OUT THERE!
PART 1
di Sergio Gambitt20
4.28 A.M.
Baian Mountains, Afghanistan.
Tra le rupi impervie di questa
catena montuosa, tra le aride rocce e i picchi scoscesi, sorge una villa
riparata alla vista da un piccolo ma fitto boschetto di alberi trapiantati
artificialmente in modo tale da nascondere la rete di allarmi e sensori sparsi
nel terreno. Al di là degli alberi poi, il boschetto è delimitato da un’alta
recinzione metallica in cui, sebbene non vi sia alcun cartello ad avvertire di
ciò, scorrono costantemente 1200 Volt di energia elettrica. Oltre essa, il
silenzio desolato delle montagne afgane avvolte nella nebbia di una notte senza
luna, così densa da far credere di possedere una vita propria. Questo il motivo
per cui l’equilibrio del posto non sembra essere turbato dalla sua apparizione.
Coperta quasi interamente da una attillata tuta nera, con una maschera scura
che le nasconde il viso fino alla fronte dalla quale spuntano corti e arruffati
capelli castani, avanza fino a raggiungere la recinzione elettrificata e, senza
esitare nemmeno per un attimo, semplicemente la attraversa come se nemmeno
esistesse. I suoi piedi non producono alcun rumore mentre avanza nel boschetto.
La sua caviglia incrocia il laser di un sensore, ma nessun allarme scatta.
Arrivata ad una dozzina di metri dalla villa, si abbassa tra i cespugli e,
portando la mano allo spesso visore che le copre gli occhi, ne inquadra
l’ingresso. Quindi seleziona la vista notturna e regola lo zoom in modo tale da
poter ben visualizzare la grossa limousine nera che si sta fermando davanti al
portone, ed in particolare i passeggeri che ne stanno scendendo. Senza tradire
alcuna emozione l’indice preme un altro bottone della maschera:
“Qui Smoke, il bersaglio è stato
avvistato. E’ appena entrato nella villa con altre due guardie del corpo. Un
minuto all’inizio dell’operazione. Sparrow?”
Su un’alta rupe, a circa
cinquecento metri dalla villa, un uomo vestito anch’esso di nero tiene un
fucile di precisione puntato sulla villa. Sulla sua schiena riposano due grosse
ali marroni, mentre dita quasi artigliate accarezzano il grilletto
delicatamente. Al sentirsi chiamare dalla voce bassa ma chiara della ragazza
distacca leggermente il volto dal mirino. E’ un uomo sulla trentina circa. La
maschera nera che avrebbe dovuto coprirgli metà del volto allo stesso modo di
quella della ragazza è invece tirata giù fino al collo, lasciando intravedere
il viso di una accesa carnagione rossastra e dal naso molto pronunciato. I neri
capelli lisci sono raccolti in una coda che gli arriva fino alle spalle, mentre
gialle e sottili pupille spiccano all’interno dei suoi occhi.
“Sono in posizione” dice, e poi
torna ad osservare la villa attraverso il mirino.
“Floppy?”
C’è un ragazzo, in piedi, poco oltre la recinzione. E’ vestito con una tuta identica a quella degli altri due, ma con dei sottili occhialetti neri al posto della maschera. Sulla fronte di carnagione scura, un berretto di lana nera copre parzialmente alcuni piccoli riccioli dei suoi capelli scuri. Il ragazzo fa un passo. Due. Avvicina le dita alla recinzione percorsa da un flusso costante di elettricità. Quindi la afferra contemporaneamente con entrambe le mani. Energia elettrica comincia a viaggiare nel suo corpo, che immediatamente prende a tremare. Violenti spasmi scuotono la rete metallica prigioniera di dita contratte in maniera innaturale. La sua testa comincia a muoversi convulsamente avanti ed indietro, gli occhiali cadono a terra, la bocca si contrae in una smorfia inumana che, lentamente, comincia a prendere una forma ben precisa. Per quanto possa risultare innaturale in una situazione simile, per quanto la semplice idea possa terrorizzare un ipotetico spettatore, l’espressione che poco a poco si va delineando sul suo volto non lascia spazio a dubbi. E’ un sorriso.
