#5 – Amore che vieni, amore che vai – parte 2

“Vecchie conoscenze”

 

di Ermanno Ferretti

 

 

Mary Jane Watson Parker. Un nome così lungo, ma anche corto, all’occorrenza. MJ. Quattro parole, ma bastano anche due sole lettere a delinearla, a renderla unica. L’avevo vista, quasi di sfuggita, l’altra volta. A dire la verità l’avevo usata, l’avevo rapita per arrivare a lui. Non era lei a interessarmi. Era quell’altro, Parker. Quello che era sempre stato, fino ad allora, il mio modello. Suo marito.

E’ forse ora che l’allievo superi il maestro. O, meglio, che l’allievo prenda il posto del maestro. La ragazza dai capelli rossi dev’essere mia. Mary Jane Watson Parker. MJ. Mary Jane Watson Petty. Suona bene. Mary Jane Watson Petty.

 

La mattina era di un sole pallido. Il ragazzo del negozio di fiori percorreva la strada, col suo furgoncino, con una lista piena di consegne da effettuare. Era un lavoro come un altro, riteneva, anzi, forse anche meglio di altri. Portavi i fiori di S. Valentino. Portavi rose. Portavi piante per i compleanni. La gente ti apriva felice, a volte sorpresa. Le donne sorridevano. Annusavano i fiori e pensavano a chi poteva averglieli mandati. Aprivano il biglietto velocemente, quasi strappandolo. E poi ridevano e guardavano in aria. Certo, a qualcuna scappava una lacrima, ma tu eri già nel vialetto, quasi al cancello, e facevi finta di non accorgertene. Era un lavoro che metteva allegria. Per fortuna, per portare i fiori al cimitero, invece non serviva nessun fattorino.

Col suo berrettino calato sulla fronte e il mazzo di rose adagiato nel braccio destro, il ragazzo suonò al campanello dei Parker, nel Queens. La piccola busta del biglietto diceva, infatti, Mary Jane Watson Parker.

 

Nello stesso momento, una figura rossa e blu partiva, saltando nell’aria. Solo finissimi fili lo tenevano sospeso, fili che da lontano, dalla terra, difficilmente si riuscivano a vedere. Sembrava volasse. E se non fosse stato per gli strattoni che il suo corpo subiva, e per la tensione delle braccia, e per il moto parabolico… Se non fosse stato per tutte queste cose, la gente avrebbe pensato veramente che sapesse volare. Invece, l’Uomo Ragno sapeva solo saltare, attaccato alla sua tela. E andava in una direzione che la gente, dal basso, non conosceva. Ma lui, lui sì che sapeva dove andava, conosceva la città, sapeva distinguere le strade dall’altro e poteva raggiungere in pochi istanti ogni palazzo che vedeva stagliarsi nel cielo grigio di New York.

Certo, non era facile. Appena iniziava la sua corsa attaccato a quegli esili fili sentiva – come se fosse stata la prima volta – il fiato annaspargli la gola, il cuore iniziare a sbattere contro il petto, la saliva che si seccava subito sul palato. Sentiva i muscoli riempirsi dell’energia propria delle emergenze, ed era come se corresse su delle montagne russe particolarmente eccitanti. Mentre saltava tra i tetti non c’era possibilità di pensare, c’era solo la grande velocità che assumeva e c’era il bisogno di reagire rapidamente, istintivamente, per non finire spiaccicati contro una finestra. Spiaccicati come un ragno. Non era quello il destino di quelli come lui? C’era sempre qualcuno, dietro l’angolo, che solo perché gli facevi schifo era pronto a schiacciarti.

No, non doveva pensare a queste cose. D’altronde lui era sì l’Uomo Ragno, ma sotto la maschera era Peter Parker. Un uomo felice, nonostante tutto. E a modo suo fortunato. C’erano i momenti brutti, ma la mattina dopo il sole gli sorrideva sempre.

