MARVELIT. PRESENT:

 

 

RAGNO NERO  #15

 

 

Situazioni 1

 

 

Il silenzio perdurava da troppo tempo. Feng si spostò dall’immaginaria linea retta che partiva dal centro del suo petto quel tanto che bastava per evitare l’improvviso assalto dell’assassino fino ad un attimo prima nascosto tra le ombre, per poi rientrarvi, superandone così le difese e colpendo lungo la linea settoria quella porzione di carni, pelle ed ossa tra il naso e il labbro superiore. I pugni a catena di schiantarono dal basso verso l’alto, portando con sé la potenza che nasceva dalla terra e ai cieli saliva.

Si sentì un sinistro rumore, qualcosa che veniva frantumato, schegge che costrette, indietreggiavano nel buio anfratto del cranio.

Rapido, girando sui talloni e facendo basculare leggermente il bacino, si trovò frontale al complice dell’uomo appena ucciso che aveva tentato di prenderlo alle spalle. Un calcio ruppe il ginocchio e la mano mandò fuori della traiettoria il pugno diretto verso il suo volto. Lo lasciò scivolare leggermente di lato, in modo da scoprirne la guardia mentre il piede s’insinuava tra le gambe, sbilanciandolo. Il resto fu rapido e relativamente semplice.

9 secondi, pensò con un certo fastidio Feng. Era durato anche troppo. Non doveva mandarla così alle lunghe ma era stanco ed i suoi riflessi cominciavano a risentire di quell’interminabile fuga che da durava da settimane e che da New York City aveva portato lui ed il suo padrone prima nel Nevada ed ora nel Delaware.

Non perse tempo ad imprecare ma corse subito al terzo complice che fino a poco prima se ne era rimasto acquattato dietro una vecchia poltrona alla francese. Silenzioso e veloce. Doveva ammettere che il ragazzo aveva del talento per l’omicidio e se avesse vissuto di più sarebbe potuto divenire un maestro in tale antica e raffinata arte. Tuttavia non poteva certo graziarlo per una questione di simpatia. Nessuno doveva sopravvivere ad uno scontro con lui era la regola della propria scuola ed era uno dei motivi per cui era sopravvissuta attraverso i secoli custodendo con successo le proprie tecniche segrete. Chi era lui per mettere a rischio una tradizione secolare? E soprattutto, particolare non trascurabile, non voleva certo terminare la propria vita lì, in quella maniera. Gli antenati possono aspettare, soleva ripetersi per sdrammatizzare quando si apprestava ad affrontare una situazione pericolosa.  L’ambiente, il secondo piano di un vecchio hotel della piccola cittadina di Queensburg, era a forma di L, con dieci finestre sulla sua sinistra e altrettante porte dall’altra parte. Il soffitto era basso e non c’era molto spazio. La poltrona in questione era situata proprio all’angolo del corridoio più breve e di fianco c’era un basso tavolino di compensato verniciato per dare l’illusoria idea del legno massello. L’ambiente era scarsamente illuminato ma i suoi occhi si erano adatti e gli erano bastati pochi sguardi per prendere subito le misure. L’altro era armato di pugnale, sembrava un doppia lama di fabbricazione americana: sicuramente realizzato in fibre; non lo avrebbe mai ammesso con nessuno ma apprezzava quel tipo d’arma. Molto poco cinese avrebbe commentato qualcuno. Già, perché se pur criminali, erano sempre dei buoni figli della madrepatria. Lui invece guardava molto all’aspetto pratico delle cose: se una cosa funzionava che importava di che posto fosse; il ragazzo, un tipo sulla 25ina, fisico asciutto e muscoli piuttosto tonici come poteva vedere grazie agli abiti aderenti, pareva saperlo usare bene. Indietreggiare avrebbe significato dargli solo il vantaggio di condurre il combattimento. Doveva avanzare. Non doveva ridursi al ruolo di aggredito ma doveva divenire egli stesso aggressore. Questo era uno dei fondamenti del suo addestramento. Se avesse però tentato l’approccio della linea retta per disarmarlo, avrebbe dovuto sacrificare una braccio rimanendo sicuramente ferito.

Tentò un approccio inatteso. All’ultimo, pochi centimetri di distanza, si dette una spinta verso l’altra cupide del muro e con la potenza della gamba il cui piede si era appoggiato sopra si proiettò in avanti facendo scattare il braccio destro come una molla e colpendo come se fosse stato una specie di boxer volante. Il brusco movimento a zig zag aveva effettivamente disorientato l’altro e che poté solo accusare il colpo diretto al naso ed incespicare all’indietro. Feng prese con un fluido movimento una rivista che stava sul tavolino, la arrotolò con gran velocità e colpì la mano armato dell’altro costringendola verso il basso. Subito infilò il braccio libero nello spazio a croce creatosi e con la tecnica del serpente eseguì una leva che fece perdere il pugnale al suo opponente. Con un rapido calcetto a spazzata la allontanò e a quel punto fu solo questione di un paio di secondi e si prese la vita del giovane.

 

Era stata una buona idea quella di far attendere Jin Go in una vecchia Honda dell’86 che aveva comprato in contanti da un concessionario dell’usato di Atlanta, durante il loro viaggio per seminare eventuali inseguitori, così come quella di pagare un uomo che aveva una certa somiglianza con il suo protetto per portarlo all’incontro con Hung, il suo vecchio amico. Hung era morto e la controfigura anche. Un colpo di pistola per tutti e due. Il killer non era stato così fortunato con lui. Avrebbe dovuto tentare di eliminarlo subito ed invece si era dedicato subito a quello che gli avevano detto essere il bersaglio principale. Nel passare davanti alla stanza vide il corpo riverso in terra, l’espressione di paura e stupore congelata sul viso, il sangue che se ne veniva fuori dal buco sulla fronte.

Il vestito, le scarpe e il taglio di capelli erano stati un ulteriore spesa ma aveva dato i suoi buoni frutti anche se contava di poter parlare con il vecchio Hung per trattare il ritorno di Jin Go a New York. Evidentemente non godeva più degli stessi favori presso il consiglio delle famiglie se avevano deciso di eliminarlo così.

