto di scambio chiesto dallo sceneggiatore alla Marvel, per apporre la sua firma su opere più mainstream (come l’imminente Aliens vs. Avengers). Se così fosse, dovremmo solo armarci di pazienza e aspettare che Hickman concluda i non pochi lavori in corso e i progetti annunciati nelle ultime settimane. Sappiamo, tra l’altro, che ci sarà lui dietro Imperial, uno dei maxi eventi della Casa delle Idee del 2025 e, benché al momento non si conosca nulla della trama, tutto lascia presagire che si tratti di una saga di grandi proporzioni. Che possa anche trovare il tempo di regalarci a breve una nuova scorribanda tra centivar e avatar è onestamente alquanto improbabile. Cionondimeno, è pur vero che stiamo parlando di un autore che in passato ha mostrato di poter gestire più serie contemporaneamente senza perdere in qualità di scrittura. Che riesca a sorprenderci ancora una volta?

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Hiroya Oku: genio e follia dell'autore di Gantz

  • Pubblicato in Focus

Sin dai suoi albori, il panorama fumettistico giapponese ci regala autori dotati di un talento e di una versatilità straordinari. Ne è un perfetto esempio uno tra i più grandi esponenti del genere erotico/sci-fi, che già dalla fine degli anni 80 ci regala dei titoli capaci di tenerci a bocca aperta, tra tutti, il suo più famoso: Gantz

Si parla appunto di Hiroya Oku, autore classe 1967, nato a Fukuoka, nell’isola di Kyushu. Già da giovanissimo manifesta il suo interesse nel manga e nel disegno, e diventa in breve assistente di Naoko Yamamoto, autore di manga erotici. Da lui imparerà durante tutti gli anni 80, ciò che diventerà il suo tratto distintivo: la sua contrastante tecnica in bianco e nero, che userà poi, per disegnare in digitale già dai primissimi anni 2000. 
Inizia ad approdare sulle prime riviste nel 1988, quando presenta Hen (trad. insolito), un manga erotico-slice of life, che narra di Chizuru Yoshida, una giovane liceale che scopre la sua bisessualità. Un tema particolare in Giappone, sia ai tempi sia oggi, che si districa tra la vita scolastica e la vita sentimentale di un gruppo di ragazzi alle prese con un progetto cinematografico.

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Oku lavorò a Hen per quasi 9 anni, e nonostante sia una delle sue opere minori vinse il Premio Tezuka nel 1997. Un inizio niente male per lui. Lo stile di disegno è comunque alle prime armi, le fisicità delle ragazze, quasi anoressiche, sono ancora longilinee e poco marcate, ben lontane da ciò che saranno i suoi lavori dall’inizio del secolo in poi.

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Il 1999 vede la pubblicazione di due raccolte di storie brevi: Oku Hiroya tanpenshū Aka e Kuro, che presentano brevi racconti mai arrivati in italia. 
Ciò che lo terrà impegnato per un anno invece è la pubblicazione del successivo Zero One, manga in tre volumi che si incentra invece sui videogiochi. La storia narra del tentativo di un giovanissimo ragazzo, Neru, di radunare un gruppo di giocatori per partecipare alla sfida di un nuovo videogioco, e cercare lo scopo della sua vita. Nonostante sia stato abbandonato dopo 3 volumi, e al suo cult, Zero One ha avuto l’occasione di essere disegnato in computer grafica, una novità ai tempi, e possiamo notare come molti dei suoi personaggi siano identici a quelli che vedremo poco dopo in Gantz.
 
Il nuovo secolo lo vede impegnato nel suo capolavoro assoluto, uno dei pilastri del genere sci-fi: Gantz.
Qui, ci viene presentato un liceale, Kei Kurono, che aspetta la metro e viene riconosciuto dal suo compagno di scuola, Masaru Kato. Nel tentativo di salvare un barbone sulle rotaie, i due protagonisti vengono travolti dal treno e si ritrovano in una stanza vuota con altre persone. E’ L’inizio del gioco.