 

Il sole, quella mattina, sembrava splendente anche per Jake. In realtà il cielo di New York era del suo solito colore anonimo e, per certi versi, triste. Ma Jake sembrava non accorgersene, guardava fuori dalla finestra del suo appartamento, e sorrideva. Di là, in cucina, a preparargli la colazione c’era Lynda, la bella Lynda. Lynda che aveva passato lì la notte, per la prima volta. L’alto ragazzo biondo, con la sua maglietta addosso, si sentiva inondato di sensazioni nuove, che prima non aveva mai provato o non aveva voluto sentire. C’erano state altre ragazze, Lynda non era certo la prima. Ma le altre erano venute e se n’erano andate facilmente, con nessuna aveva avuto granchè in comune se non qualche chiacchierata, qualche film, qualche notte. Lynda… Era diversa, anche se ancora non riusciva ad individuare cos’era che la rendeva particolare. Certo, poteva darsi benissimo che fosse solo il suo nuovo modo di percepirla, che fosse Jake stesso ad essere cambiato, e non Lynda ad essere diversa dalle altre.

Il mondo gli sembrava così nuovo, in quei minuti. Il palazzo di fronte, era come se non l’avesse mai visto prima. E di certo era la prima volta che si metteva così, le mani in tasca e lo sguardo fisso fuori, senza nient’altro da fare. Gli piaceva fare cose, tenersi indaffarato. E c’era sempre qualcosa da fare, o da lavorare, o da divertirsi con qualche hobby o passatempo. C’era sempre una rivista da sfogliare distrattamente. Ma quella mattina non aveva voglia di niente di tutto ciò, quella mattina il suo cuore sentiva un peso addosso, ma un peso che era dolce portare e che lo sollevava da tutto il resto.

Fu il rumore del campanello ad interrompere questi suoi pensieri. Aprì e se lo ritrovò di fronte. Quella situazione gli risultava così strana che rimase fermo alcuni istanti, prima di aprire bocca. Da un lato, quella mattina tutto gli sembrava irreale e faticava a rendersi conto delle cose. Dall’altro, erano tre anni che non vedeva Steve in un ambiente normale, come il pianerottolo del suo appartamento. Ebbe la sensazione, palpabile, che qualcosa fosse fuori posto.

- Steve! – disse, infine.

- Ciao Jake. Mi fai entrare? – rispose Steve, con un sorrisetto divertito stampato in faccia. L’imbarazzo dell’amico lo divertiva – proprio Jake, che era sempre stato così deciso, sicuro di sé.

- Uh, certo, certo, accomodati.

A Jake quell’intrusione diede onestamente fastidio. Per carità, era contento di rivedere Steve, soprattutto di rivederlo fuori di galera, ma perché doveva arrivare proprio quella mattina, a interrompere l’idillio, a riportarlo alla realtà, a fargli capire che il mondo non era fatto solo da lui e da Lynda?

Malvolentieri, lo fece accomodare, e poco dopo gli presentò la giovane ragazza che si era affacciata dalla porta della cucina a vedere chi fosse. Cielo, se era bella. I suoi lunghi capelli neri le scendevano sulle spalle magre, e il sorriso le disegnava tutto il volto in un’espressione felice. Jake fu orgoglioso di poterla presentare come la sua ragazza. In genere, con quelle che aveva avuto prima, tendeva a dire: “Un’amica”. L ica"u orgoglioso di poterla presentare come la sua ragazza. In genere, con quelle che aveva avuto prima, tendeva a dire: "n unynda no, con lei non c’era più bisogno di usare quelle scuse, di trincerarsi dietro di esse. Se avesse potuto avrebbe detto a Steve che l’amava, ma non avendolo detto nemmeno a lei era meglio andarci cauti.

