MARVELIT. PRESENT:

 

 

RAGNO NERO  #16

 

 

 

Cacciatori #1

 

 

Hijiro osservò il volto della donna con grande tenerezza. Chiunque l’avesse potuto vedere in quel momento non l’avrebbe mai riconosciuto. Il volto dell’uomo che si mormorava avesse il cuore di un demone s’era dischiuso in un espressione d’assoluto amore. Lei non poteva avvedersene, poiché lui stava nascosto nella penombra come se fosse stato un silenzioso angelo custode.

Lo sguardo si posò sul piccolo miracolo che teneva dolcemente stretto tra le braccia.

Se avesse potuto uscire da lì, andare verso di loro e stringerli a sé.

Se avesse potuto farlo, avrebbe voluto dire che la sua vita sarebbe stata completamente diversa ed invece la sua vita era ciò che avrebbe dovuto sempre essere: una sciagurata sequenza di fatti di sangue.

Tuttavia aveva fatto un giuramento la sera precedente, mentre pregava davanti all’altare dedicato alla memoria di sua madre: loro due non avrebbero mai dovuto patire per il suo destino, specialmente il piccolo; scalciava festoso mentre con la minuta mano cercava il viso della madre che gli stava rivolgendo affettuose parole.

Si mise ad intonare sommessamente una melodia infantile, una ninna nanna che anche lui conosceva molto bene.

Le parole raccontavano di quando un giovane principe che ancora non sapeva di essere tale, incontrò un gigante di roccia che gli donò una spada speciale: la spada del sole; poi il ragazzo, presa coscienza del proprio retaggio, salvava gli uomini dalla tirannia di un malvagio stregone dei ghiacci e conquistava l’amore di una fanciulla il cui fato sembrava drammaticamente segnato.

Ricordava come quella storia cantilenata lo avvincesse, e come lo facesse stringere di più al caldo corpo di sua madre.

Taro doveva avergliela insegnata. Il suo piccolo, amato, stupido Taro. Anche lui amava ascoltarla ed Hijiro gliela cantava durante le notti in cui faticava a prender sonno.

Povero, stolto fratellino mio.” Si disse mestamente tra sé e sé. Non poteva far niente per lui. Era andato troppo in là e non si era accontentato di questo. Avrebbe dovuto sparire, iniziare una nuova vita ma non ce l’aveva fatta: era stato troppo forte l’impulso di seguire la propria natura; quella stessa natura ribelle che l’aveva portato ad inimicarsi il vecchio e collerico Yu Tora. Un vecchio che ormai sragionava e viveva in un mondo tutto suo dove ancora credeva in codici da tempo infranti e in alleanze da tempo cadute. Il loro casato aveva corso il rischio di cadere. L’antigo e glorioso clan Sakurai, discendenti dei più fedeli servitori dello Shogun, doveva trasformarsi se non voleva finire schiacciato dai rivali sempre più agguerriti e forti. Hijiro sapeva bene cosa significava aver mandato Saguro nei paese dei gaijin. Sapeva che non avrebbe mai riportato vivo Taro in Giappone. Lo sapeva sin troppo bene. Aveva sacrificato la vita di suo fratello minore per una manovra di potere che avrebbe permesso al loro casato di sopravvivere.

Non se lo sarebbe mai perdonato. Mai, ma lo avrebbe rifatto altre cento volte.

 

 

Ristorante Pearl Drop, Manhattan, 5th Avenue – Venerdì ore 8.00 p.m.

 

 

Cindy Delgado finì di sorseggiare il suo drink e tornò a scrutare intorno a sé con aria preoccupata. Chissà che faccia aveva la voce. Così faceva riferimento a lui, visto che non l’aveva mai incontrato di persona. Il suo tono era freddo ed impersonale, privo di qualsiasi accento, al punto che aveva sospettato più di una volta trattarsi di una voce artificiale. Le loro conversazioni erano sempre state brevi, e si erano sempre scambiati le informazioni essenziali. Era stata avvicinata da un suo uomo e poi questi, una volta al mese, la incontrava per lo scambio di materiale. Lui la chiamava tre giorni prima dell’incontro, sempre alla stessa cabina telefonica nella hall del Carnaby Hotel a Lexington.