Mi dispiace per te. Le nostre partite a scacchi mi mancheranno parecchio.” Non era mai stato bravo con le orazioni funebri. Non era mai stato molto bravo con i discorsi in generale ma sapeva che Hung non era tipo da formalizzarsi troppo e che il suo spirito avrebbe comunque apprezzato quelle parole. Lanciò un ultima rapida occhiata alla stanza dove i tre cadaveri stavano e se ne allontanò, evitando uno dei tre che invece aveva lasciato nel corridoio. Scese lungo le scale con una certa fretta, sapendo che i rumori avevano allertato i proprietari e che ormai era inutile tentare di passare inosservati. Un uomo di mezza età, piuttosto massiccio, che prima aveva visto alla reception tentò di sbarrargli la strada ma lui, e il flusso di domande che stava fuoriuscendo dalla sua bocca, furono fermati subito da uno sguardo eloquente di Feng.

“Oh mio Dio…” mormorò avvedendosi di alcuni schizzi di sangue sulla giacca che la guardia del corpo indossava.

Pochi minuti e la polizia sarebbe stata lì.

Prese una strada in discese che si inoltrava nella parte industriale della città. Fiancheggiò una serie di bassi e squallidi caseggiati di mattoni, talmente schiacciati l’uno contro l’altro da lasciar pensare che si reggessero in piedi per la reciproca forza di spinta. Erano coperti da una patina di sporco così scura da non lasciare la possibilità di immaginare, a chi li osservava, che ci fosse stato un tempo in cui avevano posseduto dei colori vividi e persino allegri.

Alcuni bambini giocavano in strada a saltare la corda ed uno che aspettava il suo turno, un monello di sei o sette anni, fissò Feng con aria incuriosita per via dell’aspetto dell’uomo. Feng gli rivolse un sorriso gentile e gli strizzò l’occhio facendolo sorridere a sua volta e continuò ad allontanarsi mentre le sirene della polizia cominciavano a riecheggiare nell’aria.

Jin Go non ne sarebbe stato soddisfatto ma almeno adesso potevano essere sicuri che Hung non poteva essergli di alcun aiuto. Tang Long pareva essere rimasta la loro unica speranza.

Il Sole cominciò a fare capolino tra i nembi  e Feng lo salutò allegramente reclinando leggermente il capo e accogliendo con gioia i caldi raggi che gli colpirono il volto.

 

 

 

New York City, Queens, Casa di Patricia – Venerdì ore 8.00 a.m.

 

Lei era ancora lì, dove l’aveva lasciata la sera prima. Girata su di un fianco, le mani congiunte tra le sue, il volto sereno, la bocca leggermente aperta e alcune ciocche che le cadevano deliziosamente sul volto. Baciò delicatamente le sue nocche, assaporando la fragranza della sua pelle e sentì come una morsa alla gola al solo pensiero di doversi allontanare. Quanto poco la conosceva eppure già la sentiva una parte di sé. La parte più bella pensò. Lo faceva sentire così autentico, così vero, così sicuro di ciò che era in quel momento. Il cacciatore psicopatico e spietato che era stato gli pareva un assurdo ricordo. Un particolare fuori posto del suo passato, qualcosa di talmente distante da fargli dubitare fosse mai stato reale. Possibile che la sua vita fosse stata per così tanto tempo quello? Con tristezza dovette ammettere che era stato proprio così ma sapeva che era da imputare in larga parte ai disturbi nervosi dovuti alla degenerazione cellulare di cui aveva sofferto. Già, eppure non si sentiva sollevato neanche un po’. Forse avrebbe dovuto opporsi alla follia che lo avvelenava ma più di una volta aveva avuto il sospetto che invece vi si fosse abbandonato completamente, forse per dimenticare i dolori e gli orrori della sua vita di clone. Ora invece questo era finito. Aveva una vita, una vita vera e non era una mera copia ma un essere dotato di una sua personalità bene definita e di un destino che stava forgiando giorno dopo giorno. Nel suo futuro voleva anche Patricia, con i suoi sorrisi, le sue gentilezze, il suo modo di scherzare buffo e divertente, i suoi consigli saggi e le sue parole intelligenti e tutto ciò di lei che lo aveva fatto inevitabilmente innamorare di le lei.

Era felice in quel momento. Questa era la semplice e, fortunatamente, inevitabile realtà.

Era felice anche per il ritorno a casa di Peter. Poter riabbracciare il fratello che aveva imparato ad amare così tanto e soprattutto vederlo riabbracciare la cognata e la nipote gli aveva smosso qualcosa dentro come mai avrebbe potuto pensare possibile.

C’erano tante cose di cui voleva parlargli. Chiedergli aiuto su molte faccende ma sapeva che doveva dargli il tempo per riposarsi un po’ e riprendersi da tutto quello che gli era capitato.

Persino il ritorno in patria era stato difficile: finire nel bel mezzo di un dirottamento aereo; non gli aveva chiesto nessun particolare ma sapeva che se erano tutti vivi lo dovevano proprio alla presenza in incognito dell’Uomo Ragno.

Il vecchio tessiragnatele rosso e blu era tornato in città e questo lo fece sentire improvvisamente più sicuro di sé stesso.

Chissà come avrebbe reagito sapendo che ne aveva indossato per un po’ i mutandoni colorati. Purtroppo il sorriso sul suo volto morì quasi subito ripensando alla morte di Scorpia.

Non sarebbe dovuta finire in quel modo. Provò un moto di rabbia nei confronti di Kuroi Neko ma subito si acquietò fissando nuovamente i dolci lineamenti della donna che amava.

Lui e il fratello avrebbero unito le forze, lavorando in coppia e questo era un gran bene. Forse dovevano pensare ad un nome come l’arcnideo duo, o i gemelli ragnatela… stavolta non trattenne una risatina e Patricia si agitò leggermente.

“Complimenti. Adesso la svegliamo proprio quando ha un paio di giorni liberi per dormire e recuperare lo stress delle passate settimane.”

Sapeva che la sua entrata nella sua vita l’aveva sconvolta, specie per la recente perdita dell’amata zia.

Era così assurdo pensare che un evento tanto triste avesse potuto essere quello da cui sarebbe nato qualcosa di così bello, così puro.

