#17 - PIOMBO E ACCIAIO

di Alessandro Vicenzi

 

Io sono l’Osservatore.
Il mio compito è quello di scrutare gli eventi terrestri. Il mio dono è quello di avere conoscenza sia di ciò che è stato che di ciò che sarebbe potuto essere.
Per me, l’esistenza è come un fiume che si divide in infinite ramificazioni, sempre più ampie a mano a mano che ci si allontana dalla sua sorgente. Per voi, invece, è un canale che scorre retto, da un punto all’altro.
È per questo che mi piace prendervi talvolta per mano e portarvi in altri rami del grande fiume del tempo: perché anche voi possiate assaporare un bagliore di quello che è il mio dono.

Già vi narrai di quanto Conan di Cimmeria, discendente di Atlantide, venne gettato dallo stregone Shum-Ukin nel pozzo al centro del tempo. Giunse nella città che voi chiamate New York, nell’estate del 1977. Quella volta, scelsi di mostravi il ramo del fiume del tempo che portava al suo fortunoso ritorno alla sua epoca. Ma non era l’unica strada possibile, quella. Così, tempo dopo vi mostrai un altro mondo. Un mondo in cui Conan di Cimmeria era rimasto a New York ed era in breve diventato il capo di una banda criminale chiamata “I Barbari”. Un’attività che lo portò a scontrarsi con un uomo chiamato Capitan America. Ma quel ramo del fiume del tempo scorreva lento e fangoso, si perdeva nel terreno.
Così, ho deciso di esplorare ancora quei bivi, per trovare una via più praticabile.
La mia ricerca è stata premiata. In un altro mondo, Conan il Barbaro non ha incrociato i suoi passi con quelli del Vendicatore chiamato Capitan America, ma ha lottato, acciaio contro piombo, contro un altro guerriero. Un uomo arso da una sete implacabile di vendetta e sorretto da una volontà d’acciaio.
Ammirate, terrestri, che cosa sarebbe accaduto se il Punitore avesse incontrato Conan di Cimmeria!

1.
Diario di guerra del Punitore.
28 settembre 1979.
02:34. Porto di New York.

La città che non dorme mai regala sorprese ogni notte.
Ero andato al porto dopo una soffiata. Un grosso carico in arrivo. Droga a sufficienza da avvelenare le vene di New York per settimane e settimane.
Volevo vedere le facce di chi c’era dietro quell’operazione. Memorizzarne qualcuna. Questa città è così marcia che ogni giorno spunta fuori una banda nuova. Stare al passo con la feccia richiede tempo e dedizione. Per questo, non mi sono portato dietro l’arsenale pesante. Solo una Beretta, un paio di caricatori e granate fumogene, in caso di fuga.
La soffiata era sbagliata. Nessuna nave, nessun carico. Nulla di nulla. A volte dimentico che i criminali mentono, quando sperano di salvarsi la vita. Poco male. Anch’io avevo mentito con loro. Non li ho risparmiati in cambio delle informazioni.
Ma New York non dorme mai. E stasera al porto c’è stata agitazione. Una grossa sparatoria, proprio mentre me ne stavo andando. Da una parte, c’erano gli italiani di don Alfio. Un vecchio boss, dai metodi antichi. Dall’altra, i nuovi fenomeni della follia della Grande Mela.
I Barbari.
Una banda di neri, comandata da un energumeno dalla pelle ambrata, uno scimmione tutto muscoli. I Barbari si vestono come selvaggi, per tenere fede al loro nome. E anche se sparavano come forsennati, vanno in giro con spade, asce e pugnali.
Ma il loro capo non spara. Lui si è gettato contro gli italiani con una spada in pugno, incurante dei proiettili che volavano ovunque. Coperto dai suoi, ha fatto fuori almeno un paio di mafiosi, squarciandoli come pupazzi. Poi è scomparso nelle tenebre. Dal mio nascondiglio dominavo tutta la scena, ma non potevo vederlo. È ricomparso alle spalle di Little Al, il capo dei killer di Don Alfio e gli ha spezzato il collo a mani nude. Ma a quel punto, la battaglia era quasi finita. E i Barbari l’hanno vinta.
Dall’altra parte, resta solo don Alfio, con la pistola scarica in pugno. Aveva iniziato come killer. Lo chiamavano “il toro” e si vede. Anche se ha quasi sessant’anni, è più in forma di molti dei suoi ragazzi che adesso sanguinano sull’asfalto. Il capo dei Barbari lo chiama, urla il suo nome. Parla inglese con un accento indescrivibile. Non capisco da dove possa venire.
Don Alfio sa di aver perso. Qualsiasi cosa faccia, è morto. Bestemmia in italiano, poi chiede al capo dei Barbari che cosa vuole. Lo chiama Conan.
Conan fa un cenno a un suo luogotenente, un gigantesco negro. Lui va verso don Alfio, sguaina la spada che porta alla cintura e gliela porge, dalla parte dell’elsa. È una sfida, dice Conan. Lui e don Alfio duelleranno all’arma bianca. All’ultimo sangue. Strano, non capita spesso che un criminale abbia simili forme d’onore, neanche nella mafia. Ma Conan e i suoi Barbari sono diversi, è questa la voce che gira nelle strade. Io sto per averne la dimostrazione.
Don Alfio prende la spada, la soppesa in mano. Sembra non capire. Poi, con un urlo, si getta su Conan. Ma il suo attacco è sgraziato. Conan lo schiva con la naturalezza di chi è nato per lottare, poi alza la sua spada.
Succede tutto in un attimo.
La grande lama cala in una mezzaluna scintillante. La testa di don Alfio rotola al suolo, un istante prima che il suo corpo si pieghi all’indietro, mentre la pressione venosa fa zampillare sangue dal collo mozzato.
I Barbari scoppiano in un ululato di gioia. Scandiscono il nome del loro capo. Alzano le spade al cielo, le battono le une contro le altre. L’odore metallico del sangue si alza in aria, dai corpi dei cadaveri si solleva una bruma sottile, nell’aria fredda della notte.
Per quello che mi riguarda, ho visto abbastanza.
New York è già una giungla adesso, tra gang, spacciatori, supercriminali e pazzi in calzamaglia che camminano sui tetti. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una banda di selvaggi tagliatori di teste scatenata per le strade. E poi, questo Conan ha qualcosa di spaventoso. Il suo portamento e il suo aspetto sono quelli di un capo. Quest’uomo è nato per comandare. Di tutti i criminali che ho visto a New York da quando ho iniziato la mia guerra, è quello che più mi fa paura. Sarebbe capace di unificare le bande, se solo lo volesse. Basta vedere come i suoi uomini lo guardano. Come un re. Come un imperatore.
Estraggo la Beretta. Dal tetto del magazzino su cui mi trovo non dovrei avere problemi a centrarlo. Un solo colpo e avrò liberato New York di un altro mostro. Presa bassa a due mani. Le mani accarezzano la fredda solidità del calcio della pistola. Trattengo il respiro e premo il grilletto. Nel mio mirino, c’è la testa di Conan.
Ma qualcosa va storto.
Un attimo prima che parta il colpo, lui mi vede. O forse mi sente. O mi annusa. Comunque sia, il risultato è uno solo: si sposta dalla linea del fuoco.
Manco il bersaglio.
Poi è l’inferno.
Altre urla. Spari. Decine di spari.
I Barbari scaricano i loro caricatori contro la mia posizione.
Io faccio fuoco alla cieca, scarico il caricatore contro di loro. Le urla di dolore mi dicono che ho colpito qualcuno. Ma la voce di Conan continua a dare ordini.
Proiettili volano sopra la mia testa, si schiantano contro il parapetto.
Rotolo per terra, stacco le sicure di due granate fumogene, le lancio di sotto.
Poi, spinto dall’adrenalina, corro via, lontano dai Barbari.
Ho fallito.
Questa notte non riuscirò più a uccidere Conan.
Adesso devo solo pensare a salvare la mia vita.
Ce la faccio. I Barbari si perdono nel labirinto dei magazzini.
Non è la loro zona, questa. Li sento correre qua e là, come bestie rabbiose assetate di sangue, ma non si rendono conto di starsi allontanando da me.
Raggiungo il mio furgone in pochi minuti.
La scossa dell’adrenalina si è trasformata in un sottile rivolo.
Mentre guido verso il mio rifugio, pianifico le prossime mosse.

2.
28 settembre 1979.
08:57. Covo dei Barbari. New York.