Doveva ammettere con sé stessa di essere curiosa in modo morboso: doveva assolutamente dare un volto a quella voce così impersonale e distante. Quando lui le comparve praticamente davanti senza che se ne fosse accorta trasalì. Cercò subito di ricomporsi ma la sorpresa era stata troppa. Aveva una pochette con una violetta appuntata sopra, proprio come le aveva preannunciato telefonicamente. Sembrava una cosa un po’ fuori moda nell’era di Internet e delle cellule staminali ma doveva ammettere che la cosa faceva il suo effetto: aggiungeva un’aria di romantico mistero ad una vicenda che di romantico non aveva nulla; lei sorrise automaticamente. Si era sempre vantata di avere un buon autocontrollo, soprattutto con gli uomini ma doveva ammettere che quello che aveva di fronte era uno di quegli esemplari che non potevano lasciare indifferente anche una come lei. Non era eccezionalmente bello, anzi, studiandolo bene il suo volto presentava un paio di difetti piuttosto evidenti. Era l’aria che lo circondava a renderlo veramente speciale. Sembrava così sicuro di sé da far sparire ogni imperfezione, e il suo sguardo era così magnetico che si sarebbe volentieri abbandonata al suo abbraccio e magari ai baci, sicuramente ardenti, che quelle labbra carnose potevano elargire.

Lui la salutò con un lieve inchino, e si produsse in un baciamano d’altri tempi, cosa che la fece ancora una volta sorridere.

Cindy Delgado tentò di richiamarsi all’ordine e non lasciarsi sedurre come l’ultima delle scolarette di liceo. Sapeva benissimo chi aveva di fronte e cosa stava rischiando in quel momento. Quello non era un appuntamento di piacere ma d’affari e affari molto, molto pericolosi visto che erano costati  la vita del suo defunto, idiota, marito.

“Finalmente ci conosciamo di persona.”

Esordì lei tentando di prendere il vantaggio della prima parola. Non voleva che la pensasse intimorita o in difficoltà.

“Ne sono sinceramente lieto. Lei, se posso permettermi, è persino più radiosa che non in foto.”

Altra sorpresa. La sua voce era profonda, calda, venata da un lieve accento del sud. Come appariva diversa da quella ascoltata tutte quelle volte al telefono. La cosa confermò i suoi sospetti di aver sempre avuto a che fare con un meccanismo parlante o qualcosa del genere.

“Lei sa come fare i complimenti ad una donna, glielo concedo. Può stupirmi ulteriormente?”

“Certamente. Non chiedo di meglio. Ma che ne dice se prima ordiniamo?”

Lei assentì compiaciuta e l’uomo, elegantissimo nel suo completo d’alta sartoria fatto su misura, alzò il braccio in un gesto molto signorile, e subito un impeccabile cameriere gli si avvicinò per prendere le ordinazioni.

 

La cena si svolse in modo cordiale e piacevole con tutte e due attenti a non bere più vino del dovuto e soprattutto che l’altro non vi versasse qualcosa dentro. A Cindy quell’uomo dai modi così impeccabili ma tutt’altro che pomposi piaceva, era inutile negarlo. Era divertente, brillante e quei suoi sguardi le mettevano addosso voglie che né il suo massaggiatore, né tanto meno la buon’anima di suo marito erano riusciti mai ad appagare completamente.

“La sua offerta è molto generosa, lo devo ammettere, ma mi chiede di rispettare dei tempi praticamente impossibili.”

Dichiarò lei dopo aver preso un sorso di rosso della Borgogna.

“Due mesi non mi sembra un tempo così inaccettabile e del resto lei mi ha viziato nei giorni passati. Le sue consegne si sono succedute sempre a brevi intervalli.”

“Le cose sono cambiate. Dopo quanto accaduto nelle scorse settimane, non posso far fronte a simili impegni prima dei tre mesi.”

“Sono molto tempo.” Disse in tono meditabondo.

“Sono il giusto tempo per avere qualcosa di così importante.”