“Eheheheheheh…. Wooohh…ooH!!”
“Floppy? Sei in posizione?”
“Tu l’hai detto”
La ragazza non ribatte.
Semplicemente preme un altro pulsante del visore e:
“Razors?”
Nel terreno del boschetto interno
alla recinzione, a voler guardare bene, si noterebbero alcune macchie. Piccole.
Rosse. Che segnano alcune piste. Seguendole si arriverebbe quasi al limite del
boschetto: di fronte al garage della villa illuminato a giorno ma abbastanza
lontano da essere protetti alla vista dall’ombra degli alti alberi. Proprio in
quel punto si noterebbe una sagoma scura, di foggia umana, sebbene le grosse
dimensioni suggeriscano non trattarsi di un uomo comune. E infatti a voler
vedere meglio si noterebbe un viso mostruoso uscire dal collo della tuta nera,
una via di mezzo tra quello di un drago e un viso umano, di una pigmentazione
arancione come quella delle braccia ricoperte di sottili strisce argentee,
tremolanti e quasi vive sulla cute. E, tra i palmi delle mani, si noterebbero
le teste mozzate di quelli che un tempo erano grossi e pericolosi mastini da
guardia. Il resto delle loro carcasse, dietro di lui.
“Ci sono”
“Allora si dà il via
all’operazione”
Il ragazzo di colore si abbassa,
lentamente, e riprende gli occhiali scuri che gli erano caduti poco prima. Con
un gesto teatrale li posiziona sopra le pupille, che per un attimo pulsano di
energia argentea. Poi, sempre dal basso, afferra una centralina elettrica semi
nascosta nel terreno e da essa cominciano a fuoriuscire veloci e sottili saette
guizzanti, che come sono comparse scompaiono all’interno delle sue dita. Il sorriso
sulla sua bocca si fa sempre più grande, mentre le saette cominciano a farsi
sempre più grandi, sempre più violente, fino a diventare un flusso costante.
Contemporaneamente nel resto della villa le luci iniziano a venir meno. I
morbidi e temporanei blackout iniziali si fanno più frequenti, fino a che
l’intera zona rimane completamente al buio.
Cinquecento metri più su l’uomo alato ha sistemato sulla lunga e
affilata unghia dell’indice una striscia di polvere bianca. Quando con uno
scatto fulmineo dell’occhio giallo si accorge che la luce nella zona
sottostante sta cominciando a mancare espira lentamente una volta e poi,
bloccando la narice sinistra con un dito e avvicinando l’unghia a quella
destra, inspira la polvere bianca con un unico movimento e inarca il collo
violentemente. Quindi respira, una volta sola, ed avvicina gli occhi al mirino
di precisione del fucile. Cinquecento metri più sotto, delle guardie vestite
con le tipiche tuniche afgane stanno correndo da ogni parte per prevenire ogni eventuale
attacco. La mano sinistra dell’uomo pulisce distrattamente il naso da rimanenti
residui bianchi, mentre l’indice destro preme ripetutamente il grilletto in
direzione della villa. Ogni proiettile colpisce la vittima nei suoi punti
vitali.
L’uomo dalle sembianze bestiali è
all’interno del garage, in mezzo alle uniche due auto presenti: la limousine
nera e una Jeep 4x4 verde militare. Sembra che stia aspettando qualcuno. Ed
infatti una decina di secondi dopo ecco scaraventarsi nel garage cinque
guardie, due delle quali proteggono con il loro corpo qualcun altro. Appena i
primi tre vedono l’uomo gridano qualcosa agli altri due, che ritornano
all’interno della villa con il loro protetto. Poi i restanti tirano fuori
grossi revolver neri ed aprono il fuoco sul nemico. Lui non batte ciglio. Ai
suoi piedi, proiettili argentei schiacciati dall’impatto con la sua pelle
cominciano ad accumularsi. I caricatori si svuotano, lui è ancora lì.