Era un funerale da capo.
Sul tetto dell’edificio, il corpo di Ajujo era stato ricomposto e adagiato su un grande tavolo coperto da una coperta nera. La testa, scoperchiata dal proiettile a punta cava del Punitore, era nascosta da un grande elmo di metallo. Sul volto dell’uomo era dipinta un’espressione di stupito dolore.
Conan stava in piedi accanto al cadavere dell’uomo senza il quale i Barbari non sarebbero mai stati quello che erano.
Il cimmero non dimenticava che i suoi uomini erano stati prima di tutto gli uomini di Ajujo. E nemmeno che Ajujo era morto per salvargli la vita.
Crom! Era stato scagliato nel pozzo al centro del tempo e scaraventato in quell’epoca ignota, ma nulla era cambiato nella sua vita.
Combattere.
Uccidere.
Affrontare la vita con la spada in pugno.
Vedere morire i compagni.
Anche lì, nella città chiamata New York, avrebbe guardato il corpo di un amico venire avvolto dalle fiamme. Diventare fumo e consumarsi, fino a lasciare sulla terra solo pochi resti carbonizzati, mentre il suo spirito si presentava dinnanzi a Crom. O a qualsiasi altro dio avesse voluto occuparsi di lui.
Ma quello non era il momento per pensare al proprio dolore.
Era un capo. I suoi uomini, gli uomini che gli avevano obbedito solo dopo che Ajujo gli aveva giurato fedeltà, aspettavano che lui dicesse qualcosa. Che desse loro una ragione di andare avanti. Che li conducesse alla vendetta.
La sua voce si alzò alta e stentorea, nell’aria immobile del mattino.
“Ajujo è morto per salvare la mia vita, fratelli. Se ne avessi avuto la possibilità, io avrei dato la mia vita in cambio della sua. Ajujo è stato per me un fratello e un maestro. Senza di lui, i Barbari non sarebbero mai esistiti. Né avrebbero prosperato. Questo è il momento di piangere un guerriero, fratelli. Ma prima che le sue ceneri siano fredde, io vi dico, noi avremo pensato a come vendicare la sua morte. E prima della prossima luna, la testa del suo assassino sarà infilzata su una picca ed esposta su questo stesso tetto. Ajujo, fratello mio. Sei morto come un guerriero, con la spada in pugno. Sarà con la tua spada che mozzerò la testa del tuo assassino. Questo ti giuro, davanti al tuo corpo. Addio, Ajujo”
Ci fu un lunghissimo silenzio.
Poi Conan sollevò i lembi della tovaglia nera che pendevano dal tavolo e vi avvolse il corpo di Ajujo. Uno dei suoi uomini gli passò una torcia accesa.
Il barbaro socchiuse gli occhi, poi avvicinò la fiamma al telo impregnato di benzina.
Il catafalco avvampò in un lampo splendente e una colonna di fumo scuro si alzò nel cielo di New York, come un vessillo funebre.
Restarono a guardare, in silenzio, fino a che la pira non si fu consumata.

Seduto in una sala del palazzo che fungeva da sede per i Barbari, nel cuore del Bronx, Conan era inquieto. Continuava a versarsi da bere da una bottiglia di tequila e ascoltava con malcelato fastidio quello che il suo nuovo luogotenente, Amir, aveva da dirgli.
“Si fa chiamare il Punitore. E, credimi, Conan, è il peggior male che sia mai capitato a questa città. Non a caso, è un dannato bianco. Un fascista ex marine impazzito, che si è messo in testa di ammazzare tutti i criminali del mondo. Sapevo che prima o poi ce lo saremmo trovati tra i piedi anche noi. Ad oggi, avrà ammazzato almeno un centinaio di persone. Se non di più. Persino gli sbirri gli danno la caccia, ma non sono mai riusciti a prenderlo. O forse non vogliono prenderlo. In fondo è un bianco fascista come loro e fa quello che loro non riescono a fare”.
Conan buttò giù una sorsata di liquore.
“Crom!” disse. “Un uomo solo. È un solo uomo. Come è possibile che nessuno sia mai riuscito a ucciderlo? Come è possibile che faccia quello che fa? È davvero un guerriero così abile?”
Poi sbatté il pugno sul tavolo, in un gesto di stizza che fece voltare tutti i Barbari presenti nella stanza.
“Era nei marines, Conan. Il più fottuto branco di figli di puttana che questo paese abbia mai addestrato. Ha fatto tre turni nel fottuto ‘nam. Tre turni. Ed è tornato indietro tutto intero. Con tutte e due le braccia, tutte e due le gambe.”
“Ma la sua mente è svanita durante quella guerra, giusto?” Conan aveva appreso qualcosa sulla guerra in una terra chiamata Vietnam. Gli era capitato di parlarne con uomini che la descrivevano come l’inferno in terra. Come se le guerre potessero essere qualcosa di diverso da un inferno. Anche se, si diceva il cimmero, con le armi di cui disponevano in quel tempo, dare la morte doveva essere molto più semplice ed efficace.
“No. I giornali hanno raccontato tutta la storia qualche tempo fa. Il Punitore si chiama Frank Castle. Aveva una moglie e dei figli. Ma sono stati uccisi da dei mafiosi durante un regolamento di conti. Erano andati al Central Park per mangiare fuori, hanno visto quello che non dovevano vedere e... bang! È sopravvissuto solo il bastardo, che è davvero uscito di testa. Da allora, era il ‘76 credo, gira con un teschio disegnato sul petto e ammazza la gente”.
Conan restò in silenzio. Lasciò che le parole di Amir si depositassero in fondo alla sua mente.
Il Punitore era un nemico che non aveva nulla da perdere. La razza peggiore da affrontare.
Non c’era da stupirsi, se era così determinato nella sua guerra.
Porre fine alla sua vita sarebbe stata un’impresa che sarebbe stata cantata per secoli. Se ci fosse riuscito.
Poi il crescere di volume delle voci strappò Conan dai suoi pensieri. Alcuni dei suoi uomini discutevano animatamente, quasi litigando.
“Che succede?” disse alzandosi in piedi di scatto.
La sala si ammutolì. Uno dei Barbari, un ragazzo con la faccia coperta da una spessa barba, si fece avanti.
“Questi negri non credono alla storia di questo negro, Conan” disse. “Cercavo di convincerli che non sto raccontando balle”.
“Che storia, uomo?”
“Io ho visto il Punitore, in Vietnam. E so che il suo culo bianco era fuori di testa già allora. Se non peggio”.
“Parla. Ti ascolto”.
“Era il 1971. Io ero una recluta, stavo nella fottuta giungla da un paio di mesi. Ma avevo già visto morire abbastanza gente da bastarmi per tutta la vita. Al mio campo si parlava spesso della squadra del capitano Castle. Per sei mesi, le sue pattuglie del cazzo non avevano subito perdite. Una specie di record del cazzo, visto che stavano in una zona dove c’erano più Charlie – cioè, i Vietcong, insomma il nemico – che alberi. Valley Forge, si chiamava, la loro base. Noi stavamo a est, con una divisione corazzata.
Una notte viene giù una tempesta da far paura. Cercano di chiamarci, da Valley Forge, ma la linea cade. Del resto, in sala radio eravamo tutti un po’ fatti e abbiamo lasciato perdere la cosa. Solo il mattino dopo a qualcuno è venuto in mente che poteva essere successo qualcosa. Una ricognizione aerea aveva visto del fumo. I rapporti parlavano di un’offensiva imminente. Ok. Qualcuno si decide a muoversi. Ci caricano sugli elicotteri e andiamo verso Valley Forge.
Ma Valley Forge non c’è più. Valley Forge è una distesa di cadaveri e baracche bruciate. Di rottami in fiammo e di fango zuppo di sangue. Erano morti. Erano tutti fottutamente morti.
A parte lui. Se ne stava lì, in piedi in mezzo ai cadaveri, coperto di sangue. Ai suoi piedi c’erano decine di Charlie morti. Lui era ferito, ma vivo. Il fottuto capitano Castle aveva ammazzato da solo due dozzine di uomini. Due dozzine di fottuti demoni gialli. Aveva preso sette pallottole ma era vivo.
Ma questo lo avremmo saputo dopo. In quel momento, lui era solo l’immagine della morte. I suoi occhi erano... non erano umani, ecco. Avevo in circolo ancora un po’ della merda che avevo preso la notte prima e quando l’ho visto per poco non me la sono fatta addosso dalla paura.
Era come se fosse un demone. O qualcosa del genere. Come se ci fosse stato un altro, assieme a lui, dentro a quel corpo.
Per questo non mi sono mai stupito quando ho sentito che si era messo ad ammazzare la gente a New York. Perché l’uomo che avevo visto in quella dannata alba a Valley Forge non poteva fare altro che ammazzare la gente. Era solo questione di tempo. Solo questione di tempo.”
“Come ti chiami?”
“Ace. Mi faccio chiamare Ace”
“Io ti credo Ace. I demoni esistono. Ricordalo. Quell’uomo porta sul suo petto disegnato il simbolo stesso della morte. Ma uomo o demone che sia, noi lo uccideremo! Perché noi siamo i Barbari, e nessuno, dio, uomo o stregone può mettersi sulla nostra strada e rimanere impunito!”
Un urlo di approvazione salutò le parole di Conan.
“E adesso, Barbari, pensiamo a come attirare in trappola il Punitore!”