“Lei è irresistibile, lo sa?” Fece gigione.

“E lei un adorabile bugiardo. Perché però non ci diamo del tu?”

“Non potrei chiedere di meglio.”

“Allora non pensi che la mia sia un’offerta onesta?”

“Penso che sia una buona offerta. Devi lasciarmi però un margine di tempo per esporre la proposta ai miei soci.”

“Domani, alle quattro mi darai la risposta. Va bene così?”

“Perfetto. Se l’affare andrà a buon fine mi permetterai di offrirti un’altra cena?”

“Per la cena va bene. Però la faremo a casa mia.”

I due si sorrisero e i bicchieri tintinnarono.

 

Freedland aprì la portiera della Ferrari, la Barchetta, forse più adatta alle coste della Florida che non allo Stato di New York ma in quei giorni il tempo era splendido e le temperature piuttosto alte, quasi l’eccezionale maltempo che si fosse abbattuto sulla Grande Mela fosse stato solo il fugace incubo di una notte. Eppure i segni dei disastri provocati dalla natura, e peggio ancora dallo Scorpione, erano ancora evidenti. Al suo padrone piaceva guidare di persona e come aveva potuto mettersi al volante, senza autisti che lo privassero del suo piacere, lo aveva fatto con la gioia con cui un bimbo gioca con il suo balocco preferito.

“Cosa ne pensi?” Chiese lui al fedele servitore.

“Una donna interessante. Forse un po’ troppo volgare per lei, se posso permettermi.”

Lui ridacchiò commentando: “E da quando ho quindici anni che trovi tutte le ragazze e le donne che incontro troppo volgari per me.”

“Solo quelle che lo sono veramente.” Replicò placido lui.

“Comunque non era quello a cui mi riferivo.”

“È uno squalo. Non ha esitato in passato a tradire il marito, arricchendosi alle sue spalle ed è il suo traffico che probabilmente lo ha messo in pericolo, provocandone la morte. Ora ha intenzione di tornare in affari e sospetto che Kirkpatrick lo abbia fatto uccidere lei, anche se non sapeva che aveva parlato con noi. Temo si sia trattata di una sfortunata coincidenza. Deve aver assoldato un killer.”

“Allora deve essersi trattato di qualcuno di molto bravo, se è riuscito ad eludere la sorveglianza di Conroy che, per quanto tu lo abbia criticato, è comunque un buon elemento.”

“Come Holyfield del resto e continuo a non capire perché voglia correre tanti rischi guidando personalmente, anche se questo la diverte molto.”

“Holyfield aveva diritto ad un paio di serate libere, ed io avevo voglia di guidare. Tutto qui. Chi può aver ingaggiato la nostra  amica?”

“Io mi preoccuperei più per lei. Potrebbe scoprire il nostro bluff.”

“Non se giochiamo bene le nostre carte. Per nostra fortuna Kirkpatrick ci ha passato il suo nome, e tutti i dati relativi agli incontri che il vecchio organizzava per pagarla e anche tutti gli appunti relativi alle telefonate fatte. Lei non lo ha mai visto di persona e quindi non sapeva con chi avrebbe avuto a che fare.”

“Ma perché si è dovuto esporre lei? Penso ancora che sia tutto troppo rischioso.”

“Mio buon Freedland, se un capo non è mai disposto a rischiare in prima persona, quale persona sarà disposta a rischiare per lui?” Sorrise per quel detto che lo divertiva sempre parecchio.

“Questo suo scioglilingua lo conosco bene. Le ricordo che glielo ho insegnato io quando ancora portava i calzoni corti. Però qui stiamo parlando di un rischio troppo grosso. Lui potrebbe ripensarci e tentare di mettersi in contatto con lei anche stasera.”

“Non sa ancora della morte di Kirkpatrick. Occultare il cadavere, anche se poco morale, è stata una ottima scelta. Mi complimento con te.”

“Grazie, lo aveva già fatto ed io continuo ad avere i miei dubbi.”