Senza quasi rendersene conto, una lacrima sgorgò rigandogli una guancia e bagnando leggermente il cuscino su cui teneva il capo.

 

I due rapinatori erano entrati dentro il market con passo deciso e quasi subito il proprietario aveva capito dalla loro andatura e dalle loro espressioni che stava per presentarsi una situazione pericolosa. Purtroppo aveva tolto la sua pistola da sotto il bancone per darle una pulita ed era rimasta smontata sul tavolino del retro bottega. Digrignò un istante i denti quando si trovò a fronteggiare la canna segata di un fucile a pompa.

“Fuori tutto figlio di puttana oppure…”

“Ho capito l’antifona.” Rispose calmo. Non era la prima volta che si trovava in quel tipo di situazione e sapeva come comportarsi. Tentare di fregarli sarebbe stato solo sciocco ed inutile.

Non voleva rischiare di finire su di un tavolo d’acciaio per una questione di soldi.

Con movimenti lenti e misurati aprì la cassa e cominciò a mettere un sacco che l’altro balordo gli porgeva l’incasso.

“Anche quello che hai dentro lì!” Disse a denti stretti quello armato indicando per un istante con l’arma la cassaforte nascosta dalle lattine di birra.

O conoscevano il trucco, o conoscevano il locale. Le facce non gli erano nuove ma di tossici e delinquenti ne giravano parecchi intorno al suo negozio. Loro sembravano appartenere ad entrambe le categorie. Brutta e pericolosa combinazione. Quello disarmato aveva il respiro pesante e sudava freddo: i primi sintomi della scimmia si disse; il volto era scavato, i denti ingialliti e marci, gli occhi parevano dover cadere all’interno delle orbite da un momento all’altro e c’erano delle vene azzurre che pulsavano ritmicamente sulle tempie, abbigliato con  un giaccone militare piuttosto trasandato e dei pantaloni di velluto viola scuro sporchi e laceri. L’altro, barba mal rasata a parte, pareva invece piuttosto padrone di sé. Ho non si faceva o si era fatto da poco a giudicare dall’aspetto. Scostò le lattine due alla volta e si chinò per inserire la combinazione. Avrebbe dovuto mettere un arma nella cassaforte, come gli aveva consigliato suo cugino Lou. Ora se ne stava accovacciato sul pavimento lercio del suo negozio e in quel frangente gli sembrava assurdo preoccuparsi delle pessime condizioni in cui vessava e del fatto che la donna delle pulizie non pareva compiere bene il dovere per cui era pagata.

La porta si spalancò all’improvviso, facendo suonare i campanelli.

Malcom Carter era uno studente fuoricorso di letteratura inglese presso l’E.S.U. Era un tipo come tanti, capelli rossi portati cortissimi, pizzo che si era fatto crescere per dare al suo volto da bambino un aria più adulta ed importante, camicia a mezze maniche e pantaloni di tessuto sintetico di una taglia più grande di quanto avrebbero dovuto, converse bordeaux ai piedi.

La vita divisa tra lo studio, poco e saltuario, le liti con i genitori che minacciavano di tagliargli i vivere, parecchie e continue, i lavoretti part-time, un numero incalcolabile che terminava sempre con il suo licenziamento, per comprare l’erba, che non mancava mai in casa sua, e i divertimenti con i suoi amici, con cui era sempre a caccia di donne.

Era il prototipo dell’americano medio di 24 anni, senza troppo aspirazioni e senza la minima voglia di prendersi le proprie responsabilità. Aveva solo il desiderio di tenersi care le proprie abitudini tra cui quella di passare al market vicino l’appartamento che divideva con altri quattro ragazzi per prendersi una diet coke.

Il rapinatore armato si era voltato improvvisamente, spaventato per il rumore, convinto trattarsi di un poliziotto di ronda che aveva visto tutto. Non voleva finire dentro. Non erano questi i suoi programmi. Voleva solo andarsi a fare un po’ di roba buona. Rientrare in carcere, dopo quello che quegli appartenenti ad una gang di negri di Harlem gli aveva combinato non era ammissibile.

Malcom Carter non capì bene cosa successe, nemmeno quando udì la violento sparo del fucile.

 

Ragno Nero aveva imprecato vedendo entrare il giovane. Stava per lanciarsi sul tetto dell’edificio, imboccare una presa d’aria e dirigersi più velocemente possibile sulla scena della rapina. Non voleva fare il suo ingresso dalla porta principale perché sapeva che sarebbe potuto partire un colpo e magari ferire un passante.

Invece quel ragazzo aveva rovinato tutto.

Lo prese alle spalle, colpendolo leggermente dietro le ginocchia in modo che si sbilanciasse e cadesse all’indietro così da evitare il proiettile che, fortunatamente si infisse in un muro senza colpire nessuno. Fermò la sua caduta con il proprio corpo e nel frattempo aveva già spruzzato della tela sulla canna dell’arma rendendola inutilizzabile.

Scaricò quasi subito il ragazzo e con una spinta delle reni si rimise rapidamente in piedi scattando come una molla. Il rapinatore più magro estrasse un taglierino la cui impugnatura sembrava di tipo artigianale: uno spago e dello scotch avvolti fittamente intorno al metallo; tentò di tagliuzzarlo ma Ragno Nero era decisamente un bersaglio fuori dalla sua portata. Lo colpì con il taglio della mano sul braccio, usando solo una piccolissima frazione della sua forza.

Quello emise un gemito strozzato e lasciò subito cadere il coltello. Si accasciò in terra piagnucolando e supplicando di non fargli del male. L’altro aveva tentato subito la fuga imboccando la porta che conduceva al vicolo sul retro. Corse con tutta la forza che gli consentivano i propri muscoli e si ritrovò in uno stretto e sporco passaggio che conduceva sulla 18ettesima.

C’era una rete che divideva il vicolo in due e con le ultime forze tentò di scavalcarla. Quando, con soddisfazione, riuscì a giungere dall’altra parte e si voltò trovò un volto nero come la pece e due grandi occhi di specchio che riflettevano la sua immagina terrorizzata. Una leggera pressione sul nervo del plesso solare e cadde in un sonno senza sogni.

 

Grazie, gli aveva detto balbettando il ragazzo a cui aveva salvato la vita una volta resosi conto di quanto aveva rischiato quel giorno.