3.
Diario di guerra del Punitore.
30 Ottobre 1979
23:58. New York.

Mi sarei dedicato prima, ai Barbari, ma ho avuto da fare. Questioni fuori città.
Nel frattempo, i ragazzoni neri con le spade non sono stati fermi. Pare che Conan abbia iniziato a contattare le altre bande. Voleva creare un’alleanza contro di me. Ma gli è andata male. I criminali sono fatti così. Ognuno è convinto che io uccida i suoi nemici. E che quando arriverò da lui riuscirà a uccidermi. Finché lo credono, a me va benissimo. Adoro spazzare via le loro stupide convinzioni, nove millimetri hollow point alla volta.
Gli unici a rispondere alla chiamata di Conan sono stati un clan di irlandesi, gli Ennis. Gente nuova del giro. Di loro non so quasi nulla. Se non che stasera si incontrano tutti nel covo dei Barbari.
Nessuno mi ha invitato, ma ho pensato di andare a fare lo stesso una visita.
La strada è sgombra. Ancora pochi metri e sarò nel pieno del territorio dei Barbari. A proteggermi, gli svariati pollici di blindatura del mio furgone. Ma quelli serviranno solo fino al palazzo.
Da lì i poi, sarò appiedato.
Nessun punto di evacuazione da raggiungere.
Nessuna copertura.
Niente di niente.
Solo io, loro e la mia guerra.
Ci siamo. Una specie di posto di blocco improvvisato. Una fila di bidoni della spazzatura in mezzo alla strada. A presidiarlo, due Barbari e due irlandesi.
Quando vedono sbucare il furgone, scattano come serpenti. Raffiche di mitra grandinano contro le pareti. Una scia di incrinature biancastre si stende sul parabrezza. Ho montato un cannone da 60 millimetri, accanto al radiatore. Ci è voluto un po’ per collegare il grilletto al cruscotto e un po’ di più per montare un motore che faccia muovere la canna, ma ne è valsa la pena.
Sventaglio una lunga raffica che spazza tutto il vicolo.
I bersagli crollano al suolo, maciullati dall’uragano di piombo che si è abbattuto su di loro. Sangue schizza sui muri, mescolandosi ai graffiti.
Poi c’è l’impatto con i bidoni. Carambolano via, mentre io passo senza problemi.
Sono dentro.
La sede dei Barbari spicca in mezzo alle altre costruzioni. Su una parete esterno (esterna) hanno dipinto una spada, come se fosse conficcata nel suolo di New York. Come un segno di conquista.
Le strade sono deserte. Se qualcuno abita qui, si deve essere chiuso in casa per bene, questa notte.
Credo che mi abbiano già sentito. Il cannone da 60 fa rumore.
Infatti. Dalle finestre del palazzo dei Barbari si affacciano delle teste. Molte teste. Troppe. E sotto alle teste ci sono dei fucili. Fucili grossi.
I colpi cadono sul furgone come sassi. Uno oltrepassa il parabrezza e si va a piantare nel sedile del passeggero. Proiettili a punta cava, a giudicare dal foro. Ma non ho il tempo per un’analisi balistica. Da una finestra spunta una sagoma che conosco bene, la punta allungata di un RPG. Granata a propulsione. Se uno di quegli affari becca il furgone, sono guai grossi.
Come al rallentatore, il razzo parte, lasciandosi dietro volute di fumo scuro. Sterzo d’istinto, mi butto in una strada laterale. Un istante dopo, l’asfalto dietro di me si apre in un cratere. Shrapnel di acciaio e di pavimentazione volano ovunque, ticchettando contro il portellone posteriore.
Fermo il motore. Qui sono coperto. A meno che non ci siano cecchini anche sugli altri palazzi.
Ma devo rischiare. Afferro la sacca con l’equipaggiamento e salto giù.
Inizia la parte difficile.
L’importante è stare coperto.
Arrivare in qualche modo all’ingresso.
Ammazzarne il più possibile.
Ammazzarli tutti.
Portare a casa la pelle.
L’adrenalina pompa consapevolezza in tutto il corpo.
Dal palazzo hanno smesso di sparare.
Dovrei avere paura. Non pensavo che fossero dotati di un armamento così pesante. Forse mi stavano aspettando. Forse è una trappola. Ma da dove sono rischio di venire ucciso sia se avanzo sia se indietreggio. E allora vado avanti.
Non ho paura. La paura è per il nemico.
Paura e proiettili.
Non ho un RPG a disposizione (troppo pesante), ma un lanciagranate.
Se fossi con una squadra, chiederei fuoco di copertura. Ma sono da solo. Il fuoco di copertura devo procurarmelo da solo.
Tiro il grilletto del lanciagranate tre volte, in rapida successione. Il bersaglio è il palazzo dei Barbari. Pochi istanti dopo, tre esplosioni fioriscono sulla struttura, come fiori di fuoco.
Scatto in avanti di corsa, facendo urlare l’M16.
Proiettili fischiano attorno a me.
La loro reazione è stata rapida. Le granate non devono avere fatto abbastanza danni, ma me lo aspettavo. Troppo lontano per mirare bene.
Mi getto al riparo, tra i ruderi di una casa bruciata. La distanza si è ridotta. Studio mentalmente i prossimi passi, mentre raffiche rabbiose di armi automatiche si schiantano sull’asfalto.
I ragazzi sono irrequieti. È l’ora di dare loro ancora qualche sedativo. Del tipo a frammentazione e alto esplosivo.
Questa volta, mirare è più facile, la distanza meno impegnativa. Due granate volano in due finestre diverse. Le esplosioni proiettano fuori dal palazzo fiamme, shrapnel e una manciata di corpi umani in fiamme vola fuori dal palazzo. Urla.
Questo ha fatto male, mi dico.
Ma la risposta è più rapida di quello che mi aspettassi. Ed è di nuovo affidata all’RPG. L’esplosione che trasforma le macerie in un inferno di fiamme e frammenti ad alta velocità mi coglie quasi di sorpresa. Faccio appena in tempo a ripararmi dietro una lastra di metallo, ma non del tutto. Artigli roventi afferrano la gamba destra, strappano via il tessuto e la carne. Strisce rosse di sangue venano i pantaloni neri. Una ferita superficiale, nulla di più di un grosso graffio.
Il dolore si diffonde e ha l’effetto di un eccitante.
Il dolore mi ricorda qual è la posta in gioco. Non un attimo troppo tardi, mi ricorda che si gioca per la vita.
La mobilità dell’arto non è compromessa.
Sul campo di battaglia cala un improvviso silenzio.
Un silenzio relativo, rotto dai gemiti dei feriti e dei morenti.
Credono di avermi fatto fuori?
Può darsi.
Prendo fiato.
Poi riprendo il mio bombardamento in miniatura. Le ultime due granate.
Due granate ben spese.
Perché succede quello che mi aspettavo.
Il palazzo dei Barbari è vecchio. E malandato. Negli ultimi dieci anni è andato in fiamme tre volte. E gli interventi di consolidamento sono sempre stati fatti in economia. Per non dire di peggio. In fondo, erano solo appartamenti popolari affittati a gente senza soldi.
Martellarlo di esplosivo doveva portare a qualcosa, mi ero detto preparando l’azione.
Adoro avere ragione.
Le esplosioni toccano qualche struttura portante. Per un attimo, il palazzo resta immobile. Poi, la sua metà destra si crepa. La facciata si screpola, mentre i due piani superiori iniziano a collassare, come in una demolizione programmata. Tra le urla, metà della costruzione sprofonda verso il basso, sollevando un largo cuscino di polvere grigia.
È a questo punto che viene utile la maschera antigas con il visore a infrarossi. Il palazzo si svuota. Sagome accecate corrono fuori, verso di me.
Non mi possono vedere. Io sì.
Sventaglio raffiche nel mucchio. Vite umane indegne di essere vissute spazzate via.
Alcuni lo chiamerebbero Caos. Urla, sangue, piombo. Carne perforata, ossa maciullate, proiettili hydra-shock che si scavano la via tra i tessuti umani.
Io la chiamo giustizia. Nella morte di questi mostri, io vedo la vita di coloro che non verranno uccisi.
I bossoli cadono ai miei piedi tintinnando.
Il fucile si scalda ma continua a fare il suo lavoro.
Fino in fondo. Fino all’ultimo uomo.
Conan lo vedo solo con la coda dell’occhio, all’ultimo istante. Deve avere approfittato della confusione per scivolare silenzioso fino alle mie spalle. Mi volto di scatto.
Il tempo si congela.
Fisso la sua immagine, striature di sangue sulla pelle coperta di un impasto di polvere e sudore. Attraverso il visore a infrarossi, sembra un demone verde. Il volto distorto in un urlo selvaggio, tiene la spada sollevata sopra la testa. Pronto a calarla su di me.
Istinto. Puro istinto.
Mentre il tempo riprende a scorrere, mi butto sulla mia destra.
La grande lama traccia un arco argentato nell’aria e si schianta al suolo. Mi manca di un soffio.
Conan è sbilanciato, gli punto il fucile contro e tiro il grilletto.
Clic. Scarico. Dannazione.
Un sorriso malvagio, sulle labbra di Conan, mentre prepara un nuovo attacco.
Devo improvvisare.
Vado in presa a due mani sulla canna. Il metallo rovente brucia anche sotto i guanti di cuoio, ma non ho altra scelta.
Spada e fucile cozzano l’uno contro l’altro.
Se lo avessi saputo, avrei ripassato qualche tecnica di combattimento corpo a corpo.
Conan lotta come una tigre. I suoi movimenti sono rozzi e brutali, supportati da una forza incontenibile. E la mia arma non è certo adatta all’uso che ne sto facendo. Posso solo parare i suoi attacchi. Mi spinge indietro, lontano dalle mie armi.
Se solo potessi afferrare il mio pugnale...
Ma non ce n’è la possibilità. Non mi dà tregua.
Poi sbaglia qualcosa. Anche lui è umano, in fondo.
Intravedo una breccia nella sua guardia e ne approfitto. Spingo con forza il calcio del fucile contro il suo viso, facendo forza con tutto il corpo.
Un buon colpo, ma non abbastanza per fermarlo. Anzi. Con la mano sinistra afferra il corpo del fucile e lo strattona.
Colto di sorpresa, perdo la presa. Dannazione. È più forte di me, fisicamente. Non posso buttarla su questo piano.
Senza pensare, sguaino il pugnale. Contro i tre piedi di acciaio della sua spada è quasi inutile, ma almeno ho un’arma anch’io. Prendo l’iniziativa. Cerco di sbilanciarlo con una finta, di fargli abbassare la guardia quel poco che mi può bastare per andargli sotto. Ma è inutile. Peggio: è dannoso. Qualcosa per terra mi fa perdere l’equilibrio. Scivolo e devo rotolare via prima che Conan mi infilzi per terra. Ma non tutto il male viene per nuocere. Ne approfitto per afferrare una manciata di polvere e gettargliela negli occhi. Funziona.
Perde per qualche istante il controllo. Un tempo sufficiente a colpirlo al viso con un calcio laterale da terra. La mano che stringeva la spada perde la presa.
Finisco di rotolare e scatto in piedi. Mi frappongo tra Conan e la sua spada. Ho un vantaggio, adesso. Flebile, ma ho un vantaggio.
Tento un affondo, punto la lama al petto del mio avversario.
Qualcosa va storto.
Sono troppo lento. O lui è troppo veloce. Un pugno si abbatte sul polso della mia mano destra. Il coltello finisce per terra.
Poi Conan chiude la distanza tra noi due e mi afferra.
Le sue mani, enormi, mi stringono il collo in una morsa d’acciaio.
Mi solleva da terra. Se non mi spezza l’osso del collo prima, morirò soffocato.
Fiori neri sbocciano davanti ai miei occhi.
Un attimo prima di collassare, raccolgo le forze.
È il tutto per tutto. Sollevo le braccia, le calo con tutta la forza che mi è rimasta contro la base del collo di Conan. Prego di colpire i punti giusti.
Funziona.
Conan strabuzza gli occhi e allenta la presa. Cado al suolo.
Sono ancora vivo.
Tossisco.
Mi sfilo la maschera antigas per respirare meglio.
Anche Conan si ferma a prendere fiato.
Ora la battaglia riguarda solo me e lui. Barbari e irlandesi, quelli sopravvissuti, si sono dileguati nel nulla.
Mi arriva addosso a passo di carica, usando un tubo di ferro come arma. È accecato dall’ira, per fortuna.
Schivarlo è facile. Mentre mi passa accanto, scopre un fianco. Mi allungo per colpirlo con una gomitata tra le costole.
Mi accorgo dell’errore un istante troppo tardi.
Era una trappola.
Recupera l’equilibrio e la coordinazione che credevo avesse perso. Ora sono io a essere vulnerabile. Faccio appena in tempo a vedere il tubo che dipinge in aria un arco orizzontale. Poi il braccio sinistro esplode in un turbine di dolore. Urlo.
Ho parato con l’avambraccio un tubo di ferro. Il genere di cose che fa male. Ma che può salvarti la vita.
Conan prosegue di qualche passo la sua corsa prima di fermarsi.
Quando si volta a fronteggiarmi, sorride.
“Ti ucciderò un pezzo alla volta” dice. Poi si prepara per una nuova carica.
Ma non ci sarà una nuova carica.
Una raffica di mitra solleva pezzi di asfalto nello spazio che ci separa.
Siamo circondati.
Una ventina di gangster dai capelli rossicci formano un cerchio attorno a noi. Non ho idea di dove possano essere spuntati fuori. Conan è sorpreso quanto me.
“Fermi!” urla una voce. Dal polverone emerge un uomo coperto da una tunica incolore. Ha il volto coperto da un cappuccio. Deve essere quello che chiamano “il druido”. La mente nascosta dietro ai clan irlandesi.
“Mi servite vivi” dice.
Conan urla qualcosa. Ha lo sguardo di un leone in trappola.
Poi l’uomo con la tunica muove le mani, sussurra qualcosa.
L’ultima cosa che vedo prima che tutto diventi nero è Conan che si accascia al suolo.