La rossa ruggiva docilmente mentre attraversava i canyon di cemento di New York, attirando su di sé sguardi d’invidia e d’ammirazione. Una Ferrari era come una gran signora, di questo era convinto l’uomo che la guidava, mai troppo eccessiva, sempre elegante, fedele come una buona moglie, focosa come una buona amante. Gli dispiaceva un po’ che fosse costretta in quelle strade dove non poteva far esprimere il magnifico motore al pieno della sua potenza ma anche così era un vero piacere sentirla scivolare lungo l’asfalto.

 

 

Appartamento di Patricia Everett – Venerdì ore 10.00 p.m.

 

 

Il volto dal sorriso birichino di Butch Patrick fissava Patricia dallo sfondo blu scuro della t-shirt smaniaca di Abe. Indossava un paio di pantaloni di tessuto morbido pieni di tasche e basse scarpe da ginnastica della Puma, entrambi color nero. Gli aveva spuntato i capelli, quei capelli morbidi e luminosi che tanto amava, e ora lui la stava ripagando.

“… Sklovskij spiegò così l’emissione radio della nebula del cancro come radiazione di sincrotrone. Sai qual è il mito che la caratterizza?” Le disse stringendola a sé.

“No. Dimmelo tu, mio Galileo Galilei.” Fece lei prendendolo affettuosamente in giro.

“Nei tempi del mito, nell’antica Grecia. Ercole era intento a lottare nelle paludi di Lerna contro la temibile Idra e allora Era, che come sai non lo amava molto poiché prova vivente del tradimento di Zeus con la bella Alcmena, mandò un grosso granchio che lo pizzicò sul tallone al fine di disturbarlo durante il titanico scontro. Il granchio non ebbe successo e finì schiacciato dal figlio del Re degli dei ma il suo coraggio fu comunque premiato e venne posto nello zodiaco al fine di rendere immortale il ricordo della sua impresa.”

Patricia batté le mani divertita e gli dette un bacio sulle labbra che lui accettò molto volentieri.

“E sai anche qualcosa d’altro sul cancro?”

“Si. In Cina, la sua costellazione, viene chiamata la mangiatrice di anime…”

Lei si voltò con tutto il corpo che cominciò maliziosamente a premere contro il suo.

“Il mio professore che sa tutto quanto…”

“Il professore è pronto per un altro tipo di lezione, ora.”

Chiuse la finestra e si lasciò guidare da lei sino al divano dove caddero sopra avvinghiati in un caldo abbraccio.

 

L’aria fresca della notte lambiva la maschera mentre, tela dopo tela, avanzava verso il fitto agglomerato di palazzi conosciuto come Manhattan. Era come passare dalle esterne regioni delle spazio, in un fitto ammasso di stelle. Ricordò con piacere la lezione di poche ore prima sulle costellazioni e sorrise compiaciuto.

“Tu ci credi?”

“A che cosa?” Chiese lui mentre lei, nel letto, lo stringeva con forza.

“A quella storia che mi hai raccontato prima su Ercole, l’Idra e il granchio.”

“Una volta, da bambino, pensavo fosse solo una leggenda ma dopo che Ercole è entrato nei Vendicatori, il mio punto di vista è drasticamente cambiato.”

“Quindi sei uno di quelli che crede che quello sia il vero Ercole? Intendo quello del mito e che Thor sia l’originale dio del tuono norreno.”

“Perché no? Loro dicono di esserlo ed io non ho motivo di non credergli. Ci sono, tra gli esseri umani, individui, mutanti e non, che hanno dimostrato di possedere una longevità e una coriaceità notevole. Senza contare tutti gli alieni con cui abbiamo avuto contatti negli ultimi vent’anni. Non è così difficile immaginare questa specie così progredita da apparire ai nostri occhi come degli dei che viene a contatto con noi e che è capace di imprese straordinarie. Al mondo ne esistono di cose strane ed io l’ho imparato a mie spese. Persino la magia non mi sembra più solo mera superstizione.” Disse ripensando a quella voce che aveva udito e ai ragni che ricoprirono il corpo di Peter dopo lo scontro con lo Scorpione, nel capanno di Rucker, mentre lottava tra la vita e la morte.

Ragno Nero si concentrò sul presente, per quanto quei recenti ricordi erano carichi di struggente dolcezza.