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Una pubblicazione su Weekly Young Jump durata 13 anni, iniziata nel giugno 2000, consente a Oku di esplorare l’animo umano, di parlare di vita, morte, destino ed etica nel modo più cupo e oscuro possibile. 
Il suo tratto si affina molto, con una serie di contrasti tra bianco e nero sempre più marcati, primi piani sui personaggi, scene sempre più spinte e una cura dei dettagli maniacale, soprattutto nei mezzi di trasporto. Qui, il gioco della sfera nera di Gantz trasforma le persone in mostri, o alleati, si affinano amicizie, si definiscono rivalità, si chiede una risposta all’ignoto. Ci si chiede se gli alieni siano i mostri che sconfiggiamo o siamo noi che abbiamo perso l’umanità, se la vita ha un valore o è governata solo da una manciata di persone che ci usano come pedoni sacrificabili su una scacchiera. Vuoi vivere? Prendi questa valigetta e usane le armi per uscire da qui, o muori soccombendo alle tue paure.
Gantz unisce tutto questo creando un fumetto diviso in tre parti, che corre sempre più verso il finale, e agli albori dei social ci mette già in pericolo su cosa sarebbero diventati. Un aiuto per tenerci in contatto o una secchiata di sterco che sminuisce ogni tuo progresso? Da leggere una volta nella vita.
Gantz fino al 2011 era uno dei manga più venduti e ha superato le 16 milioni di copie. Opera ormai di culto, ha vari spinoff tra cui: Gantz G, Gantz E, due romanzi: Gantz Exa e Gantz Minus, e uno special su Gantz Osaka.

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Tra il 2006 e il 2007, comunque, Oku si lancia nel pubblicare anche una storia breve, con soli 3 volumi: La mia maetel.
Shintaro Koizumi si presenta al lettore come un uomo di mezz’età, che ha appena perso la madre e a breve, perderà anche suo padre. Non sa però, che si è appena risposato, e alla sua nuova compagna verrà affidato il compito di tirare fuori questo ragazzo dalla sua vita da Hikikomori. In questa storia, Oku ci sorprende mettendo da parte il lato erotico e creando una storia sentimentale che ci fa riflettere ed emozionare, esplorando un altro dei grossi tasti dolenti del Giappone: l’invisibilità di un Hikikomori. Oku abbandona anche il suo tratto marcato e deciso, e riproponendoci un po' l’aria che si respirava ai tempi di Hen ma con una matita decisamente più morbida. Questa storia carica d’affetto verso il lettore sembra una parentesi affacciata da Gantz, una piccola occhiata dell’autore che sembra comunicarci: “Ehi, c’è anche questa parte di me”.

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Un anno dopo la fine di Gantz, Oku torna con una nuova opera: Inuyashiki. Perno di questa storia, è un uomo questa volta più anziano: Ichiro Inuyashiki. 
Ichiro si trasferisce in una casa più grande, ma sperando che i suoi sforzi vengano riconosciuti, tutto ciò che riceve dalla sua famiglia è solo indifferenza. La sua condizione sprofonda sempre più quando gli viene diagnosticata una malattia che lo avrebbe ucciso a breve. Cosi, tra un pensiero di sconforto, e una passeggiata con il cane, Ichiro arriva su una collina dove incontra un ragazzo in lontananza. Poco dopo, una grossa astronave precipita uccidendoli. I due non sono morti, gli alieni infatti ricostruiscono i corpi dei due, rendendoli dei cyborg con qualsiasi tipo di capacità. 
In questo manga, Oku calca molto il dolore umano, un personaggio ormai maturo che cerca una via d’uscita dalla quotidianità.L’autore non si dimentica di omaggiare nemmeno Tezuka, e dota il protagonista di propulsori esattamente come li aveva Astro Boy. L’antagonista in questo caso, è un giovane ragazzo, che usa le sue abilità per scopi personali. Il tema della famiglia è molto centrale in Inuyashiki poiché riflette il dolore dei due protagonisti che si sentono abbandonati.
 