Dall’altro lato, le tre guardie sono bloccate dallo stupore. Ed è allora che fa
la sua mossa. Con una velocità insospettabile per uno delle sue dimensioni, si
avvicina ai primi due e con due rapide falcate mozza di netto le loro teste. Il
fiotto di sangue che schizza sulle labbra del terzo è sufficiente per farlo
riprendere. Con veloci e convulsi gesti fruga nelle tasche della sua tunica e
tira fuori un caricatore nero. Poi, con una impazienza inusuale per un
professionista esperto come lui, scambia il caricatore vuoto con quello pieno e
torna a mirare davanti a sé. Dove però, ora, c’è l’uomo vestito di nero.
“Vuoi provare?” dice osservando
incuriosito quella piccola pistola puntata contro il proprio petto “Vuoi
davvero una chance? Allora fa’ così…” e prendendogli la mano che regge il
revolver la alza fino a che non punta il suo viso. Poi apre la bocca e infila
dentro la canna. Quindi biascica:
“Spara”
La mano destra della guardia sta
tremando, così violentemente che gli serve anche la sinistra per poter tenere
ferma la pistola. Sudando copiosamente, chiudendo di scatto gli occhi, le sue
dita premono il grilletto.
“Yaeowh!” grida la guardia
ritirando di scatto le mani ustionate dall’esplosione della pistola. L’uomo dal
volto di bestia è illeso.
“Bhe…” dice in un americano
perfetto, privo di qualsiasi accento regionale “Hai avuto la tua occasione…” e
il suo pugno costellato da affilate strisce argentee sfonda l’addome della
guardia, da cui schizzano fuori vari metri di budella. La guardia alza di
scatto per l’ultima volta gli occhi verso quelli del mostro che lo ha appena
ucciso, che risponde allo sguardo dicendo:
“Già, sono invulnerabile. Non
posso morire.”
Poi la guardia crolla nella pozza
di sangue formata dalla sua ferita e resta lì inerte, mentre l’uomo rimane al
centro della stanza, con il pugno totalmente ricoperto dal sangue che ancora
regge pezzi di budella fra le dita. L’uomo guarda le proprie mani, poi i corpi
delle tre guardie. Quindi, con un fuggevole sguardo di tristezza negli occhi,
ripete a bassa voce:
“Non posso morire…”
All’interno della casa intanto è
il caos. Dopo qualche minuto di blackout totale sono entrati in funzione i
generatori di emergenza, e con essi l’allarme rosso. Quindi adesso le guardie
stanno correndo in corridoi illuminati da un rosso sanguigno, che assieme alla
ripetizione esasperante dell’allarme sonoro sembra rallentare e fluidificare i
loro movimenti in modo tale da farli somigliare a piccoli pesciolini neri che
si dibattono in un grande acquario insanguinato. E in tutto questo, nessuno di
loro si accorge dell’ombra scura che esce accorta dalle pareti e si rituffa in
quelle di fronte come un guizzante spettro nero. Senza provocare il minimo
rumore, senza che il suo cuore manchi un battito o acceleri di un minimo, la
ragazza prosegue nella sua insolita ispezione della casa, evitando quante più
guardie può. Quando però nel fuoriuscire da un muro si trova di fronte una di
loro, che osserva il suo stesso sguardo esterrefatto all’interno dei grossi
occhiali a specchio che le coprono il viso, si muove rapida e sicura di sé,
scagliando un veloce pugno verso il volto della guardia. La mano attraversa la
sua fronte, e il braccio la segue.
Poi, non succede nulla.
“Domanda flash…” dice una voce
bassa e chiara proveniente da sotto la maschera “Cosa succede se un oggetto
immateriale scorporato all’interno di un altro oggetto comincia a solidificarsi
dall’interno verso l’esterno?”