 

Ronald Perth si aggirava come un anima in pena tra i bidoni della spazzatura, spingendo penosamente il suo carrello della spesa pieno di lattine e bottiglie usate. Fissava con occhi vacui un mondo fatto di mattoni, cemento, vetro e acciaio ardente per le luci provenienti dalla strada. Luci lontane, come quelle di stelle che silenziose disegnavano le proprie orbite millenarie nelle vastità del sidereo.

Se Rucker non gliene avesse parlato, Ragno Nero avrebbe creduto quell’uomo vestito con sporchi cenci un vero barbone.

Ronald Perth aveva un curriculum di tutto rispetto: F.B.I., A.T.A., Coordinamento Sezione Speciale Anti Terrorismo; era stato in Vietnam, decorato per eroismo e dopo essere tornato negli U.S.A., si era distinto per essere un vero modello di integrità morale ed onestà. Ronald Perth non era il suo vero nome. Rucker gli aveva rivelato che si trattava di un’identità fittizia assunta anni prima per questioni di sicurezza. Non gli disse altro. Erano amici e anche se si fidava di Kaine, non avrebbe mai rotto una promessa fatta a Perth, o chiunque fosse veramente.

Quando gli aveva chiesto perché vivesse così, Rucker gli disse che aveva ricevuto delle delusioni dai suoi superiori e dai suoi colleghi e che per un uomo di quel tipo, si trattava di delusioni troppo grandi per essere ignorate e sopportate.

Si dimise, senza clamori ed evitando tutte le polemiche. Ufficialmente si trattò di pensionamento anticipato per problemi di salute. Era un tipo a cui non piaceva fare chiasso e soprattutto consapevole che con certa gente sbattere la porta, o parlare troppo, poteva essere pericoloso.

Il Governo aveva un accordo con lui: silenzio assoluto su alcune faccende in cambio di un occhio chiuso sulle sue attività; Ronald aveva una fitta rete di contatti in molte città d’America, Canada e America Latina. Contatti che aveva deciso di mettere a frutto per una nuova attività. La Nuova Libera Associazione Allan Pinkerton era estremamente efficiente ed estremamente poco conosciuta. La pubblicità era assai poco gradita ed i suoi scopi non sempre chiari. Spesso lavorava su commissione, con compensi multimilionari si mormorava, ancora più spesso per motivazioni proprie. Quanti e chi ne facesse parte non era noto. Kaine sapeva che quella sera il suo agente numero uno e fondatore era intento nella raccolta di prove per incastrare un giovane aspirante boss della droga, Mikhail Kurzokov che in capo a poche settimane voleva occupare il posto della quasi completamente estinta famiglia Gambino nel rifornire di cocaina il jet set di Broadway.

La figura fasciata di nero atterrò tra le ombre, silenziosa e cominciò a fissare l’uomo. Stava studiando con lo sguardo un paio di vecchie scarpe abbandonate nell’immondizia. Si trattava di eleganti scarpe italiane da 1000 dollari, ancora in buono stato. Le soppesò, saggiando la resistenza della tomaia e poi, con voce carica di disprezzo: “Non avranno più di un mese. È un crimine nei confronti di chi non ha nemmeno i soldi per comprarsi il pane buttarle via così! È da mezz’ora che giro qui in torno aspettandoti.”

“Il nostro amico mi aveva detto alle 1.00.” Evitò di fare nomi e attese la risposta dell’altro. Risposta che, in tono sprezzante ed infastidito arrivò immediatamente.

“Adesso è l’1.08.”

“Sono solo otto minuti di ritardo.”

“Quando do un orario, pretendo che sia rispettato. Specie quando mi ritrovo a girare per vicoli bui, con gli sbirri che girano in continuazione. Sai quante volte stavano per fermarmi? Hai idea dei fastidi che avrei se dovessero portarmi al fresco? Inoltre sto lavorando. Se non avessi un amico comune ti avrei già scaricato.”

“Mi dispiace per il disagio. Si limitò a controbattere Kaine che non voleva dare l’impressione di star giustificandosi. Poi con indifferenza, come se nulla fosse:so che puoi darmi notizie interessanti.”