Mentre parlavano, gli scappò da ridere, pensando a queste cose. Che gli stava accadendo? Lui, Jake Dorman, il bulletto del liceo, ora diventato così mollaccioso? Così improvvisamente romantico e sognatore? Steve lo guardava stranito, ma lui continuava a sorridere, come inebetito. E il guaio era che se ne rendeva conto. Quante cose cambiavano nella vita. Una volta era Steve ad essere sempre con la testa tra le nuvole, mentre lui aveva i piedi ben radicati per terra. Ora si stava realizzando il contrario.

- Be’, e adesso che sei uscito? Cos’hai intenzione di fare?

- Oh, è come quando arrivavano le vacanze a scuola – gli rispose Steve, dopo averci pensato un attimo – programmavi cosa fare per tutto l’anno e poi finivi per non riuscire a fare neanche la decima parte di quello che ti eri programmato.

- Sì, m’immagino – confermò senza attenzione Jake, lanciando uno sguardo verso la porta della cucina dove si era da poco ritirata Lynda perché aveva il caffè sul fornello.

- Comunque pian piano dovrei riuscire a far tutto. Mi sto già dando da fare.

- Se dovessi aver bisogno di qualcosa, anche di soldi intendo, io…

- Oh, non ti preoccupare – disse, tranquillizzandolo anche a gesti – per quello non c’è proprio problema. Mio padre m’ha lasciato un bel gruzzoletto.

Rimasero qualche secondo in silenzio. Entrambi sembravano pensare ad altro. Poi Steve disse che doveva andare.

- Comunque fatti sentire – lo incoraggiò Jake – che magari qualche sera si può uscire tutti insieme.

- Tutti? – chiese dubbioso.

- Sì, io, te e Lynda – rispose, intimidito, Jake. Si meravigliò egli stesso di aver incluso Lynda così facilmente nel discorso.

- Oh, certo. Magari, in tempi brevi potremmo addirittura uscire in quattro…

- Ah – rispose l’amico, credendo di capire a cosa si stava riferendo Steve – sì, vedrai che non ci metterai molto a trovarti una ragazza!

- Sì, credo anch’io che non ci metterò molto.

Jake rimase ancora per qualche secondo a guardare fuori dalla finestra, dopo che Steve se n’era andato, poi ritornò in cucina, dove l’attendevano Lynda e la colazione. Doveva darsi una mossa – gli disse lei scherzosamente – perché avevano entrambi una lezione che li aspettava all’università e rischiavano di arrivare in ritardo.

 

Le cose erano di nuovo cambiate, negli ultimi giorni, o meglio erano ritornate all’equilibrio normale. Dopo l’incontro con l’Uomo Ragno, il piccolo Rob aveva perso definitivamente la possibilità di poter tornare a casa da solo dopo scuola. Non che gli dispiacesse poi così tanto, visto che quei pochi ritorni in solitario gli erano costati perlopiù l’aggressione da parte di Jack e compagnia. Però il padre che ogni mattina lo aspettava sul cancello della scuola non faceva altro che aumentare la sua fama di perdente. E nemmeno in casa l’atmosfera era uno splendore: papà si lamentava spesso per quel bambino scemo che non era nemmeno capace di tornare a casa da scuola senza cacciarsi nei guai, mentre mamma era ancora ossessionata da quel “cosiddetto eroe”. L’aveva urlato a tutte le sue amiche, al telefono. “Quel dannato ragno che se ne va in giro in calzamaglia… Ha tentato di rapire il mio Rob, vi rendete conto?”. Avevano addirittura iniziato a comprare il Daily Bugle - loro che di quotidiani non ne avevano mai letto uno in tutta la loro vita - da quando avevano visto in copertina un titolo contro Spidey.

E Rob aveva dovuto staccare dall’armadio il poster che ci aveva attaccato ancora un paio d’anni prima, e buttare via tutti i fumetti e i libri dedicati agli eroi. Anche Harry Potter.

- Ma Harry Potter non esiste davvero! – aveva tentato di spiegare.