Le tavole chiare e pregne di azione, ci mostrano un Oku ormai maturo e lanciato, con spazialismi ampi e tavole ricchissime di dettagli, dagli edifici alle microespressioni.
A differenza di altre sue opere, Inuyashiki si concentra molto sui problemi personali e sui personaggi, che sperano sempre di fare la cosa giusta, e quel senso di famiglia a volte dimenticato che deve essere sempre messo in primo piano.

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Subito dopo la fine di Inuyashiki, Oku si mette subito al lavoro sulla sua ultima opera, ovvero Gigant. Rei Yokoyamada è uno studente delle superiori e, un po' per gioco del destino, si imbatte nella conoscenza della sua attrice Jav preferita: Papiko. Questa ragazza ha tutto ciò che vuole dalla vita, soldi, fama, e persino un fidanzato, ma le manca quella leggerezza che aveva da ragazza, e lotta con un gran senso di solitudine.
Nemmeno a dirlo, Rei si innamora subito di Papiko, la quale lascia il suo fidanzato violento, e si mette con lui, anche se ancora minorenne. La situazione precipita quando un alieno del futuro, poco prima di morire, impianta a Papiko un meccanismo sul polso che le dà i poteri di ingrandirsi, volare e avere una forza sovrumana. 
Antagonisti di questa opera, un software chiamato ETE collegato a un sito che crea tramite i desideri delle persone, qualsiasi cosa decisa su votazione.
Cominciano quindi ad apparire in giro per Tokyo dei mostri demoniaci che fanno danni enormi, e solo grazie a Papiko la situazione sembra volgere al meglio per gli umani. Non il miglior lavoro di Oku, che comunque diverte e appassiona, e in cui sembra aver ritrovato quel tratto erotico che aveva accantonato da qualche anno. Oku ci dà alla fine, nonostante le spinte scene di sesso e azione, un finale dolce e soddisfacente.

Riguardo l’animazione, solo 3 delle sue opere ne hanno ricevuto un adattamento: Hen ha avuto un oav, Inuyashiki 12 puntate da parte di Studio Mappa, e Gantz 26 puntate da parte di Studio Gonzo che racchiude solo la prima parte del manga.
 
Leggendo i lavori di questo autore, ciò che se ne deduce è la sua grande maturazione; Oku gioca molto su moltissime tematiche, spaziando a più non posso su vita, morte, amore, famiglia, erotismo, senso del dovere, coraggio, passione e sforzo. La sua firma distintiva è sicuramente quella del cagnolino. Tutte le opere infatti, hanno uno o più personaggi a contatto con un piccolo cane, cosa che sembra gli sia molto cara. 
Non mancano difetti nei manga e il ritmo narrativo delle sue storie non è sempre allo stesso livello; anche lui stesso in un'intervista ammise che la sua passione negli anni era calata e che amava ancora disegnare personaggi femminili. Tuttavia, ci ha regalato opere che intrattengono, ci emozionano e ci fanno riflettere e, soprattutto, ci ricorda di aiutare qualcuno quando ci si trova in difficoltà. Che sia un amico, un familiare, o uno sconosciuto.
 
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Catwoman: città solitaria, recensione: la prova di maturità di Cliff Chiang

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Ecco quella che si dice una sorpresa inaspettata. Che Cliff Chiang fosse un bravissimo disegnatore, lo sapevamo fin dalla sua run di Wonder Woman scritta da Brian Azzarello, o, più di recente, dall’ottimo lavoro fatto nella maxiserie Paper Girls della Image, realizzata in coppia con Brian K. Vaughan. Ma che l’artista possedesse anche notevoli doti da narratore, sin qui tenute nascoste (se si escludono rare storie brevi, di cui pochi conservano memoria), era qualcosa molto difficile da immaginare. Almeno fino all’arrivo in libreria di Catwoman: città solitaria. Anzi, dopo aver letto l’opera in questione, viene persino da chiedersi perché il disegnatore americano non abbia provato a cimentarsi prima con la scrittura per quanto, in questo momento, ci interessi di più capire quando sarà possibile rivedere Chiang nuovamente in azione come autore completo. Sarebbe, infatti, un vero peccato se un simile talento dovesse andare sprecato.