“Il nostro amico mi aveva chiesto di fare qualche controllo per te. C.P., il tuo bersaglio con le gambe, non è quello stinco di santo che dice di essere.”

Sotto la maschera Kaine sorrise soddisfatto. Negli ultimi giorni si era dedicato alla lettura dei files trafugati dal p.c. di Chester ed erano stati una serie di sorprese, una dopo l’altra. C’era una specie di diario personale scritto in un linguaggio in codice, codice che a dire il vero non era di difficile comprensione. Ne era emersa una personalità molto diversa da quella che lasciava solitamente trasparire l’aitante detective. Insicuro, rancoroso, frustrato, ambizioso oltre il lecito. C’erano anche tutta una serie di annotazioni riguardanti la sua propensione per la pornografia. Chester frequentava un locale, l’Elain’s Domina Mansion, dove si potevano girare filmati amatoriali di vario genere con modelle e modelli a pagamento, o si poteva usufruire di particolari trattamenti per chi possedeva certi gusti.

“Ci vanno alcune persone del giro di Broadway. Registi, attori, starlette che vogliono compiacere più o meno attempati produttori. Insomma, almeno un quinto del mondo dello spettacolo newyorkese si reca almeno una volta al mese all’Elain’s. è un posto dove non si entra se non hai l’invito e l’invito viene spedito solo alla gente che conta o a chi ha amicizie altolocate. Servono molti soldi una volta entrati ma chi ci va non si pone questo problema.” Mary Jane gli aveva parlato di questo locale quando lui le aveva chiesto informazioni. Ricordava di averlo sentito nominare e la cognata gli era stata di grande aiuto.

Per un istante, con la coda dell’occhio, catturò la luminosa sagoma del Chrysler Building sulla 3d Avenue. Nei suoi impianti mnemonici era il grattacielo preferito di un’infanzia mai veramente vissuta. Quando nei momenti di intimità si lasciava andare al passato di Peter, fingendo che fosse il suo, riprovava l’incontenibile gioia della prima gita sulla sua sommità insieme allo zio Ben. Era una calda giornata di Maggio e nei cieli passò il dirigibile della Goodyear. Si sentì mancare il fiato per l’emozione quando realizzò quanto effettivamente fosse grande e quanto loro si trovassero in alto.

Tornò immediatamente a focalizzare la sua attenzione su Perth e lo invitò a proseguire. L’altro fece un cenno d’assenso e con la sua voce leggermente roca e sgraziata: “ Tutto quello che ha detto in proposito del suo passato di poliziotto a Frisco è vero. Ha omesso di essere stato cacciato dalla polizia.”

“Cacciato?” Chiese Kaine che non era per nulla sorpreso.

“In pratica si. Alcuni suoi compagni, al 7mo distretto, rivendevano la droga sequestrata. Cocaina per la precisione. Quando furono scoperti vennero processati e condannati. Il tuo amico sapeva e non disse nulla. Almeno queste furono le conclusioni. Su di lui non c’erano prove certe ma tutti sapevano che anche lui era dedito allo spaccio. Conosceva Benny Altmann, proprietario di uno dei più esclusivi club per omosessuali di tutta la città, il Pink Hornet, e probabilmente procurava la roba ai suoi clienti. Tra di essi c’erano due giudici, e quattro membri del gabinetto del sindaco. Per questo non venne condannato. Tuttavia era bruciato e nessuno voleva più averci nulla a che fare.”

“E quando è così per un poliziotto è la fine.”

“Chi vorrebbe avere come guardia spalle uno che forse si fa o che peggio ancora potrebbe essere in affari con quelli che stai per arrestare? Ha frequentato sia l’Università che la scuola di detective indicati sul curriculum ma la laurea l’ha praticamente comprata mantenendo il silenzio sullo stupro di una ragazza avvenuto da parte di due compagni di scuola figli di alcuni tra i maggiori contribuenti e il suo diploma se l’è guadagnato, almeno fino a quando stava per essere cacciato per essere ricaduto nel vizio di vendere droga.”

“E come ha fatto a diplomarsi?”