“Ora è meglio che tu vada.” Gli fece asciutto il proprietario riferendosi alle sirene. Ragno Nero era tornato indietro per sincerarsi che tutti stessero bene e nessuno si fosse ferito. Inoltre voleva assicurarsi che il rapinatore steso all’interno del locale non potesse svignarsela.

“Ottimo suggerimento, capo.” Fece con un cenno della mano.

“Comunque, gran bel lavoro figliolo.” Ribatté l’altro con un sorriso sul viso.

 

Anche se la situazione dell’Uomo Ragno con le forze dell’ordine di N.Y.C. era di fatto migliorata negli ultimi tempi, non voleva forzare la mano, senza contare che effettivamente lui non era il tessiragnatele. Almeno non quello rosso e blu. Un agente troppo zelante o poco simpatizzante di paraumani avrebbe potuto crearli problemi. Ricordò quando si scontrò con il Demone la prima volta il poliziotto che pareva propenso ad inchiodarlo a terra con almeno quattro o cinque proiettili.

 

 

Kyoto, Giappone – Venerdì ore 9.00 p.m.

 

Aoi Ryu stava seduto a gambe incrociate mentre assisteva all’antica e sempre affascinante danza del cambio di stagioni eseguita dalla geiko e dalla maiko che aveva ingaggiato. La coreografia era costituita da un insieme di movimenti di per sé molto semplici ma estremamente difficili da proporre nelle difficili sequenze della danza. Le ragazze si muovevano con leggerezza e assoluta sicurezza di sé. Prese un sorso di sakè mentre sentiva lo struggimento farsi largo nel suo cuore. Amava profondamente quello spettacolo e da esso si sentiva profondamente toccato. La suonatrice stava facendo vibrare le corde dello shamizè con consumata abilità, e se inizialmente gli era parsa discutibile, anche se non aveva detto nulla per buona educazione, la scelta di uno strumento dall’accordatura così autunnale, ora apprezzava a pieno la scelta di quegli accenti così pacati e vagamente velati per un qualcosa di tanto delicato e commovente.

Voleva fissare in sé quel momento di perfetta armonia, e per un attimo, con tristezza, si chiese quando ne avrebbe potuto vivere più uno simile e se mai ci sarebbe stato.

Scacciò subito via dal proprio animo tale fosco pensiero ricordandosi che non era né bene, né utile avvelenarsi la mente in quel modo.

Ikura scivolò silenziosamente nella stanza, così da non turbare l’atmosfera che ivi si era venuta a creare, quasi fosse un oasi di pace nel mezzo della follia del mondo.

Attese che fosse il suo signore ad interpellarlo e quando gli fece un cenno con il capo, dopo che la danza fu terminata ed ebbe applaudito alla straordinaria bravura delle geishe e le ebbe fatte uscire con gentile richiesta parlò: “ Mio Signore, tutto è stato predisposto così come desideravate.”

“Loro?”

“Sono in un luogo sicuro.”

“Qualcuno sospetta?”

“Ad eccezione di me, Suzuara e Narisa nessuno sa della loro esistenza.”

“Me ne compiaccio.”

“La notte del consiglio delle famiglie si appresta.”

Aoi Ryu lanciò un malinconico sguardo fuori dalla finestra. L’aggraziata figura di un pesco sfidava l’oscurità che pareva volesse inghiottirlo per sempre nelle proprie viscere.

“La notte… si, s’appresta e con essa il momento in cui questo lungo inganno avrà termine.”

“Mio signore…”

“Non dire nulla. Facciamo solo ciò che è necessario, né più, né meno.

Questo però non vuol dire che questo mi piaccia. Se potessi, farei rientrare immediatamente Saguro dagli Stati Uniti.”

“Lo so, lo so. Mi rendo perfettamente conto dei vostri sentimenti mio Signore ma voi sapete benissimo quali siano le posizioni di Taro nei confronti di Yu Tora.”

“Il nostro vecchio ed onorato padre, fece in tono che tradiva un forte disprezzo non ha mai capito chi gli fosse realmente fedele e chi no ed è per questo che punì quella che lui considerava sfrontatezza cacciando il più fedele dei propri figli. Povero Taro, il cui crimine è stato di aver amato troppo un genitore miope come il nostro.”

“Inoltre, mio Signore, tenere lontano dal Palazzo degli Spiriti Akai Kuni è fondamentale.  Sapete di quali intrighi è capace e nascondere ciò che stiamo preparando ai suoi occhi sarebbe stato difficile.”

“Se Taro pagherà il prezzo del rinnovamento con la sua stessa vita, ti giuro, oh mio fedele servitore, che anche Saguro pagherà e dieci volte tanto…”

Le Stelle parvero brillare, solo per qualche istante, con intensità maggiore, quasi a voler partecipare allo struggimento interiore dell’uomo che stava conducendo per mano la morte nella propria famiglia.

Hijiro, figlio di Hidetora, sentì le lagrime premere con forza al confine degli occhi per guadagnarsi una via verso l’esterno e solo la sua grande forza d’animo gli impedì di piangere innanzi alla tragedia che stava per consumarsi e che lui stesso, da anni, stava ordendo.

 

 

Casa di Darren, Greenwich village, N.Y. – Venerdì ore 9.00 a.m.

 

 

 

Ultimamente si era chiesto quanto avrebbe retto ai quei ritmi massacranti che si stavano imponendo nell’ultimo periodo. Il suo sguardo cadde sul letto fino a dove poco prima riposava la sua Jeanny e si dissi “fin quando lei e tutti non saranno veramente al sicuro”. Forse sarebbe occorsa una vita intera o forse anche di più ma questo non aveva alcuna importanza. Avrebbe compiuto il proprio dovere sino in fondo e anche oltre se necessario.

“Dio mio, papà… come vorrei che tu fossi ancora qui.”

Si stropicciò gli occhi e proprio in quel momento sentì la chiave girare nella serratura.

Daryl fece il suo ingresso con un sacchetto della spesa sotto braccio.

“La colazione” annunciò con una certa allegria alla quale lui replicò con un flebile sorriso.

“Hai una brutta cera. Perché non ti misuri la febbre?”