4.
31 Ottobre 1979.
Ora sconosciuta. Da qualche parte nei sotterranei di New York.

A poco a poco stava riprendendo conoscenza. La sua mente stava cucendo assieme i frammenti di quello che era successo.
Conan di Cimmeria, diventato per uno scherzo del destino capo di una gang di criminali della New York del ventesimo secolo, era stato ingannato.
Uno stregone si era servito del Punitore e degli irlandesi per catturarlo. Aveva atteso che i Barbari finissero sotto i proiettili per catturarlo. E per farlo aveva usato la magia.
Conan si rendeva conto di essere tornato al punto di partenza. Non aveva più una banda. Non aveva più amici. Era solo in una terra che presentava ancora dei misteri per lui insondabili, prigioniero di uno stregone.
Conan conosceva gli stregoni abbastanza bene da sapere che quando catturano qualcuno è perché ne hanno bisogno per i loro immondi scopi. Non era certo la prima volta che gli capitava qualcosa del genere. Stava a lui fare in modo che non fosse nemmeno l’ultima.
Aprì gli occhi.
Davanti a lui, incatenato a un muro, c’era l’uomo che aveva giurato di uccidere.
D’istinto, Conan scattò in avanti, cercando di afferrarlo. Solo allora si rese conto di essere incatenato anche lui. Le catene, una per ogni arto, lo bloccarono immediatamente. La sua rabbia crebbe ancora.
“Crom!” urlò. Avere davanti il Punitore e non poterlo raggiungere gli sembrava un ulteriore scherzo del destino.
Il rumore fece svegliare il suo compagno di prigionia. A differenza di Conan, Frank Castle non ebbe reazioni scomposte alla vista dell’uomo con cui aveva lottato. Si limitò a studiare in silenzio, con un unico sguardo, la situazione. Erano in una stanza di pochi metri, senza finestre, chiusa da una porta di legno, rinforzata da sbarre di ferro diagonali. Avevano catene ai polsi e alle caviglie, fissate al muro. Dall’aspetto, muri e catene erano solidi. Le speranze di liberarsi usando la sola forza erano nulle, anche per Conan.
Sul viso provato del Punitore si dipinse un abbozzo di sorriso.
La reazione di Conan fu istantanea.
“Demoni di Crom! Maledetto figlio di mille sciacalli! Che cosa puoi avere da sorridere? Se solo potessi metterti le mani addosso!”
“Stammi a sentire” disse il Punitore a Conan abbassando la voce e fissandolo dritto in faccia “abbiamo una possibilità di andarcene di qui. Ma possiamo farcela solo se ci aiuteremo. Ti assicuro che detesto quello che sei quanto tu detesti quello che sono io. E non dimentico che stavamo cercando di farci la pelle a vicenda. Ma i nemici dei miei nemici non sono quasi mai miei amici. Se ci hanno catturati vivi è perché gli serviamo entrambi”
“Mi stai proponendo una tregua?”
“Già, una tregua. Salviamo la pelle, eliminiamo il pericolo e poi torniamo a cercare di ucciderci. Ci stai?”
“Hai un piano?”
“Sì, ho un piano. Allora, ci stai?”
“E perché hai bisogno di me?”
“Perché se là fuori ci sono almeno venti porci armati di mitra non ce la posso fare da solo. E perché non riuscirei mai ad abbattere quella porta, da solo. Non con un braccio in queste condizioni”
“Ho giurato di ucciderti, Punitore. Perché pensi che collaborerò con te?”
“Perché il tuo giuramento non ha valore. Hai giurato sul cadavere di un traditore”.
La reazione di Conan alle parole del Punitore fu così violenta che per un istante Castle temette che il barbaro sarebbe riuscito a svellere dal muro le catene e che lo avrebbe fatto a pezzi. Ma i suoi sforzi non produssero altro che rumori.
“Sangue di Crom! Ti sbudellerò, cane infame! Non solo hai ucciso Ajujo, ma osi anche bestemmiare la sua memoria! Se solo queste catene...” urlò Conan, tendendo all’estremo ogni muscolo del suo poderoso corpo. Ma il Punitore non si lasciò impressionare dall’esibizione e da quelle minacce. E non abbassò mai lo sguardo davanti a quello del cimmero. Quando riprese a parlare, la sua voce era ancora ferma e calma.
“Ascoltami. La settimana scorsa ho fatto irruzione in un capannone nel New Jersey. Ho interrotto uno scambio di droga. Un grosso scambio di droga. Circa cinquanta chili di cocaina. Ti dice nulla, la quantità?”
Cinquanta chili, pensò Conan. Quelli che gli italiani avevano rubato ai Barbari. Quelli per cui Don Alfio era morto con tutti i suoi uomini.
“Sì, immagino che ti dica qualcosa, Conan. I tuoi occhi parlano molto di più di quanto tu non vorresti. Gli acquirenti erano una banda di portoricani. Ma ti stupiresti, se ti dicessi chi era che vendeva tutta quella droga. Gemba. Il fratello di Ajujo”
Conan ebbe un altro moto di rabbia, una nuova tempesta di muscoli scosse l’acciaio che lo teneva imprigionato. “Bastardo!” urlò.
“Spero che tu ce l’abbia con i due fratelli, Conan. Perché prima di morire, Gemba mi ha raccontato tutto. Ajujo ci stava stretto, nei Barbari. Lui era un capo una volta, ricordi? Prima che arrivassi tu a spodestarlo. Stava pensando di tornare a fare le cose in proprio. Ma aveva bisogno di soldi. Per questo ha fatto fuori i tuoi corrieri e poi ha dato la colpa agli italiani. E non è finita qui. Ti sei chiesto come mai hai trovato così semplice contattare gli irlandesi per organizzare la festicciola che sono venuto a interrompere? Perché Ajujo stava già trattando, prima di morire, per venderti a loro. In giro si dice che gli irlandesi hanno un grande capo segreto. Uno che si fa chiamare ‘il druido’. E che ha un grande interesse nell’averti tra le mani. Per la cronaca, è quel tizio che ci ha catturati questa notte”.
Questa volta, Conan non reagì. Non come aveva fatto prima, almeno. Era dentro di lui che si agitavano pensieri feroci, scagliandosi gli uni contro gli altri come guerrieri colti in un duello selvaggio. Ajujo lo stava tradendo. Era possibile?
Sì. Lo era. Il racconto del Punitore era credibile. Ajujo doveva certamente avere sofferto, nel perdere il suo status di capo. Era un uomo ambizioso e astuto, abbastanza da sapere quando è il caso di nascondere gli artigli in attesa del momento propizio per sfoderarli nuovamente.
Quella dei Barbari era
(stata)
una grande banda, ma era la banda di Conan, modellata a sua immagine e somiglianza. Costruita sul suo carisma, sulle sue idee, sulle sue convinzioni. Non c’erano possibilità per nessuno di potersi un giorno affiancare al cimmero. Facile che qualcuno prima o poi avesse cercato di prendere con la forza ciò che non avrebbe mai potuto ottenere altrimenti. E ovvio che quel qualcuno non potesse che essere quello che, tra i Barbari, aveva il carattere più forte e autonomo.
Forse, dietro al tradimento di Ajujo c’era anche Gemba, un uomo mediocre che vedeva nel successo del fratello le sue uniche possibilità di combinare qualcosa, magari affiancandolo come boss di una nuova banda.
Conan aveva creduto che Ajujo potesse essere per lui un fratello. Un compagno d’armi. Ma si era sbagliato. Quando lo aveva sottomesso, gli aveva rinfacciato che esiste una differenza tra il diventare forti sollevando pezzi di ferro e il diventarlo sfidando la morte sui campi di battaglia. Ora, il suo tradimento gli ricordava che esiste la stessa differenza tra diventare fratelli lottando giorno per giorno fianco a fianco e diventarlo solo per potersi spartire un bottino più grande.
Fissò gli occhi dell’uomo in nero che aveva davanti. Erano quelli di un guerriero. Un guerriero puro, assoluto, per il quale la morte era l’unica certezza nella vita.