Il volto sconvolto dell’uomo
comincia a mutare espressione. Da una di terrore misto a sbalordimento comincia
a gonfiare, verso l’alto, come se il suo viso si stesse allungando. L’ultima
espressione che conserva un che di umano è data dal panico dei suoi occhi
subito prima di schizzare fuori dalle orbite, seguiti a ruota da pezzi di
cervello e frattaglie varie che esplodono in tutto il corridoio, superando il
corpo della ragazza come se fosse fatto d’aria e appiccicandosi sulle pareti e
sul pavimento.
“Troppo tardi” dice con voce
atona la rimanente occupante del corridoio, che con glaciale indifferenza
ritira il braccio e si guarda attorno. In fondo al corridoio, una porta. Con
passo naturale cammina verso di essa e, quando la raggiunge, vi passa attraverso.
C’è una stanza, priva delle lampade rosse dell’allarme e quindi illuminata da
un morbido giallo. E in effetti il caos di fuori non dovrebbe interessare
questa stanza, piena com’è di giochi che cospargono il pavimento e di mobili
colorati. Al centro di essa poi, un letto singolo con una bianca tela per le
zanzare che lascia intravedere solo gli orli di vivaci lenzuola decorate con un
motivo di clown e giocolieri. Eppure all’interno della stessa stanza ci sono
anche due guardie vestite con una tunica nera ed armate di tutto punto le
quali, al veder spuntare fuori dalla porta la ragazza, aprono il fuoco a tutto
spiano. I proiettili attraversano il suo corpo e si vanno a conficcare nella
parete retrostante, mentre lei imperturbabile continua ad avanzare verso i due.
Arrivata a qualche metro da loro alza di scatto un revolver che teneva nella
fondina su un gambale e spara due colpi. Sulla moquette rossa cadono i corpi
delle guardie, un foro rosso e preciso ad ornare la loro fronte. Quindi la
ragazza si volta verso il letto e con un unico movimento del braccio scosta la
zanzariera. Al di là di essa, una bambina di non più di dieci anni sta
abbracciando le sue ginocchia tremanti, mentre le sue dita stropicciano
impaurite le buffe lenzuola. Al vedere la ragazza vestita di nero, la bambina
trasale ma, come una lepre di fronte all’auto che sta per dargli la morte, è
completamente bloccata. La ragazza alza il revolver e lo punta proprio al
centro della fronte della bambina.
“T-Ti prego…” biascica la bimba
in un inglese non molto perfetto “…ho solo nove anni…”
“Nove anni…” risponde la ragazza
“Una vita.”
E il suo indice preme il
grilletto.
Quattro giorni dopo.
9.53 A.M.
Livermore Mountain, Texas.
Un ufficio buio, con poche
tapparelle aperte da cui entra un po’ di luce.
Un uomo seduto alla scrivania, il
volto coperto dall’oscurità.
Bussano alla porta.
“Avanti” dice l’uomo.[1]
Dalla porta entra un uomo sulla
trentina, i corti capelli biondi accuratamente lisciati all’indietro da lucido
gel. In mano ha una cartella marrone, che poggia diligentemente sul tavolo
mentre dice:
“L’operazione: Isacco è stata
conclusa con successo, signore. Il bersaglio è stato individuato e colpito,
mentre attorno ad esso è stata fatta terra bruciata. E in tutto questo nessuno
ha le prove per collegare la carneficina operata dai nostri agenti al governo
statunitense, sebbene gli afgani sappiano con certezza che dietro l’uccisione
della figlia del loro leader c’è il nostro governo.”
L’uomo nell’ombra sorride
compiaciuto, poi:
“Ottimo, ottimo… E gli agenti sul
campo?”
“Oh, sono atterrati all’aeroporto
militare di Washington giusto stamattina, signore. Li abbiamo fatti rientrare
in fretta perché c’è un’altra missione con l’obbiettivo di eliminare un tale
reverendo Connover che promuove i diritti muta…”
“Fergusson, meno parole e più
fatti. Dov’è in questo momento il Team Prime?”