- Non m’importa – aveva risposto sdegnosa la madre – hai la testa piena di balle, di bugie! E poi sei grande, è ora che ti metti a leggere qualcosa di più serio, come il giornale, ad esempio. Cosa t’insegnano a scuola, si può sapere?

Rob aveva dieci anni. E faceva fatica a starsene zitto, quando sua madre si lamentava di “quel mostro che salta di tetto in tetto, compiendo ogni notte chissà quanti furti e rapine”!

- E’ che non lo dicono, in tv, per non spaventarci. O perché non hanno prove per poterlo dire, perché è furbo, quel disgraziato, ed ha amici potenti. Ma noi l’abbiamo capito. Lo dice sempre anche Carl: uno che va in giro con una maschera ha qualcosa da nascondere! Il mio Carl non è fesso, non si lascia mica prendere in giro come gli altri – diceva al telefono, a voce alta, in modo che Rob sentisse. E Rob sentiva e se ne stava in silenzio, in camera sua.

 

La lezione di Peter all’E.S.U. si stava svolgendo nel solito modo. I libri aperti sulla cattedra, e lui in piedi, alla lavagna, a spiegare e schematizzare. C’era qualche professore più moderno di lui che usava i lucidi o proiettava schermate del pc sul muro, ma lui non aveva il tempo di preparare tutte quelle cose in più. La vita notturna come vigilante mascherato pesava su tutte quelle piccole cose. E comunque gli piaceva di più il suo metodo, gli sembrava più amichevole, meno distaccato, e contemporaneamente più efficace. Certo, forse si sbagliava, e quel modo di fare lezione stava andando scomparendo, ma finchè non gli levavano la lavagna dall’aula…

Fu proprio in uno dei momenti in cui era girato verso il rettangolo di ardesia, dando le spalle agli studenti, che sentì pizzicare il senso di ragno. Si girò di scatto, interrompendo quanto stava scrivendo. I ragazzi che prendevano appunti alzarono gli occhi verso di lui e lo guardarono perplessi.

Niente, non sembrava esserci nulla di strano. E il senso di ragno aveva smesso di pizzicare. Forse si era trattato di pura suggestione.

- Bene, volevo vedere se eravate attenti – disse, per cercare di giustificare quell’interruzione improvvisa e quell’espressione indagatoria. E, dai sorrisini dei ragazzi, sembrava esserci riuscito. Meglio passare per un professore rigido che per un pazzoide.

Ma, mentre si girava di nuovo alla lavagna, il pizzicore tornò e questa volta molto più forte di prima. Non fece nemmeno in tempo, questa volta, a girarsi verso la parete alla sua sinistra che il muro venne sbriciolato e i calcinacci iniziarono a volare per tutta la stanza. I ragazzi si gettarono a terra o sotto i banchi in pochi secondi, mentre una nube bianca di polvere invase l’aria. Peter urlò, tossendo, di mettersi al riparo, ma la frase gli venne mozzata in bocca. Un braccio meccanico spuntò infatti dalla nebbia che si era formata, e gli strinse la gola. Riuscì a scorgere finalmente chi fosse il suo nemico. Il Cervello Vivente era tornato in azione.

 

Il fioraio se ne stava andando con un’aria delusa, mentre la porta di casa Parker si richiudeva dietro di lui. “S. P.”. Chi era? MJ aveva pensato subito, visti i fiori, che Peter, una volta tanto, avesse avuto l’idea di farle un regalo fuori dalle ricorrenze consuete. Ma il biglietto le aveva bloccato l’eccitazione e il sorriso sul nascere. “Alla splendida MJ, con stima e ammirazione. S.P.”. Forse un fan. C’era ancora qualcuno che, per strada, la riconosceva, dai tempi in cui recitava in quella soap-opera. O qualcuno che ha saputo del suo imminente debutto a Broadway. Ma la cosa strana era: come aveva avuto l’indirizzo? Dopo gli ultimi avvenimenti, avevano deciso di non apparire sull’elenco, né sotto Watson, né sotto Parker. Erano entrambi, infatti, diventati già abbastanza noti senza dover oltretutto subire le telefonate di mitomani o giornalisti. E comunque, ogni volta che capitava qualcosa di strano e inaspettato, non riusciva a non pensare al peggio. Ormai c’era abituata. Appena aveva letto le due iniziali, subito s’era messa a sforzarsi cercando di ricordare un qualche super-criminale. Ma forse no, forse era troppo diffidente. Forse era davvero solo un fan, o – più semplicemente – uno dei suoi vecchi capi, o un collega di Peter, che aveva per un qualche motivo deciso di omaggiarla. Ma perché, allora, non firmarsi per intero? Chissà, forse Peter lo sapeva e gliel’avrebbe spiegato quel pomeriggio al ritorno dal lavoro.