Frank Castle, si disse, non era certo un uomo capace di tradirne un altro solo per un capriccio. O per guadagno personale. Frank Castle lo odiava, questi dicevano i suoi occhi e il suo viso. Ma al tempo stesso gli stava offrendo una tregua che mai avrebbe rotto fino a che il pericolo che incombeva su entrambi non fosse stato eliminato.
Non ci sarebbe mai stata pace tra loro due. Lo sapevano entrambi. Se lo ripetevano in quel lunghissimo sguardo d’acciaio che li teneva uniti. Ma avrebbero potuto combattere fianco a fianco, come fratelli, per qualche tempo.
Avrebbero eliminato chi aveva interrotto il loro duello. Per poi riprenderlo. Per poi portarlo fino alla sua conclusione.
“E sia” disse infine Conan. “Accetto la tua tregua, Punitore. Penso che tu non stia mentendo, su Ajujo, quindi sono sciolto da quel giuramento. Ma lo stesso tu hai ucciso molti uomini che io chiamavo fratelli e per questo un giorno ti ucciderò. Ma non oggi. Tu vuoi uccidere l’uomo che ci ha imprigionati. Io voglio lo stesso. Questo basta perché noi possiamo lottare fianco a fianco, come fratelli, per le nostre vite. Ma è solo una tregua. Ora, mostrami come riuscirai a liberarci da queste catene!”
“Questi idioti non mi hanno perquisito,” disse Castle armeggiando con i tacchi degli stivali che portava “e non si sono resi conto di questi!”
Con uno scatto, i tacchi saltarono via. Al loro interno c’erano dei piccoli aghi di ferro, uncini e altri attrezzi da scasso miniaturizzati.
“Hanno pensato alla solidità delle catene” disse armeggiando con il primo lucchetto “ma non alla qualità degli ingranaggi”.
“O forse non pensavano che un uomo che tanto odia il crimine usi attrezzi da scassinatore” disse Conan, con una punta di derisione nella voce.
Il Punitore si fece di colpo serio. Molto serio.
“Io non sono un poliziotto, Conan. Io sono un guerriero. La mia è una guerra. Non ci sono mezzi non leciti, in guerra”.
Un istante dopo, la prima serratura si aprì con uno scatto metallico.
Conan osservò in silenzio l’operazione, fino a che Castle non fu libero.
Poi fu il suo turno. Si fece dare gli attrezzi e si liberò a sua volta.
I due uomini si fronteggiarono, nella stanza spoglia, alla debole luce di un tubo al neon. Tra di loro, l’aria sembrava quasi crepitare per la tensione.
“La porta” disse alla fine Castle. “Non ha una serratura interna. Dovremo sfondarla”
“Come sta il tuo braccio? Pensi di potere essere d’aiuto?” chiese Conan, indicando il braccio sinistro del Punitore, che pendeva inerte lungo il corpo.
Non ci fu risposta. Non a parole. Frank Castle si voltò con la spalla destra verso la porta, poi fece un cenno a Conan.
Un istante dopo, i loro corpi si schiantarono contro il legno rinforzato.
Acciaio, ossa e legno scricchiolarono contemporaneamente, messi a dura prova dalla colossale pressione generata dall’impatto. Onde d’urto si diffusero sulla superficie della porta e sui corpi, come in un maremoto primordiale e feroce, strappando gemiti dalle labbra e scricchiolii dalle assi, al di sotto del suono sordo del contatto tra masse compatte.
La porta era ancora in piedi.
Conan e il Punitore si scambiarono un altro sguardo d’intesa e si prepararono per il secondo tentativo.
Questa volta, la porta non riuscì a resistere all’assalto.
Le strutture dei cardini vennero estirpate dal muro con violenza, in una tempesta di schegge di cemento e acciaio. Priva di sostegno, la porta collassò in avanti, proiettata fuori dalla sua cornice con uno schianto secco.
I due uomini recuperarono l’equilibrio che avevano perso e contemplarono il loro lavoro. Per un istante, si scambiarono quello che poteva sembrare un sorriso. Poi, senza dire nulla, guidati ognuno dall’istinto del guerriero, si chinarono su quello che restava della porta. Avevano bisogno di armi. Svellere qualche asse fornì loro delle rudimentali mazze.
Stringendo quelle in pugno, si avventurarono lungo il corridoio che correva, in una sola direzione, fuori da quella che era stata la loro cella. Anche lì, nessuna finestra. Dovevano trovarsi sottoterra.
Il silenzio era totale. Nessuna guardia in avvicinamento. Niente di niente.
“Non mi piace” disse Conan. “Sembra tutto così semplice”.
“Come se ci avessero sottovalutati, intendi?”
“Esatto”.
“Che cosa vorresti fare?”
“Niente. Andare avanti. Prima la facciamo finita, meglio è. Restare qui a domandarci che cosa sia meglio fare non servirà a nulla”.
Il Punitore annuì. Conan era un criminale, certo, ma si trovava molto più a suo agio di fianco a lui che non con quei pagliacci in calzamaglia che affollavano New York e sostenevano di combattere il crimine a colpi di buffetti sulle guance.
Avanzarono lungo il corridoio. I tubi al neon che fornivano la luce ronzavano come piccoli insetti malati.
Camminarono per qualche decina di passi, senza incontrare alcun ostacolo. Solo il lungo corridoio, rettilineo. Poi, una porta, davanti a loro.
Una semplice porta di legno, senza rinforzi. Dopo essersi scambiato uno sguardo d’intesa con il suo compagno, Conan si avvicinò alla porta e la colpì con un calcio tremendo nei pressi della maniglia. Con uno schianto, il legno cedette.
Oltre la soglia, c’erano tre uomini, colti di sorpresa dall’irruzione.
Uno di loro venne colpito dalla porta stessa e volò contro una parete, dall’altra parte della stanza.
I compagni alle sue spalle cercarono di armare alle pistole, ma il Punitore e Conan furono più veloci di loro. Gli balzarono addosso e li colpirono con le spranghe di legno.
Si udì il rumore dei crani che si spezzavano. I due caddero al suolo inerti.
Mentre Conan si occupava di finire quello che era stato stordito dalla porta, Frank ripulì i cadaveri di armi e munizioni. Sentire la sua mano stringere di nuovo il calcio di una pistola fu una sensazione piacevole. Non chiese neanche a Conan se ne volesse una anche lui. Sapeva che non amava combattere così. Preferiva la lotta ravvicinata. Da qualsiasi posto fosse saltato fuori, era strano. Anche per quella gabbia di matti che era New York City.
Si fermarono, in silenzio. L’intera operazione era stata rapida, ma non troppo silenziosa. La porta aveva fatto un rumore infernale, rompendosi. Avrebbe attirato certamente qualcuno.
La stanza aveva due uscite, entrambe chiuse da porte. E niente finestre. L’unico mobilio erano un tavolo con sopra riviste da adulti e una bottiglia di whiskey e tre sedie.
“Da me si dice che è meglio essere il martello che l’incudine” disse Conan. Frank Castle annuì. Capiva che cosa voleva dire. Non avrebbero aspettato i rinforzi lì dentro. Sarebbero andati incontro a chiunque volesse fare loro la pelle, invece di rischiare la fine del topo.
“Dammi una di quelle... pistole” aggiunse Conan, sputando la parola fuori dai denti come se fosse stata infetta.
“Credevo non ti piacessero” disse il Punitore lanciandogliene una delle tre che aveva trovato.
“Non mi piacciono,” rispose Conan. “Ma un guerriero sa riconoscere quando un’arma è più efficiente delle altre che ha a disposizione”.
“Andiamo?” disse Frank Castle.
“Andiamo”.
Si addossarono agli stipiti della porta sulla loro sinistra, con le pistole in mano. Poi Conan si sporse e fece scattare la maniglia. Quasi nello stesso istante, il Punitore balzò di lato per tenere sotto tiro qualsiasi cosa ci fosse dall’altra parte.
Lo sgabuzzino delle scope.
Un bagliore di ilarità si affacciò sul viso di Conan, mentre il Punitore era rimasto glaciale come sempre. “Bene. Ora nessuno ci attaccherà alle spalle, di questo siamo certi” disse dirigendosi verso l’altra porta.