Suo fratello era sinceramente preoccupato e non poté far a meno di considerare che per quante ne avessero passate, nonostante tutto quello che gli fosse occorso o quanto fossero cambiati entrambi durante quei tragici e dolorosi anni, era sempre lì, pronto ad accudirlo e difenderlo se ce ne fosse stato bisogno.

Era questo il motivo per cui i loro contrasti gli pesavano non poco. Sapeva che erano frutto della tensione e del desiderio di vendetta nei confronti di chi li aveva orribilmente defraudati di tutto.

“Si. Ho solo qualche linea di alterazione. Nulla di preoccupante.”

“Oh, dannazione. So io da cosa sono dovuti. Dovremmo ricontrollare il sistema termoregolante della tua…”

“Shhh…” fece Darren con un gesto eloquente.

“Jeanny non è andata all’università?” Fece preoccupato l’altro, senza però emettere un singolo suono.

“Si ma preferisco non parlare di queste cose nell’appartamento. So che hai fatto un ottimo lavoro per isolarlo acusticamente e schermarlo da eventuali microfoni direzionali, però amo considerare questo posto una sorta di rifugio da…”

Si  bloccò un istante per trovare le parole adatte ma fu il suo gemello a continuare la frase per lui:

“… da quello che facciamo.”

“Non fraintendermi, non ho cambiato idea su quello che insieme abbiamo deciso di affrontate. Considero la nostra missione fondamentalmente giusta, anche se delle volte io e te non abbiamo le stesse opinioni sul modo di portarla avanti.”

“È solo una questione di punti di vista. Sono consapevole del fatto che non ti sei mai tirato indietro e tu stesso stai sacrificando tanto per il nostro obiettivo. Non fraintendere quello che sto per dirti, ma se anche un domani tu volessi ritirarti, io non te ne farei una colpa.”
” Non lo farò.”

“Si, lo so. Comunque delle volte penso al fatto che tu abbia Jeanny nella tua vita e forse dovresti pensare a lei e lasciarti tutto alle spalle. Forse dei due sono io che non riesco a dimenticare il passato quando invece è quello che dovrei fare.”

“Nessuno di noi due può farlo. Io vado dove vai tu e non ti lascerò mai solo. E poi, il mio maestro, mi diceva sempre: “è la perseveranza che fa il cacciatore”.”

“Il mio era meno filosofico. Deve essere stato una persona molto interessante. Lo hai mai rincontrato?”

“No. Anche se ho avuto la curiosa sensazione di averlo rivisto, e proprio di recente.”
”Ti ha mai detto a chi dava la caccia?”

“Si: all’uomo che voleva distruggere la vita a suo fratello…”

 

Darren e suo fratello uscirono di casa, prendendo un taxi e dando l’indirizzo dove volevano essere portati: “Police Plaza per piacere.”

 

 

Queens, New York City. Sede della Associazione Serenity – Sabato ore 2.20 a.m.

 

 

Aveva adocchiato da un po’ i due ai quali si era unita una ragazza con un costume blu scuro. I primi si erano fatti prendere alla sprovvista mentre lei era sembrata essere piuttosto abile nell’arte dell’agguato.

Sorrise sotto la maschera pensando che se c’era qualcosa di comico erano i così detti super eroi in erba.

Così acerbi, così fiduciosi nel futuro. Chissà se si sarebbero fatti ammazzare? Troppo giovani ed inesperti, almeno due di loro, per entrare in posto tanto sorvegliato come lo era la sede della Serenità senza farsi scoprire.

Aveva torchiato diversi esponenti della malavita per sapere il luogo dove si nascondeva la Human Family, un elemento di cui sapeva poco e che poteva scombinare i suoi piani a lungo termine.

Scoprirne i segreti per poterli riutilizzare in futuro era l’applicazione della sua filosofia di vita: giocare d’anticipo;

però il terzetto che stava osservando avrebbe potuto rovinare tutto.

Si disse che tutto sommato non gli importava e che voleva vedere come sarebbe andata a finire.

Si rimproverò che ultimamente stava giocando un po’ troppo d’azzardo. Un azzardo era aver deciso di continuare nella sua alleanza con Armada e Bestiario. Pareva ormai del tutto chiaro che questi, nella loro ossessiva purga di paraumani e mutanti che si erano macchiati di crimini, avevano perso d’occhio il vero obiettivo. Colpire la microcriminalità poteva anche dare qualche soddisfazione momentanea, non lo negava ma era come la proverbiale fatica di Sisifo: un impresa infinita ed infruttuosa; era al cuore del problema che si doveva andare e colpire duro.

No, erano fuori controllo ormai e del tutto inaffidabili e in special modo Bestiario gli era apertamente ostile, soprattutto sulla questione degli eroi. Era così ingenuo. Come un bambino che si ostinava a credere che il mondo potesse essere tutto bianco o tutto nero. Se c’era una verità in cui lui, invece, aveva imparato a credere era che non esistevano colori netti se non nelle chiacchiere delle persone. Quella massa di radical chic che si era arrogata il diritto di difendere il prossimo guidata dai propri così  detti principi morali cosa aveva ottenuto?

Non stava dunque facendo lo stesso errore proprio dei due ex alleati? La loro lotta aveva prodotto qualche effetto positivo nei primi anni della loro comparsa ma poi, tutto quello che ne era venuto fuori, era un maggior accanimento della comunità criminale che aveva cominciato ad usare mezzi sempre più sofisticati e pericolosi per eliminarli. La popolazione dei super criminali era cresciuta esponenzialmente ed ormai tutto quello che gli eroi facevano era combattere per tentare di arginarla, impresa che ogni giorno pareva più disperata.

Pensò a cosa avrebbero potuto fare i soli Vendicatori a New York se anziché perdere tempo in feste di beneficenza o apparizioni tv, tra una missione per la salvezza del mondo e l’altra, avessero preso per la collottola i signori della mafia della Grande Mela e gli avessero dato il ben servito che meritavano.

No, non era nel loro stile. Provò un moto di disprezzo per quegli ipocriti.

Non era nel loro stile. Ma chi erano loro per arrogarsi il diritto di limitare le proprie azioni con dei principi morali quando con la propria forza avrebbero potuto salvare migliaia e migliaia di vite spezzate dal crimine.