“Oh… il loro arrivo è previsto
fra un’ora, signore, quindi deduco che si trovino già in autostrada…”
9.58 A.M.
Route 453, Texas, Stazione di
servizio Mc Donald.
Un furgoncino nero blindato
taglia bruscamente per il parcheggio dell’area di servizio. Dopo aver superato
velocemente le pompe di benzina raggiunge i posti auto e violentemente frena in
uno di essi, fermandosi.
“Non potevi pensarci prima,
dannato idiota!” esordisce l’autista mentre scende dal furgone abbastanza
alterato.
“Ehy non è mica colpa mia se le
bevande dell’esercito sono così maledettamente stimolanti, Dick! Cazzo secondo
me le correggono con qualche fottuto composto. Sai, per mantenerti sempre all’erta…”
“O magari questo è il risultato
delle tre bottiglie che hai bevuto di fila, coglione…”
“Faceva caldo, fottuto figlio di
puttana!”
“Bruce…”
“Dick…”
“Bruce…”
“Dick…”
I due si guardano per un istante
minacciosi, poi scoppiano a ridere contemporaneamente. Quindi l’autista
riprende fiato e dice:
“Va bene vai adesso, e vedi di
sbrigarti. Io mi farò una cultura nell’attesa.” e mostra la rivista per soli
adulti che tiene in mano. L’altro annuisce ed entra nella toilette dell’area di
servizio. Si avvicina allo specchio e si sistema i capelli (dà loro solo un
paio di buffetti, in realtà, poiché il taglio militare che sfoggia non permette
ad ogni singolo ricciolo di spostarsi più di qualche millimetro), quindi apre
la porta di un WC e abbassandosi i calzoni si siede sulla tazza fischiettando.
Ad un certo punto percepisce come un improvviso abbassamento della luce, ed
alza la testa per vedere cosa è successo. Il suo cervello registra a mala pena
una forma scura precipitare sopra di lui, poco prima che questa lo sovrasti e
che gli faccia smettere di registrare qualsiasi altra cosa.
Fuori.
Sono passati dieci minuti da
quando Bruce è entrato, così quando Dick lo vede tornare verso il furgone
esclama:
“Ehy ce l’hai fatta allora,
mezzasega! Stavo già per chiamare l’esercito!” e poi, dandosi un leggero
colpetto sulla fronte “Oh, che sbadato, dimenticavo che l’esercito siamo noi!”
L’altro non risponde, si limita
solo ad entrare sul furgoncino nel posto del conducente e a dire:
“Guido io”
“Ma non avevi detto di aver mal
di testa?” ribatte l’altro sedendosi nel posto accanto “Oh ma va benissimo. A
caval donato…”
Bruce non risponde. Mette solo in
moto ed esce dal parcheggio, immettendosi nell’autostrada.
“Hai visto qua che roba?” tenta
di nuovo Dick mostrandogli il paginone centrale della rivista per adulti, con
un primo piano piuttosto generoso di una donna che sfoggia vogliosa due seni
che sfidano ogni legge di gravità “Due mongolfiere! E non solo per le
dimensioni, anche per il materiale di cui sono fatti! Fidati di me, oggigiorno
è un’impresa impossibile trovare una femmina al naturale. Tra trucco e
chirurgia plastica ogni donna finisce per diventare qualcosa di completamente
diverso da quel che era in partenza!!”