Un nuovo corridoio, uguale al precedente.
Ma questa volta avevano compagnia.
Sulla parete di destra, a una decina di metri da dove si trovavano, si aprì una porta. Come si affacciò da lì una testa, il Punitore fece fuoco. La detonazione rimbalzò per tutto il corridoio. L’uomo andò giù come un pupazzo, con mezza testa distrutta dal metallo ad alta velocità.
Da quel momento, iniziò la battaglia.
Conan e il Punitore sparavano a colpo sicuro, ogni colpo un nuovo cadavere che si andava ad aggiungere a quelli già a terra. Solo dopo avere perso sei uomini, gli irlandesi intuirono che avrebbero potuto sparare spingendo solo la canna del mitra oltre lo stipite. Ma era già tardi. Conan aveva percorso lo spazio che lo separava dalla porta e si era trovato davanti a un gruppo di cinque scagnozzi, stupiti e terrorizzati da quella visione. Aveva fatto fuoco sul primo, colpendolo al petto. Poi lo aveva afferrato prima che cadesse e usandolo come scudo umano aveva svuotato il caricatore dell’arma automatica sugli altri.
La manovra riuscì. La raffica falciò il gruppo, sangue schizzò dai loro corpi come un arcobaleno vermiglio. Poi più nulla.
Il Punitore raggiunse Conan.
“Bel colpo” gli disse. “Non avrei saputo fare di meglio. Dove hai imparato a combattere?”
“Con le armi da fuoco? Ho visto dei... film” rispose Conan. Aveva pronunciato anche quella parola dopo un’esitazione, come se si fosse trattato di un concetto che ancora non aveva ben chiaro.
Frank Castle avrebbe voluto chiedergli ancora qualcosa sul suo passato e sulla sua provenienza, ma due fattori lo fecero desistere. Il primo era il fatto che rischiava di dimenticarsi chi fosse Conan per lui, cioè un criminale che meritava, come tutti quanti, la morte. Il secondo, ben più urgente, riguardava la stanza in cui si trovavano.
C’era una scala. Una scala che saliva. E sulla parete, vicino ai gradini, un simbolo.
Frank lo riconobbe subito. Era il logo della Dolmen Inc., una finanziaria molto attiva negli ultimi mesi, quasi certamente legata a doppio filo (se non peggio) agli irlandesi di Ennis.
Anche Conan riconobbe subito il simbolo sul muro. Ma per lui era qualcosa di ben diverso. Un simbolo magico. La conferma che dietro alla sua cattura c’era uno stregone.
“Si sale”, disse il Punitore. “Finalmente. Non ne potevo più di fare il topo qua sotto”.
Salirono due rampe di scale, sempre con le armi in pugno. Non più le pistole, ma le mitragliette prese ai morti. Uzi, fabbricazione australiana. Potenza di fuoco unita a dimensioni ridotte. Un buon affare.
In cima alle scale c’era un’altra porta. Di metallo. Chiusa. Dall’altra parte, nessun rumore. Nessun suono.
La aprirono. Si trovarono nell’atrio di un palazzo. Il logo della Dolmen era impresso ovunque. Alla loro destra, le porte di vetro che conducevano fuori. Nella notte.
L’atrio era deserto e buio. Da fuori filtrava quel poco di luce che bastava a permettere di vedere qualcosa.
“Che facciamo?” chiese Conan.
“Potremmo uscire” rispose il Punitore. “Oppure potremmo vedere se c’è qualcun altro qui dentro. E portare a termine il lavoro. Io resto qui, a ogni modo. Se tu vuoi andare via, liberissimo”.
“Crom! Mi stai dando del codardo? O dello spergiuro? Lo stregone deve essere qui. E noi lo troveremo!”
Non c’erano ascensori. Solo una rampa di scale saliva a sinistra.
Salirono. Dal primo pianerottolo si dipartiva un corridoio, sul quale si aprivano diverse aperture, tutte senza porta. Il palazzo doveva essere ancora in costruzione, pensò il Punitore. Lo stesso, si affacciò a una delle stanze. Era un appartamento, a giudicare dalle dimensioni. Si diresse fino a una delle finestre vuote, guardò fuori.
Riconobbe la zona: Brooklyn.
Terreni che la Dolmen aveva acquistato per una miseria dal Comune: sotto ci doveva essere un accordo sottobanco. Attorno a quel palazzo ce n’erano altri in costruzione. Palazzi da dieci piani l’uno. Un affare non da poco, pensò. Appartamenti, uffici e quant’altro con la garanzia di sicurezza data dalla “protezione” degli irlandesi. Un buon piano. Che sarebbe annegato nel sangue.
“Allora?” gli chiese Conan. “Che cosa vuoi fare?”
“Non lo so”, disse Frank. “Qua ho visto quello che volevo vedere. Dubito ci sia altro”.
Conan stava per rispondergli. Poi sembrò come annusare l’aria. Aggrottò le sopracciglia e si portò un dito davanti alle labbra, intimando il silenzio al Punitore.
“Sul tetto,” disse infine. “Lo stregone è sul tetto. Ho sentito la sua voce. Sta recitando delle preghiere”.
Frank tese l’orecchio. Conan aveva ragione. C’era una voce, nell’aria. Una voce che veniva da sopra di loro. Non aveva idea di che cosa dicesse, ma senza dubbio aveva un che di strano.
“Saliamo” disse il barbaro, avvicinandosi alla finestra. Castle guardò fuori. La facciata presentava abbastanza appigli da rendere agevole la scalata. Non era una cattiva idea. Avrebbe dato loro il vantaggio della sorpresa, rispetto al salire dalle scale.
Appesero a tracolla gli Uzi e si prepararono alla scalata.