Gli eroi erano del tutto inaffidabili, capaci solo di complicati balletti al suono della sinfonia della vendetta con le loro controparti criminali.

Il mondo aveva bisogno di uomini determinati come lui ed era per questo che aveva una speranza di vittoria.

Il Demone gettò un’occhiata compiaciuta al tetto poco distante, vedendo che i tre avevano deciso di passare all’azione.

 

 

Casa di Cindy Delgado, Manhattan, N. Y .C. -  Venerdì ore 11.00 a.m.

 

 

Sarebbe arrivato molto prima se non fosse stata per quella rapina che aveva sventato. Quella di prestare la massima attenzione a tutti i particolari durante un semplice spostamento, come se si trattasse di una ronda vera e propria era una irrinunciabile abitudine frutto del suo inossidabile senso di responsabilità pensò prendendosi un po’ in giro.

La vedeva Malone si era trasferita in residence di lusso, uno di quei posti in voga tra la così detta bella gente di Manhattan che amava non farsi mai mancare niente ed essere sempre alla moda, qualsiasi essa fosse stata.

Gli aprì la porta poco dopo aver bussato e lo accolse con un sorriso a dir poco radioso. Cindy Delgado, 36 anni di cui almeno 15 di palestre e diete si muoveva con l’aria di chi nella vita aveva partecipato a diversi concorsi di bellezza e ne aveva vinto almeno un paio. Alta 1.72, un seno frutto dell’abile e discreto lavoro di un chirurgo che doveva aver fatto una capatina anche dalle parti delle cosce e dei glutei, lineamenti belli anche se il trucco e l’acconciatura gli conferivano un aspetto standardizzato, uguale a quello di tutte le donne che potevano permettersi un certo tenere di vita. Le labbra però doveva ammettere che erano particolarmente belle: carnose senza risultare eccessive; avevano una linea morbida, accattivante, seducente persino. Avevano l’aria di essere naturali e che la loro proprietaria ci tenesse particolarmente a sfoggiarle senza scadere però nel volgare. Il rossetto era di un colore tenue appena percettibile.

Lei lo invitò educatamente ad entrare e lui s’avvide subito che ciò che esprimeva il suo modo di vestire, i gioielli e il trucco era riflesso anche dal gusto nell’arredamento.

Era moderno senza però quegli eccessi pacchiani in cui spesso gli arredatori scadevano e al contempo classico ma privo di pomposa pretenziosità.

Bianco panna, celestini pastello, rosa pesco.

L’accostamento cromatico gli piaceva in modo particolare.

C’era qualcosa di vagamente ipnotico nel ritmico alternarsi di colori, come una filastrocca visiva tutta geometrie e sfumature che gli si insinuava nel cervello lentamente ma inesorabilmente.

Fu sorpreso da quel pensiero e scotendosi leggermente rifletté sul fatto che non era la prima volta che gli capitava.

Alcuni animali rimanevano disorientati dalle luci riflesse dagli specchi.

C’erano poi diversi insetti attratti dai neon o da un colore particolarmente acceso.

Ed i ragni? Non aveva mai considerato questo aspetto.

Il piccolo ragno mutato che aveva morso Peter probabilmente non solo gli aveva passato le sue straordinarie facoltà ma anche gli atavici punti deboli.

“Allora, signor Fitzpatrick. Cosa posso fare per lei?”

Se era in qualche modo affranta per la recente scomparsa del marito non lo dava di certo a vedere.

Eppure Felicia, quando aveva avuto il colloqui con lei, l’aveva descritta come appartenente alla categoria C delle donne tradite.

La A erano quelle rassegnate, quelle che preferivano nella maggior parte dei casi non sapere od ignorare addirittura l’evidenza. Questo genere di donne solitamente viveva la propria condizione come una sorta di eroico martirio per la difesa della sacralità del matrimonio. Soffrivano nella maggior parte di vittimismo e al contempo di un certo egocentrismo.

Negli ultimi anni questa tipologia di tradita era andata drasticamente diminuendo.

La B erano quelle che arrivavano ad incolpare sé stesse, e solo sé stesse per il tradimento subito. Insicure croniche, bisognose continuamente di conferme e di appoggiarsi a qualcuno, fosse anche qualcuno che le picchiava da mattina a sera, avevano un pessimo rapporto con sé stesse e una scarsa percezione della propria vera identità, una personalità remissiva e facilmente influenzabile. Anche questa categoria era molto diminuita.

Il tipo C era detto anche ferro e fuoco e si divideva in due sottocategorie, C1 e C2.

C1: Le C1 erano nitroglicerina ambulante. Gelose fino allo spasmo, esplodevano anche al minimo sospetto e solitamente risolvevano i propri problemi con il classicissimo lancio di piatti.

Percentuale delle C1 in netto calo.

C2: La C2 era simile alla C1 ma riusciva a dominarsi quel tanto che bastava per trasformare la sua cieca furia in voglia di vendetta, ovvero desiderio di mettere in condizione di inferiorità il fedifrago, rivolgendosi spesse volte ad investigatori privati per avere tutte le prove necessarie ad assicurarsi la massima posizione di vantaggio durante una richiesta di alimenti a seguito della separazione o del divorzio.

Però esisteva un’altra categoria. La mandragora. Così la chiamava Felicia. Erano quel tipo di donne che assomigliava molto alle C2 se non fosse stato per la totale assenza di qualsiasi sentimento nei confronti del coniuge o del partner. Non c’era nessuna traccia d’amore né c’era mai stata. Si trattava per lo più di opportuniste che si erano sposate solo per interesse che una volta vista una possibilità di guadagno superiore al matrimonio, la sfruttavano senza indugio alcuno e, un buon numero di volte, erano esse stesse a creare l’occasione.

Fredde, astute, determinate. Sempre secondo la datrice di lavoro di Kaine erano persone con un forte senso dell’ordine, sicure di sé senza essere eccessivamente arroganti, abili e diplomatiche nel trattare e rapide nell’adattarsi a situazioni difficili.

Erano pericolose perché capitava che in alcuni casi si trasformassero in vedove nere.

Kaine, scrutandone con aria volutamente distratta la figura, e ascoltandone il tono studiatamente cortese, ebbe l’impressione di trovarsi di fronte ad una vedova nera. Simile riconosce simile? Pensò con un sorriso mentale.