 

Peter, invece, in quel momento stava rischiando seriamente di non tornare a casa quel pomeriggio, anzi, di non tornare a casa mai più, visto che stava per morire soffocato. La presa del Cervello Vivente era solida e le mani del giovane professore non riuscivano nemmeno a spostarne un paio di dita. Morire così, dopo tutti quegli scontri, dopo tutte quelle avventure… Che modo stupido! Ormai, inconsciamente, si era quasi convinto che per ucciderlo ci volesse una catastrofe planetaria, non certo un robot da strapazzo che aveva già sconfitto altre volte senza troppa difficoltà. Ma ora sembrava più forte, o era lui ad essere più debole. I pensieri iniziavano già ad annebbiarsi, ma all’improvviso, come quando volava da un tetto all’altro, la sua mente seppe istantaneamente cosa fare. Davanti al rischio di spiaccicarsi, il suo istinto gli disse come comportarsi.

Allungando un braccio riuscì a raggiungere un grosso pezzo di muro a terra, a poca distanza, e lo scagliò con tutte le forze che gli erano rimaste contro la testa del Cervello Vivente, che mollò la presa finendo contro la parete opposta alle finestre. Peter poté così rifiatare e passarsi la mano sul collo, a palparsi i lividi. Ma non c’era tempo per leccarsi le ferite: i ragazzi in fondo all’aula urlavano, ed erano loro ad essere ora principalmente in pericolo. Il Cervello Vivente infatti s’era già alzato, ma nella polvere e tra i detriti sembrava non riuscire a ritrovare il suo obiettivo, girando lo sguardo tra gli studenti impauriti. Peter balzò, non visto, fuori da uno squarcio del muro che dava sull’esterno, e vi rientrò pochi secondi dopo, vestito da Uomo Ragno.

- Ehi, sono qui, Cervellone! – urlò ad un ancora confuso robot, che lo inquadrò subito.

- Obiettivo numero due, identificato: Uomo Ragno – rispose, con la voce meccanica che da lui ci si aspettava, il pericoloso avversario, e azionando i suoi reattori si gettò a tutta velocità sull’eroe. I due sfondarono uno dei pochi frammenti della parete rimasti in piedi, e volarono nell’aria aperta, iniziando il moto parabolico che li avrebbe condotti a sfracellarsi alcuni metri più in basso. Ancora una volta, Peter sentì l’adrenalina scorrergli nelle vene, e la sua mente, abituata alla velocità, diede una serie di ordini istintivi al suo corpo. Un braccio riuscì ad allungarsi verso il muro da cui erano usciti e a lanciare una tela. Un altro moto parabolico si sostituì così al primo, discendente, e portò i due combattenti a sfondare nuovamente lo stesso muro, solo due piani più sotto a dove lo scontro era cominciato. I due caddero a terra, sul nuovo pavimento di una stanza deserta. Peter fece appena in tempo ad accorgersi che si trattava di un laboratorio, quando il suo senso di ragno pizzicò di nuovo.

- Raccontami, Cervellone – disse, mentre scansava l’attacco – cos’hai fatto in questi anni? Credevo ti avessero riconvertito e avessero usato i tuoi circuiti per la Playstation!