Pubblicata negli USA dalla DC Comics sotto l’etichetta Black Label, Catwoman: città solitaria è una miniserie in quattro parti ambientata in un futuro non troppo lontano in cui Selina Kyle, ormai ultracinquantenne e appena uscita di prigione, torna in una Gotham City decisamente cambiata rispetto al passato. Guidata dal sindaco Harvey Dent, apparentemente libero dalla maledizione di Due Facce (sebbene ancora sfigurato in volto), la metropoli, dove un tempo imperversavano criminali e freak di ogni tipo, è diventata una delle città più sicure d’America, complice soprattutto il drastico giro di vite imposto a seguito della sanguinosa Notte dei Folli di dieci anni prima, risultata fatale non solo per il Joker – la mente dietro il tragico evento – ma anche per Batman, Nightwing e il commissario Gordon. Proprio in punto di morte, il Cavaliere Oscuro aveva chiesto a Catwoman di fare ritorno alla Batcaverna, citando un nome: Orfeo. Selina, però, arrestata subito dopo, non era riuscita a portare a termine l’incarico, con la conseguenza di sentire nascere dentro di lei un forte senso di colpa, acuito dal duro ambiente carcerario. Rimessa in libertà, ma ancora ossessionata da quell’ultima parola pronunciata da Batman, decide di vestire di nuovo i panni del suo alter ego mascherato e di coinvolgere vecchi alleati nella soluzione del mistero di Orfeo.

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Graphic novel dal clima crepuscolare, che omaggia a piene mani Il ritorno del Cavaliere Oscuro (a partire dai cinquantacinque anni dichiarati dalla protagonista, gli stessi di Bruce Wayne nel capolavoro di Frank Miller), Catwoman: città solitaria impiega, tuttavia, poche pagine per dare prova di saper vivere di luce propria. Se infatti il parallelismo tra la Selina Kyle piegata dal tempo trascorso in prigione e da inevitabili limiti fisici dovuti all’età (che le impediscono di apparire come la spericolata antieroina della continuity ufficiale del personaggio) e il disilluso e tormentato Batman di Miller risulta piuttosto evidente, Chiang cerca fin dall’inizio di non far sprofondare la trama nella cupezza e nella paranoia della miniserie culto del 1986. Oltretutto, benché l’artista di origini asiatiche non aggiri in alcun modo la metafora politica (onnipresente ne Il ritorno del Cavaliere Oscuro), il racconto assume progressivamente altre caratteristiche, con toni da commedia sempre più marcati e uno stile che, mixando brillantemente supereroismo e heist drama, si discosta nettamente dalla disperante distopia immaginata dal creatore di Elektra.

È, però, la sceneggiatura nel suo complesso a rendere la miniserie di Chiang un’opera capace di soddisfare anche lettori particolarmente esigenti, con dialoghi di gran classe che, nonostante i frequenti cambi di registro, mutano di gradazione con sorprendente naturalezza, passando dalla solarità e dallo scherno degli intermezzi più scanzonati, all’intimismo e alla malinconia di quelli dove invece prevale la riflessione o il dramma. C’è pure spazio per un po’ di romanticismo old style e addirittura per un citazionismo nostalgico che, lontanissimo dal fan service di maniera, tanto di moda negli ultimi anni, testimonia il sincero rispetto dell’autore verso il glorioso passato dei personaggi. Chiang si dimostra anche abilissimo nel saper bilanciare i tempi scenici, non soltanto alternando di continuo i momenti di tensione con altri più giocosi, ma pure impostando la trama in modo che all’inizio siano l’introspezione e i pensieri dei protagonisti a essere privilegiati, con ampi passaggi dedicati ai rimpianti e ai ricordi dolorosi - che, per quanto prevedibili, diventano gli elementi necessari a inquadrare la vicenda e a comprendere gli eventi successivi - per poi schiacciare il piede sull’acceleratore, in un crescendo di intensità lento, ma costante, fino all’attesa resa dei conti finale. Solo l’ingresso di Etrigan ci è sembrato un po’ pretestuoso e, per certi versi, privo di reale utilità all’economia della storia, sebbene, con ogni probabilità, esso rappresenti un ulteriore richiamo a quella mitologia DC assai cara all’artista americano.