“La voglio ringraziare innanzitutto per avermi ricevuto, signora Delgado. Rispose gentilmente, fissandola sempre negli occhi senza però dar l’impressione di esserle ostile Mi rendo conto che specie in questo momento deve risultarle difficile ricevermi.”

Lei continuava a sorridere amichevolmente. Nessuna reazione. Non si preoccupava nemmeno di fingere. Evidentemente quando prima al telefono le aveva chiesto un incontro personale, giustificandolo con il fatto che avesse interessanti informazioni sugli affari di suo marito aveva colto nel segno.

“Non si preoccupi. Per me è un piacere riceverla, specie dopo il lavoro che ha diligentemente svolto per me. Sono curiosa di sapere cosa voleva comunicarmi ma le devo chiedere di essere breve e conciso. Non voglio parerle maleducata ma tra mezz’ora ho la mia seduta di messaggi con Armando, un vero maestro in questa antica e raffinata arte.”

Aveva chiarito che non era intimorita dalle presunte rivelazioni che gli avrebbe fatto e che non si sarebbe mai lasciata mettere in una posizione di inferiorità in quella che sarebbe stata molto probabilmente una trattativa. Il gioco del ricatto era inutile e se voleva bluffare doveva essere più che convincente.

“Non le sottrarrò troppo tempo, stia pure tranquilla. Tra poco potrà dedicarsi al suo Armando con tutta calma e nella pace del suo bel appartamento. Nessun sarcasmo. Si era concesso di parlare lentamente, scandendo bene le parole e facendo una significativa pausa. Neanche lui si sarebbe fatto mettere sotto. La conversazione non sarebbe avvenuta alle sue condizioni ma nemmeno secondo i tempi stabiliti dalla signora che con uno sguardo gli fece capire che aveva afferrato. Come lei sa, ma lo ripetiamo solo per amore di conversazione, io sono stato incaricato dalla signorina Hardy che lei ha contattato, di seguire suo marito e scoprire se la tradiva.”

“Non se, corresse la donna in tono didascalico, come a ricordare qualcosa di scontato ma attenta a non risultare maleducata ma con chi.”

“Giusto. Ammise tranquillamente Kaine Con tutte le sue segretarie? Con tutte le dirigenti della sua azienda? Con tutte le donne delle pulizie? Le basterebbe?”

“Oh, ha sempre avuto gusti piuttosto variegati.” Fece non senza riuscire a trattenere un risolino di sincero divertimento.

“Si, sembrerebbe proprio così ma la sa una cosa? Non era per tradirla che andava al Topsie bar. La osservò dal silenzio che aveva creato per poterla studiare. Nessuna reazione. Vedo che neanche mi chiede di cosa si tratta. Mi permetta di dirle anche il perché: lei sapeva benissimo dove andasse; non sapeva però con chi si incontrava.”

“Si incontrava con le spogliarelliste.”

“Questo anche sapeva e sapeva che suo marito andava al Topsie per trattare certi affari illegali.”

“Sa, esiste un reato che si chiama diffamazione. La memoria dei defunti, specie se stimati uomini d’affari è tenuta molto da conto.”

“Ma certo che è così! Nessuno del resto vuole offendere la memoria del caro estinto. Questa è una conversazione privata che si svolge tra adulti che conoscono tutta la verità su questa storia.

Lei sapeva che suo marito trafugava segreti industriali ai Mercury Labs. Lo sapeva perché sicuramente anche lei ne era in qualche modo coinvolta. Sa perché amo la stampa?”

“Perché?”

“Perché può dire sicuramente delle bugie ma se fa vedere una cosa, non la può nascondere poi. Ci sono diverse foto di lei e dei signori Thannhill insieme durante dei party di beneficenza e lei sembrava piuttosto intima di tutti e due, cosa che detto per inciso, di per sé non è un reato. Se non fosse che lei possiede un buon numero di azioni di diverse società fantoccio che risalendo lungo i fili attraverso i quali sono manovrate, indovini un po’, portano tutte alla Mercury. Lei  è una persona molto intelligente, laureata in economia alla Weber di Chicago, diversi master in Europa e Sud America. Lei ha procurato a suo marito in fondi per risanare un azienda in fallimento. Lei lo ha avvicinato ai Thannhill. Lei sapeva cosa faceva. Sapeva che lo avrebbe fatto e questo perché lo conosceva bene. O almeno pensava. Poi lui ha cominciato a fare di testa sua, nascondendole le operazioni che conduceva e lei lo ha capito e ha deciso di scoprire che cosa stava trafugando e a chi lo vendeva.”

“Una storia molto fantasiosa ma pur sempre una storia.”

“Allora, visto che si tratterebbe solo di una storia, non credo avrebbe nessun problema nel sentire come va a finire, giusto?”

“Sono curiosa per natura. Termini pure questo delizioso racconto.”

“Diciamo che lei non ha preso molto bene le iniziative di suo marito. Diciamo che non le va a genio il fatto che lui stia guadagnando senza dirle nulla. Senza dividere il denaro che proviene dai suoi traffici. Lei decide di farlo fuori.”

“Però c’è una contraddizione. Perché dovrei farlo seguire da un detective se avessi voluto davvero eliminarlo.”

“Per una serie di ottime ragione. Ad esempio potrebbe far gioco sulla sua immagine di donna gelosa ma ancora innamorata che la terrebbe lontana dai sospetti di essere la mandante del suo omicidio.

Inoltre lei ha avuto, nel periodo immediatamente precedente all’omicidio tutta una serie di informazioni sugli spostamenti di suo marito che potrebbero esserle tornati molto utili.

Non sapendo di cosa si occupasse in realtà, non mi sono reso conto di cosa stavo vedendo ma mettendo tutto in un’altra ottica le cose cambiano.”

“E cosa avrebbe visto?”

“Soprattutto le persone con cui trattava affari. I luoghi dove le incontrava. Così lei ha potuto contattare queste persone, trattare sul prezzo degli articoli che suo marito vendeva loro ed inseguito ucciderlo.”

“Ma secondo quello che lei ha detto prima, io non avrei saputo cosa trattava mio marito.”