L’avversario di Spidey però non rispondeva alle provocazioni, incurante dei sentimenti di rabbia che di solito animavano gli avversari umani di Peter: alzò solo le braccia, nel solito meccanico modo, e sparò due colpi diretti contro il proprio obiettivo. Fu ancora il senso di ragno a salvare il Ragno, che ormai aveva capito la pericolosità del suo avversario. Non era più quel robot di serie B che aveva affrontato anni prima. Qualcuno l’aveva migliorato, perfezionato, e lanciato contro di lui. Ma chi era quel qualcuno? Poteva essere ancora quel ragazzino… Come si chiamava? No, forse no. Forse si trattava di qualcun altro. Quel ragazzino non conosceva la sua identità segreta, non sapeva che Peter Parker… Un attimo: Peter Parker! Aveva attaccato proprio Peter Parker, non l’Uomo Ragno! Non l’aveva già fatto, quel ragazzino? Non aveva cercato di ferirlo, di distruggerlo, rapendo Mary Jane? Sì, se c’era ancora quel ragazzino dietro, allora il Cervello era lì per Peter, non per Spidey.

- Ehi, Cervellone! Guarda che io non sono il tuo obiettivo, io sono l’Uomo Ragno – tentò di spiegargli, mentre le nuove armi del robot lo stavano ormai mettendo al muro. Il Cervello Vivente però continuava ostinatamente a non rispondere, e continuava ad avanzare, tranciando tutto ciò che si trovava tra lui e il ragnetto. I tavoli del laboratorio erano ormai divelti e scaraventati ai lati della stanza, i microscopi avevano rotto le loro lenti, sostanze liquide e gas si mischiavano nell’aria e sul pavimento. L’Uomo Ragno decise di fermarsi, contro il muro opposto alla parete da cui erano entrati, e lì il Cervello lo prese, ancora una volta, per la gola. Anche nel loro precedente scontro Peter era uscito vincitore facendosi credere in trappola, ma questa volta il suo piano era lievemente diverso. Aveva capito che dal Cervello Vivente non avrebbe avuto nessuna informazione, né su quel ragazzo – come si chiamava? – né su altro. Ma lui voleva sapere, e soprattutto sconfiggere quel mostro, impresa che gli stava risultando più difficile del previsto.

La presa del robot era forte e ferma, come quella di pochi minuti prima, ma Peter ora aveva un piano in mente. Con un colpo ben assestato aprì uno sportello, che aveva individuato nel petto di quella nuova versione del Cervello Vivente. Era una sorta di vano comandi, che riusciva a vedere solo di striscio, a causa del polso fermo del suo avversario. Aveva ancora pochi secondi, poi la presa sarebbe diventata insopportabile anche per lui, e il sangue non gli sarebbe più arrivato al cervello. Il vano era pieno di pulsanti colorati, ma in nessuno era indicata la funzione. Tentò il tutto per tutto, premendoli uno dopo l’altro, e così facendo il Cervello Vivente prima lasciò la presa, poi iniziò a parlare.

- Cervello Vivente versione 3.0. Sistema operativo: PetOS versione 1.4. Informazioni del sistema. Periferiche installate perfettamente e perfettamente funzionanti. Programmi in esecuzione: programma Istruzioni, programma Uccidere.

Ci fu qualche attimo di silenzio, durante il quale Peter riprese fiato. Poi alzò gli occhi verso il robot, immobile a pochi centimetri da lui. Non aveva altro da dire? E adesso, cosa avrebbe fatto? L’avrebbe attaccato di nuovo? Il senso di ragno ricominciò infatti a pizzicare e Peter premette velocemente, di nuovo, i pulsanti nel vano aperto in mezzo al petto del robot.