5.
Diario di guerra del Punitore.
Notte tra il 31 Ottobre e il 1 Novembre.
Ora sconosciuta. New York.

Eccoci qui. Conan si arrampica come se non avesse mai fatto altro in vita sua. Io cerco di tenergli dietro, ma non ce la faccio. Il braccio adesso fa un po’ meno male, ma non è certo al massimo della forma. Devo accontentarmi di fare le cose facili.
Sotto di noi, New York. La Grande Mela marcia.
Mi rendo conto solo ora che stasera è Halloween. Là fuori, i bambini vanno in giro travestiti da mostri. Travestiti da morti. Come se in questa città non avessimo già abbastanza di mostri e di morti.
Conan è davanti a me di almeno un piano. Sarebbe facile, adesso, falciarlo con una raffica. Porre fine alla nostra alleanza e liberare la Mela di uno dei suoi vermi. Ma non voglio farlo. Non ancora. Non per lealtà, perché non devo nulla a un criminale come lui. Ma lui può servirmi ancora, questa notte.
E allora scalo questo dannato palazzo, appiglio dopo appiglio, senza pensare al vuoto che si apre sotto di me. Senza pensare al vuoto che sembra chiamarmi a ogni passo, che aspetta solo un mio errore. Ma di errori non ne faccio. Non sarò veloce come Conan ma so arrampicarmi anch’io. Non si esce dai Marines senza avere imparato un paio di cosucce.
Svuoto la mente e continuo a salire.
Alla fine sono in cima anch’io. Conan mi ha distanziato di qualche minuto e si è messo accucciato sul cornicione ad aspettare. Avrebbe potuto farmi fuori senza problemi anche lui, ma non l’ha fatto. Non credo che ci abbia nemmeno pensato, a dirla tutta. È troppo preso dall’eccitazione di affrontare quello che lui chiama “stregone”.
Mi isso sul cornicione e sbircio oltre il parapetto.
Qualcuno ha organizzato una festa di Halloween con i fiocchi.
Ci sono una ventina di uomini. Tutti vestiti con le stesse palandrane del Druido. Tutti con i visi in ombra. E poi ci sono tre ragazze. Nude. Legate a tavoli di pietra. Il resto dello scenario sono bracieri, candele e pugnali. Li impugnano i tre uomini che sono davanti alle ragazze. Li tengono altri sopra le loro teste, pronti a infilzare le ragazze.
Siamo arrivati giusto in tempo.
Apro il fuoco, in automatico, sui tre con il pugnale. Conan fa lo stesso sul resto del mucchio.
L’effetto è dirompente. Uomini cadono al suolo come manichini spezzati, l’aria si satura dell’odore del piombo e del sangue. Una sinfonia di urla.
Localizzo il Druido. La sua tunica ha cucito sopra il simbolo della Dolmen. Quello che Conan chiama un simbolo magico. Deve esserlo sul serio. O forse lui ha un giubbotto antiproiettile, perché nonostante lo colpisca almeno tre volte non sanguina. Facendosi scudo con i corpi di alcuni dei suoi uomini, si butta al riparo di un mucchio di materiale di costruzione.
Nel frattempo, la cosa si fa interessante. Da sotto le tuniche saltano fuori le armi da fuoco.
La festa si fa scoppiettante. Proiettili, di tutti i calibri, volano ovunque.
Ma con il cappuccio sulla faccia si mira male. Mentre noi maciulliamo i loro, loro ci mancano o scheggiano il parapetto. Solo un paio di colpi prendono di striscio me e Conan, ma non ci impediscono di continuare il nostro lavoro.
Ennis lo riconosco quando si toglie il cappuccio dalla faccia. Sta cercando di fuggire giù dal gabbiotto delle scale, il topo. La raffica lo falcia a metà percorso, lo manda a carambolare per terra come se si fosse inciampato. Non è morto, non ancora.
A quello ci pensa Conan.
Approfitta del mio fuoco di copertura e balza avanti. Afferra un pugnale da terra e in un battito di ciglia è sopra all’irlandese. Mentre io elimino gli ultimi avversari, Conan taglia la gola a Ennis. Poi dà uno strappo e la testa gli rimane tra le grandi mani. La getta per terra e la schiaccia sotto i piedi. Esplode come una zucca marcia.
“Dove sei, stregone?” urla.
In Vietnam ne ho viste, di cose. E anche dopo. Ma l’immagine di Conan, seminudo, gigantesco, sporco di sangue e lucido di sudore che agita nell’aria un pugnale, con il viso trasfigurato dall’ira mi fa scorrere un brivido lungo la schiena. Come se fosse qualcosa che non appartiene a questo mondo o a questo tempo. Come se lui fosse davvero un selvaggio, un barbaro precipitato per chissà quale motivo a New York City, nella decadente capitale del nostro mondo.
Il Druido esce dal suo riparo. Anche se non posso vedere il suo viso, coperto dal cappuccio, sono convinto che sorrida. Sembra guardarsi attorno.
“Bravi,” dice. “Siete stati molto abili”.
Non lo ascolto. Sto liberando le ragazze, tagliando i loro legacci. Sono spaventate a morte, ma le spingo lo stesso giù dalle scale. Intanto, il Druido continua a parlare. Come se non avesse due uomini armati davanti. Due uomini decisi a ucciderlo.
“Immaginavo che sareste arrivati fino a qui. E che ci sareste arrivati alleati. Le vostre volontà unite nella tensione verso un solo obiettivo. Due uomini così eccezionali... sarà un piacere prendere le vostre anime. Il potere che ne trarrò sarà così traboccante che...”
Non so di che cosa stia parlando. Premo il grilletto. Una raffica di colpi esce dalla canna, ma passa attraverso l’immagine del Druido. Mi rendo conto solo ora che ne vedo tre.
“Stregoneria!” dice Conan. Fa per lanciarsi contro di lui, ma qualcosa lo trattiene.
I cadaveri degli irlandesi morti. Si stanno rialzando. È assurdo. Come se non fossero mai morti.
Sparo. Colpisco carne morta, livida, ma senza effetto. Tre cadaveri si sono rialzati in piedi e mi sono addosso.
Vivi o morti che siano, ha poca importanza. Li colpisco usando l’Uzi come fosse un pugno di ferro. Arretrano di un po’, barcollano.
Ne colpisco più forte uno con un calcio laterale. Vola via, come se fosse fatto di carta. Urta il parapetto. Cade.
Ma me ne vengono addosso altri. Non cercano di colpire, ma solo di sopraffarmi con il loro peso, di schiacciarmi a terra.
Conan urla qualcosa in una lingua che non conosco.
Lotto con tutte le mie forze. Me ne tolgo di dosso un paio. Spappolo le ginocchia di un altro con un calcio. Cade a terra. Avanza sulle braccia. Lo inchiodo a terra spappolandogli il cranio con un calcio.
“La testa!” urlo a Conan. “Colpisci alla testa!”.
Una breve serie di colpi singoli mi aiuta a sbarazzarmi dei miei assalitori. Sangue e cervella mi schizzano addosso, ma sono libero. Anche Conan è riuscito a fare lo stesso. E ora sembra essere ancora più infuriato di prima.
Si lancia sul Druido con il pugnale in pugno, coperto di sangue dalla testa ai piedi. Non ci sono più tre immagini. È solo, adesso. Impossibile sbagliare.
Infatti, non sbaglia. La lama si conficca nella tunica fino all’impugnatura, in prossimità del cuore. Il Druido cade a terra, il cappuccio gli scivola della testa. Un fiotto di sangue gli cola sul mento dalla bocca.
“No-non è possibile”, dice. “Come avete fatto? Non doveva finire così...”
Ho un colpo in canna. Gli appoggio la pistola alla fronte. Come se fosse un bacio della buonanotte.
“Finisce come finisce, bastardo”, gli dico.
Poi il 9 millimetri a punta cava gli attraversa il cervello.
Abbasso il braccio.
È finita.
Gli irlandesi di Ennis sono distrutti. Il Druido è morto.
Io sono vivo. Conan è vivo.
Silenzio.
La nostra tregua è finita.
Incrociamo lo sguardo.
È uno sguardo di sfida.
I muscoli si tendono.
Nuove riserve di adrenalina pompate in circolo.
Il mio corpo è pronto per continuare la lotta.
Anche Conan è pronto.
Siamo corpo a corpo, a mani nude. Ma sul campo di battaglia ce ne sono tante, di armi.
Sarà interessante.