“Può averlo scoperto, o sempre io con il mio lavoro, le ho fornito le informazioni che cercava.”
”Adesso mi dirà che lei sa quali sarebbero stati i presunti traffici di mio marito.”

“Clonazione.”

Il sorriso di Kaine era freddo ed affilato come una falce di luna nel cielo d’Inverno. Stava con una spalla appoggiata ad una parete, le braccia conserte.

“La storia si fa sempre più interessante…”

Replicò con fare serafico la Delgado.

 

Manhattan, 5avenue, Bob Kennedy Hotel – Venerdì ore 1.00 a.m.

 

 

Le strade erano ancora brulicanti di vita. Vita notturna precisò con sé stesso Terenzio Oliver Rucker. Dette uno sguardo in alto, verso la finestra da dove era fuggito l’assassino che sospettava essere l’emulo del mangia peccati e poi lo spostò verso il punto dove Mansel si era accasciato in terra. Trasse una sorsata dalla bottiglia di birra che spasmodicamente stringeva in mano da diversi minuti e lasciò che il liquido colasse lungo la gola, verso lo stomaco, covando la vana speranza che contribuisse ad ottundere quel dolore che ormai da giorni gli maciullava senza posa l’anima.

“Un buon poliziotto non dovrebbe bere in quel modo.”

Braddy O’Neil se ne stava leggermente in disparte e si era appena acceso un odoroso sigaro di provenienza caraibica.

“Parli tu? Se ai vecchi tempi ti soprannominavano la botte per quanto alcool riuscivi ad ingurgitare.”

Replicò Rucker senza distogliere lo sguardo da quella porzione di cemento.

“Io non sono mai stato un buon poliziotto. Mi piace pensare di esserne uno onesto ma buono direi proprio di no.”

“E sicuramente non lo sono neanche io.”

“Perché uno buono avrebbe impedito al suo uomo di morire?”

“Forse.”

“Stronzate. Quel ragazzo mi piaceva, era simpatico e volenteroso ma non aveva il senso della misura, né della disciplina. Ha voluto tentare qualcosa di molto rischioso tirandosi dietro il suo compagno. Gli avevi esplicitamente ordinato di non mettere il naso fuori dal furgoncino visto che era sprovvisto di camicia anti piombo. Lui invece ha fatto di testa sua e ne ha pagato il prezzo.

Capisco che tu ti senta male per questo ma non puoi mica dartene la colpa. Rucker, nella vita ti sei portato troppi pesi sulla coscienza e non credo sia il caso di gravarti anche di questo.”

“Davvero? Allora il tuo avvertimento giunge troppo tardi.”

“Dovresti pensare a prendere quel gran figlio di puttana piuttosto.”

“Arthur mi ha dato praticamente carta bianca ed io non sono riuscito ancora a concludere gran che. Dio, è successo solo Mercoledì scorso eppure mi pare trascorsa una vita…”

Nelle ultime ore poi, pensò silenziosamente, ne erano successe di cose. Peter era finalmente tornato a New York, nella maniera più drammatica e spettacolare possibile: dopo aver praticamente contribuito a sventare un dirottamento; sapeva che era stato lui, anche  se ancora non avevano parlato privatamente dell’accaduto, visto che aveva espresso il desiderio di tornare a casa e dormire tutto il giorno. Sembrava proprio che non ci fosse requiem per quel povero ragazzo. Dopo quanto aveva dovuto sopportare a causa dello Scorpione. Sentì ancora rimordergli dentro il senso di colpa per avergli consigliato di collaborare con quelli del P.H.A.D.E. Tra l’altro aveva momentaneamente abbandonato le sue ricerche riguardo la misteriosa organizzazione e pensò che invece Pete probabilmente ci contava. Si dette delle stupido. Sospirò e si voltò verso l’amico che continuava a tirar boccate dall’odoroso sigaro.

“Vuoi provare?” Lo invitò porgendoglielo.

“No, grazie. Lo fumo solo durante le grandi occasioni, o i funerali.” Disse con un sorriso triste.

“Devi scuoterti, e concentrarti sul nostro obbiettivo.”

“Non ne sappiamo molto.”

“Invece devo dirti che non è vero. Le tue deduzioni sono molto credibili e quando abbiamo chiesto spiegazioni all’ufficio S.H.I.E.L.D. per i contatti con la polizia hanno reagito come ti eri aspettato. Quelli sanno qualcosa.”

“Non posso crederci! Quei figli di  puttana lo hanno rifatto ancora! Sono convinti di poter fare tutto quello che più gli aggrada perché hanno la scusa della sicurezza nazionale! Non solo hanno creato un Mangiapeccati ma forse sono responsabili anche per la nascita di un altro.”

“Quella è gente che pensa di essere intoccabile ed effettivamente sembrerebbe così. Fury ha così tanto potere in mano che a pensarci bene fa davvero paura.”

“Farà anche paura ma stavolta non voglio fargliela passare liscia. Se ci sono loro dietro…”

Rucker gettò un occhio al sigaro che l’altro continuava a porgergli e, vinta la diffidenza nei confronti di quell’odore così forte, si convinse ad accettarne un tiro.

 

 

 

Fine dell’episodio.

 

 

 

Per improperi, lagnanze, proteste, dichiarazioni d’odio scrivete pure a spider_man2332@yahoo.com

 

Grazie di cuore a tutti quelli che in questo periodo mi sono stati vicino.

Grazie alla mia Stella, sempre paziente, presente, vicina e pronta ad aiutarmi comunque. Grazie per ogni istante che condividi con me.

Grazie ai miei amici, ai quali dire che voglio bene è riduttivo: Jo Jo, SaTaN aSS, Matt, Spirit Peka Fly…;

Grazie alla mia nuova amica Lisa di Mantova, per tutto il suo supporto.

Grazie ai cari, buoni vecchi, Micky, Vic, Charles M., per il supporto ed i consigli.

Grazie al Buon Pastore, per tutta la pazienza e la cura nel lavoro.

Grazie ai lettori, perché mi spronano ad andare avanti!

Grazie al MIT perché mi ha dato una gran bella occasione.

Grazie a Vale Diggi, perché è bello avere a che fare con qualcuno tanto entusiasta.

 

Alla prossima!