- Programma Istruzioni – riprese, con la sua voce preregistrata, il Cervello Vivente – in esecuzione: istruzione 1: attivare programma Uccidere con obiettivo Peter Parker. Istruzione 2: attivare programma Uccidere con obiettivo Uomo Ragno. Istruzione 3: chiudere i precedenti programmi e attivare programma Rapimento con obiettivo Mary Jane Watson.

Le ultime parole del Cervello Vivente bloccarono per un istante Peter. Rapire Mary Jane? No, non ancora, non un’altra volta. Con una forza inusitata, preso da una rabbia nuova, scagliò un pugno sulla bocca meccanica del robot, che venne scaraventato via oltre il muro e cadde fuori all’aperto. Peter non pensò nemmeno di fermarlo con la tela: era troppo scosso per quanto aveva appena sentito. Mary Jane era in pericolo? Perché il suo tentativo di fare del bene doveva sempre andare a danno di chi gli stava vicino, di chi gli voleva bene? Soprattutto di quelli a cui lui, Peter, voleva bene…

Gli ci volle qualche lungo secondo per realizzare che sotto quel muro c’era una strada abbastanza trafficata. Ma appena se ne ricordò, si precipitò fuori, solo per vedere il rottame del Cervello Vivente spiaccicato sopra una macchina, e i primi soccorsi che cominciavano ad arrivare. Qualcuno lo vide, affacciato alla finestra, e lo indicò. In breve tutti gli sguardi furono su di lui. Anche l’attenzione di un poliziotto appena giunto sul posto fu attirato dal suo costume sgargiante, e Peter fu costretto come molte altre volte a darsi alla fuga senza nemmeno sapere chi c’era in quella macchina e come stava. Il cuore gli sbatteva direttamente in gola, ancora una volta. Mary Jane era in pericolo, e ancora una volta, davanti al pericolo era andato in tilt, aveva commesso un errore. Cosa poteva fare ora? Come poteva rimediare? C’era un modo? Sperava solo che in quella macchina nessuno si fosse fatto male.

Peter Parker non sapeva che in quell’auto c’erano due persone, due giovani studenti dell’università: Jake Dorman e Lynda Stuart.

 

Intanto, altri due fatti importanti stavano accadendo, in città, fatti che avranno ripercussioni sulla nostra storia. Un giovane uomo, sui vent’anni, stava intrattenendo Mary Jane Watson nel di lei salotto, raccontandole di essere stato amico di Peter, molti anni prima, quando suo marito era un’adolescente e lui solo un bambino. Si era presentato dicendo di essere tornato in città dopo molti anni, e di aver avuto da amici comuni il loro indirizzo. Si era fatto raccontare come andavano le cose, si era fatto mostrare la bambina, aveva adulato la “bella moglie del mio amico”, dicendo che Peter era un ragazzo molto fortunato, che lo era sempre stato. Quello Steve, però, pur dietro una barba non fatta e quei capelli lunghi, aveva una faccia che risultava molto familiare a MJ. Forse – pensava, per rassicurarsi – l’aveva visto in qualche album di fotografie di Peter.

 

Da tutt’altra parte della città, invece, un bambino stava uscendo da solo dal condominio dove viveva, con indosso il suo zainetto. Quella mattina non era andato a scuola, perché aveva detto a sua madre di non sentirsi bene. Suo padre era andato al lavoro, mentre la madre era andata a fare la spesa al vicino mini-market. L’aveva messo ben sotto le coperte e gli aveva detto che sarebbe tornata presto. Rob, invece, s’era vestito in fretta e aveva controllato, dalla finestra, che sua madre fosse entrata nel negozio. Poi se n’era uscito.

 

CONTINUA

 

 

Note: secondo episodio di “Amore che vieni, amore che vai”, con il ritorno del Cervello Vivente e lo scontro con l’UR. Le vecchie conoscenze del titolo della storia sono molte. Qualcuno vuole provare a indovinare quante e quali?

 

Prossimo numero: inizia la ricerca di Rob e scopriamo cos’è successo a Jake e Lynda.