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Sempre riguardo alla sceneggiatura, sarebbe imperdonabile non fare il minimo accenno alla magistrale caratterizzazione dei personaggi. A cominciare naturalmente da Selina, che Chiang immagina come una donna indurita dagli anni e dalle pesanti sconfitte morali subite nel corso della vita, ma ancora orgogliosa e indomabile. Un character con cui è impossibile non empatizzare, destinato a restare a lungo nella memoria dei lettori. Tanto quanto i principali comprimari, tra i quali un Killer Croc in versione totalmente inedita (in grado di regalarci sia i passaggi più divertenti della serie, che quelli più melodrammatici) e una determinatissima Poison Ivy, per nulla resa meno riottosa dai chili di troppo accumulati con l’età. Particolarmente riuscita anche l’idea di dipingere l’Enigmista come un simpatico e affascinante mascalzone, che oltre a contrastare nettamente con il perverso e spietato assassino mostratoci recentemente da Tom King (maggiormente in linea con l’ultima incarnazione cinematografica del personaggio), contribuisce attivamente a mantenere la vicenda su binari meno foschi e tenebrosi.

Scontata, infine, in un contesto del genere, la forte voglia di riscatto di gran parte dei protagonisti che, se per alcuni significa trovare una maniera per indirizzare la propria esistenza verso una nuova direzione - a costo di rinnegare un passato eroico, divenuto persino quasi ingombrante –, per altri vuol dire semplicemente recuperare la dignità perduta pur nella consapevolezza delle estreme conseguenze che questo comporterebbe. Sentimenti e fragilità del tutto umani, che l’autore riesce a mettere spesso in evidenza, senza mai contraddire l’impostazione avventurosa del racconto.

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A ogni modo, benché sia molto appagante parlare del Chiang scrittore, non possiamo di sicuro trascurare il Chiang disegnatore, dato che questa miniserie ne certifica ancora una volta le grandi capacità artistiche (il buon Cliff, tra l’altro, si è occupato in prima persona anche dei colori). Il suo segno inconfondibile, che unisce mirabilmente la ligne claire franco-belga all’iconica essenzialità del DC Animated Universe (limitando, però, al minimo le derive cartoonesche) e che riporta la pop art alle sue radici fumettistiche, sfrutta nella maniera migliore possibile la simbiosi con i testi, costruendo tavole con gabbie a variabilità continua (al punto da impiegare le splash page con notevole parsimonia), lavorando diligentemente sull’abbondanza - o sull’assenza - di dettagli nelle vignette e studiando con cura le inquadrature e i primi piani al fine di legare indissolubilmente la narrazione allo scorrere delle immagini. Inoltre, la linearità e la pulizia del tratto o la geometria regolare e solo parzialmente spigolosa delle sue forme, non penalizzano in alcun modo l’espressività dei personaggi né riducono l’energia della storia che, sebbene non raggiunga l’esplosività delle chiassose saghe Image dei primi anni Novanta, non può certo dirsi priva di dinamismo.

Opera accolta da critiche entusiastiche negli Stati Uniti e valorizzata qui da noi da un’ottima edizione da parte di Panini Comics (un cartonato con sovracoperta-poster, nel consueto formato maggiorato delle nuove produzioni Black Label), Catwoman: città solitaria è un volume che non può mancare nelle librerie di tutti gli appassionati di Batman, ma neppure in quelle di chi si professa un semplice cultore del fumetto di qualità. Perché - credeteci - nella miniserie di Chiang di qualità ce n’è davvero tanta.

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