6.
1 Novembre 1979.
00.20. New York City.

Il senso di ragno aveva pizzicato così forte da fargli male. C’era qualcosa di grosso in ballo, sul tetto di quel palazzo in costruzione.
Era arrivato tardi, però.
Un massacro. Qualcuno aveva fatto un massacro. C’erano cadaveri dappertutto, sul tetto. Un paio persino di sotto.
E come sempre in quei casi, c’era di mezzo Frank Castle. Il Punitore. La sua sagoma inconfondibile e il gigantesco teschio bianco che portava sul petto risaltavano in mezzo ai cadaveri. Con lui c’era anche qualcun altro. Un colosso.
Sembrava che stessero per mettersi a lottare.
C’era poco tempo da perdere, si disse. Appoggiò la macchina fotografica da una parte ed entrò in azione.
“Non ci sono già abbastanza morti qua sopra, signori?” disse mentre innaffiava Frank Castle e il suo amichetto di ragnatele. “Nuova formula! Oggi più efficace del 20% contro i serial killer” disse. Per sicurezza, abbondò con le dosi. Quello grosso sembrava in grado di liberarsi senza problemi. Quanto al Punitore, c’era ben poco di cui fidarsi di lui.
Funzionò. I due sembravano delle mummie e avevano a malapena spazio per respirare quando finì di sparare le sua tela, ma erano immobili. Fino all’arrivo della polizia sarebbe dovuto bastare.
I due contendenti gli urlavano di tutto, ma lui non li ascoltò, mentre si allontanava.
Pregava solo che la macchina fotografica avesse fatto in tempo a fotografare anche le tre ragazze nude che erano salite su dalle scale.

EPILOGO

Frank Castle venne incarcerato, accusato di diverse decine di omicidi, nonché di diserzione dai Marines. Ma non era la prima volta che accadeva, e non sarebbe stata l’ultima. Chiuso in prigione, riuscì a fuggire dopo avere ucciso almeno una decina di carcerati.
Continua da anni la sua personale guerra contro il crimine.

Conan rimase in prigione solo per alcuni mesi, prima di venire prelevato in gran segreto dalla CIA. Gli venne proposta la libertà in cambio della collaborazione con il governo degli Stati Uniti. Accettò. Il suo primo incarico fu quello di stanare un reduce del Vietnam impazzito che si era rifugiato nei boschi attorno a una cittadina del nord. Dopo quello, gli venne affidata una missione segreta nella giungla del Vietnam: liberare prigionieri militari rimasti in mano vietnamita.
Non fece mai ritorno dalla missione. Secondo alcuni sarebbe caduto in azione. Altre voci sostengono che si sarebbe unito ai sovietici. Quale che sia la verità, di Conan non si ha più alcuna notizia.

* * *

NOTE:
Come detto dall’Osservatore, questa storia prende lo spunto dal What If pubblicato in Italia su Conan il Barbaro n. 69, in cui Conan rimane intrappolato nel 1977, fonda una banda criminale e incontra Cap. America. Storia noiosissima e con una sola scena memorabile, cioè quella in cui il cimmero si veste da pappone (con vestito bianco, pimp hat e leopardo al guinzaglio) per fare colpo su una donna.
Dopo diversi mesi di baloccamento sull’idea di dare una raddrizzata a uno spunto interessantissimo, alla fine mi è sembrato che la cosa migliore da fare fosse quella di fornire a Conan un antagonista con il quale fosse davvero interessante incrociare le armi. Uno che non pensa nemmeno a redimerlo, ma che cerca di abbatterlo a fucilate. Il buon vecchio Frank, insomma.
Credo (credo) di avere rispettato parte delle regole del team up. Forse Conan fa una figura migliore negli scontri, ma mi piace pensare il Punitore come uno che incassa molto e sopporta il dolore. E poi Frank “sconfigge” Conan nel dialogo in cui lo convince ad allearsi.
Il ricordo di Ace è basato ovviamente sulla miniserie “Born” di Ennis e Dillon, in cui si avanza l’idea che Frank abbia stretto, ai tempi del ‘nam, un patto con “qualcosa” (la morte? La sua metà oscura?) che gli ha garantito certi vantaggi in cambio di un certo sacrificio. Se guardate bene, Ace lo potete anche vedere nel fumetto, anche se all’epoca non aveva ancora la barba.
L’Uomo Ragno alla fine mi sembrava il giusto “deus ex machina” per risolvere la situazione e rilassare la narrazione. Oltre a essere un omaggio al personaggio che tenne a battesimo il Punitore, ovviamente.
Confesso candidamente di avere saccheggiato lo stile di Alan D. Altieri (senza avvicinarmi nemmeno per scherzo alla sua grandezza) per le parti del diario di Frank Castle. Se non avete mai letto i suoi libri, fatelo al più presto.
Forse prima o poi si saprà anche che cosa è successo a Conan, nelle giungle vietnamite...
Forse.