Neil Gaiman - American Gods
di Youngest

American Moods, Foods, Boobs : lo ricomincerei solo perché mi è dispiaciuto finirlo. Non per le innumerevoli sottotrame che non ho colto, non per i riferimenti che mi sono sfuggiti, non per apprezzare una prosa che, pur scorrevole, non è così particolare e non è nemmeno la vera prosa dell'autore, ma quella della traduttrice. Ho terminato

la mia lettura di American Gods dieci minuti fa, e già ne sento la mancanza. Gaiman ha cambiato la mia concezione di come si legge un libro, ha cambiato la mia concezione di come si tiene fede ai propri impegni, e più generalmente di come si vive. E tutto questo lo ha fatto senza volerlo. Non lo saprò mai per tempo, ma forse ha anche cambiato la mia concezione di come si muore (questo però lo ha fatto più consapevolmente). La mia idea delle religioni, invece, è stata solo avvalorata da questa storia, ma si sa, in un'opera d'arte ognuno vede quel che vuole vedere, e cerca quel che vuole trovare. Probabilmente è riuscito a cambiare la mia concezione di come si scrive una recensione, ma questo lo saprò solo quando avrò assimilato a sufficienza questo pezzo. Di sicuro, dicevo

all'inizio del paragrafo, Gaiman ha cambiato il mio modo di pensare alla lettura. Mi sono reso conto da tempo di leggere per finire di farlo, per la quantità, non esclusivamente per il contenuto. Certo, magari sono anche in grado di assorbire le verità che il libro dispensa, o quelle che io credo dispensi (solita storia), ma il mio obiettivo
iniziale, programmatico e raggiungibile, è finire il libro entro una certa data. Mettere una spunta su un elenco. D'istinto, quando comincio a trovarmi a dieci, cinque pagine dalla fine di un romanzo, talvolta materialmente e talvolta metaforicamente tengo le mani sulla prima e sulla quarta di copertina, pronte a chiudere. Stavolta no. Stavolta speravo che l'ultima frase del romanzo rimandasse ad un sito internet in cui erano pubblicate altre trenta, cinquanta, cinquecento pagine di quella storia. Non mi auguravo più - come mi capita di fare - che i protagonisti morissero, per essere sicuro di aver assistito ad uno spettacolo concluso in sè, alla narrazione compiuta e compita di tre mesi di accadimenti e di migliaia di anni di vite diverse. Mi dispiaceva di non poter incontrare più
Polunochnaja Zarja, che mi rimarrà sempre nel cuore (difficilmente lo farà il suo nome), o Shadow, del quale non riuscirò mai a farmi un'immagine fissa in mente (contro ogni logica, è più probabile che io ricordi il suo vero nome, che non viene mai fatto, piuttosto che quello di Polunochnaja), o il signor Nancy, al quale vorrei assomigliare da vecchio, se

non nella divinità, almeno nel brio. Non volevo capacitarmi del fatto che la sabbia impalpabile del racconto mi stesse inesorabilmente sfuggendo dai pugni, e che forse se li avessi stretti di più sarebbe stato anche peggio, e alla fine non potevo far altro che aprire i palmi all'aria e soffiarci sopra. Non volevo che finisse, insomma. Ma niente rimorso (e per cosa, poi?), niente rimpianto (e di cosa, poi?). Niente commenti, soprattutto. Non voglio ridurre questo romanzo ad una più o meno distaccata analisi della complessità che caratterizza la trama, della precisione socio-storico-economico-geografica con cui sono presentati personaggi ed ambienti o della fruibilità a più livelli dell'opera. L'unica cosa che mi sento di dire, e già mi vedo tradire - come faccio sempre - le mie intenzioni

originarie, è che migliora sempre, continuamente. Di pagina in pagina, di parola in parola. Da un certo punto in poi, l'ho avvertito nettamente, Gaiman era anche più felice. Con un libro a respiro così ampio, del resto, è quasi impossibile che non accada: chi scrive lascia scivolare dalle proprie membra attraverso la penna sin sul foglio il proprio stato

d'animo, le proprie sensazioni, le proprie idee, nella maggior parte dei casi senza rendersene pienamente conto, ed è quindi evidente come in un arco di tempo molto dilatato si possa cambiare umore, e di conseguenza mutare anche la propria disposizione nei confronti di ciò che si crea e di come lo si crea. Al contrario, io sto scrivendo pressochè in simultanea le riflessioni che mi sovvengono, quindi è improbabile che i suoni che annuso, i colori che assaggio e il piacere che intuisco dopo aver appena finito di leggere American Gods - ammesso che io riesca a trasmetterne una minima parte - siano falsati dal troppo tempo passato tra l'inizio della stesura e la sua fine. Dicono sempre che non si scrive di getto, eppure se non fossi partito in quarta davanti al foglio (virtuale)

bianco non sarei mai più stato in grado di parlare di questo lunghissimo racconto senza finire per fargli le pulci (in senso buono). D'altra parte, quando scrivo pezzi di "critica", lo so, finisco per parlare di questioni tecniche che interessano me e pochi altri come me, aspiranti dilettanti apprendisti scribacchini, ai quali può essere utile sapere

come si caratterizza un personaggio o come si crea un espediente narrativo intelligente (per inciso, in questo libro ce n'è uno strepitoso, assolutamente sublime). E invece no, ora che ne abbiamo l'opportunità parliamo di fiori che sbocciano o di brezza estiva sulla schiena sudata, se vogliamo, ma parliamo d'altro. Parliamo di ciò di cui parleremmo se fossimo totalmente ignoranti in ogni argomento, se avessimo letto solo questo libro (il che, nel mio caso, non è molto distante dalla verità). Discutiamo in termini di "bello" e "brutto", "buono" e "cattivo", non "sapido" o "insipido" o - peggio - "tecnicamente superlativo ma non mi ha entusiasmato". Invisibles, quando lo lessi, mi prese così. Alla sprovvista. Non avevo mai letto una cosa del genere, e mi mancavano le parole per parlarne.

Ecco, American Gods pure mi ha preso alla sprovvista, ma a differenza del fumetto di Morrison, che suscitava in me una brama di energia, di visioni mistiche, di cospirazione e di allucinazioni non indotte, un'esaltazione genuina e sopraffacente, quest'opera di Gaiman mi ha lasciato ad annaspare al rallentatore e senza paura a un metro dalla

dalla riva, conscio di poter uscire dall'acqua in qualsiasi momento, semplicemente puntando i piedi sulla sabbia; mi ha lasciato un sottofondo di dormiveglia, di impressioni più che di espressioni, di tentativo disinteressato di ricordare un sogno al quale più mi avvicino e più me ne distacco. E per una volta potrei non far leggere questa recensione a nessuno: potrei non proporla ad un sito, potrei non imporla in un forum, potrei non stamparla. Potrei persino staccare la spina del computer prima di salvarla, e questa recensione rimarrebbe esattamente ciò che per me rimarrà - a meno di eventuali ma inverosimili riletture - American Gods. Un dejà-vu, un pensiero, un fruscìo.