Bruce si gira a fissarlo per un
secondo, poi, tornando a guardare la strada, dice:
“Già”
Nella parte posteriore del
furgoncino intanto vi sono quattro mutanti seduti su rigide panche di ferro, i
polsi, le caviglie ed il collo circondati da gelide bande metalliche che oltre
ad incatenarli alle pareti li privano dei loro poteri. Ma nonostante la
scomodità della situazione nessuno di loro è infastidito. Hanno imparato, nelle
loro vite, che è preferibile non protestare con chi premendo il pulsante di un
telecomando può scatenare una contrazione muscolare violentissima in tutto il
corpo, con conseguenti crampi e spasmi per almeno le 24 ore successive. E così
sono immobili e silenziosi da quando sono stati prelevati all’aeroporto di
Washington, subito dopo essere tornati dalla loro missione. Sanno come andrà
adesso. Il ritorno all’Ospedale Metzeger, l’isolamento nelle proprie celle, i
pasti freddi serviti attraverso le porte metalliche senza il minimo contatto
umano e il sonno tormentato da incubi bianchi e desolatamente accecanti su
brandine metalliche, e tutto questo fino ad una nuova missione, valvola di
sfogo attraverso la quale scaricare tutta la frustrazione accumulata
nell’Ospedale. E tutto questo, solo se va bene. Va avanti così da anni, fin da
quando riescono a ricordare. Per questo nessuno di loro si aspetta lo sparo che
risuona all’interno dell’abitacolo, né la successiva frenata e il rumore di
qualcosa di pesante che viene spinto fuori dal furgoncino. La vettura riparte,
più veloce di prima, ma dopo altri dieci minuti ecco che comincia di nuovo a
rallentare per deviare in una stradina secondaria. Dopo altri cinque minuti di
tragitto si ferma del tutto. Qualcuno scende dal posto di guida, dei passi
risuonano su qualcosa che sembra erba o steppa fino a raggiungere il portellone
posteriore del furgone, che infatti subito dopo si spalanca. Con un misto di
diffidenza ed attenzione i quattro mutanti si voltano verso di esso e vengono
inondati dall’intensa luce del sole texano. Dopo qualche secondo per abituarsi
alla luce cominciano a scorgere una figura sinuosa che si sta avvicinando loro.
Una donna, di una intensa carnagione blu e con una cascata di capelli rossi che
le scende giù per le spalle. I vestiti sono di un bianco che riflette i raggi del
sole, mentre gli occhi brillano di luce propria. In mano tiene una pistola
ancora fumante, mentre dietro le spalle spicca un mitragliatore portatile. Con
un unico gesto preme due pulsanti sulle pareti e con uno sbuffo le bande
metalliche che imprigionavano i quattro mutanti si scostano quel tanto che
basta per lasciarli andare. Poi la donna dice:
“Siete liberi, adesso”
Continua…
[1] questo
passaggio vi ricorda qualcosa? Lethal Honey 1, per esempio?
Note dell’autore: ed eccoci
finalmente al primo numero della serie che continua idealmente la trama
presentata sui primi sei numeri di Lethal Honey (dal momento che questa testata
continuerà ugualmente ma con diverse storie slegate l’una dall’altra), quindi
se volete comprendere meglio tutti i dettagli della storia vi consiglio di
andare a recuperare questi numeri, anche perché l’approccio che ho scelto per
la serie è un po’ quello di X Files: rivelare tutto poco per volta e dare
sempre allusioni, mai certezze. Il problema principale che mi si era presentato
nello scrivere la storia era la destinazione. Questa è sicuramente una storia
mutante ma per la violenza delle scene e per la serietà dei temi che presenterà
in futuro non sapevo se farne una serie Marvel Knights o addirittura Epic. Non
per altro, ieri ho rivisto un documentario su Natural Born Killers (a cui la
serie si ispira come tematiche e atmosfere) e le critiche che aveva subito quel
film per la violenza eccessiva e la dissolutezza della trama erano state
davvero tante. Quindi per il momento esce sotto l’egida mutante, se ritenete
sia meglio spostarla in Epic fatemi pure sapere.
Per commenti, suggerimenti o
insulti l’indirizzo e-mail è: gambittolo@hotmail.com
Nel prossimo numero: uno scontro inaspettato (?) e (poiché nessuno lo aveva richiesto) il ritorno di Psycho.