“Anche il fratello di uno dei soci fondatori si faceva e vendeva coca. Lui lo salvò da un brutto pestaggio.”

“E così ricambiarono il favore. Ma bene!” Si lasciò scappare senza riuscire a trattenere la rabbia.

“Frequenta l’Elain’s, un club molto esclusivo tra i vip della città che vogliono provare forti emozioni.”

“Lasciami indovinare: scommetto che non ha ancora abbandonato il suo hobby preferito e continua ad arrotondare vendendo bianca neve.”

“Principalmente ma ha anche ampliato l’attività: fedrine, droghe sintetiche, acidi di vario tipo; molti di questi non rientrano nell’elenco ufficiale delle droghe e dunque sono molto più sicuri da spacciare. Inoltre basta avere un appartamento, un chimico e i composti base per assicurarsi una produzione redditizia. Non è un caso che siano considerate le droghe del futuro.”

“Lui ne fa uso?”

“No. Non è un consumatore ma solo un venditore. La cocaina l’ha provata solo quando era più giovane, ora preferisce mantenersi lucido.”

Kaine era allarmato da quell’affermazione. Le droghe come la cocaina lasciavano tracce nel corpo anche a distanza di molti anni. Tutti gli assunti dalla Private Eye venivano sottoposti, per ordine di Felicia, a scrupolosi controlli medici, oltre che sul passato giuridico e non. Il sospetto era nato da diverso tempo ma volle togliersi ogni dubbio.

“C.P. lavora da qualche tempo per un’agenzia investigativa privata. Cosa me ne sai dire?”

“La conosci bene.”

“Che significa?” Chiese sorpreso.

“La gestisce la tua ex amichetta, Felicia Hardy, alias la Gatta Nera, ex ladra professionista con diversi capi d’accusa cancellati per servigi resi al Governo U.S.A.”

“Cosa?” Anche stavolta Kaine non era riuscito a trattenersi e si dette dello stupido. Non aveva mai saputo di una collaborazione tra Felicia ed il Governo.

“C.P. ha un contatto all’interno dell’agenzia. Robert Mooney, 46 anni, medico, svolge le visite sugli aspiranti collaboratori. Mooney è il fratello minore di uno dei genitori degli stupratori di cui ti ho parlato prima. Tutto chiaro?”

Avrebbe voluto ringhiare dalla rabbia. L’agenzia non era sicura come la immaginava Felicia. Se uno come Chester Perkins era riuscito ad entrare nascondendo il suo passato, si chiese quanti altri avessero quel tipo di scheletri nell’armadio. Conosceva personalmente Mooney. Sembrava una brava persona. Padre di famiglia, tre figli di 21, 18 e 8 anni. Una moglie con cui era sposato da 22 anni, una casa a Forest Hill, a Placid Street, non distante dalla casa di Peter e Mary Jane, vita morigerata, niente alcool o fumo. Felicia si fidava di lui e anche Kaine, almeno fino a qualche minuto prima.

“Cos’altro sai dirmi?”

“Arriviamo alla parte che ti interessa. So che si è incontrato diverse volte con Cindy Delgado che lo pagava per seguire il defunto marito, Malone. Quest’ultimo era coinvolto in un traffico di spionaggio industriale che probabilmente gli è costato la vita. Comunque Chester frequentava anche un’altra persona. Un’ombra.”

“Che significa?”

“Non sono riuscito a trovare niente su di lui.”

“Niente?”

“Ho pochi elementi su cui lavorare e adesso non ne ho nemmeno il tempo. Ho questo lavoro e inoltre sto aiutando il nostro amico per quanto riguarda l’altra faccenda*”

“Grazie lo stesso.”

“Non c’è di che.” Detto ciò prese un fascicolo che teneva ben nascosto nella fodera del lercio soprabito che indossava e la lanciò al suo indirizzo. Kaine la prese al volo. Li c’era il resto. Fece un cenno di ringraziamento e sparì nuovamente nei cieli urbani della grande metropoli.

L’uomo si chiese come facesse Terenzio Oliver Rucker a fidarsi completamente di quelle persone. I vigilantes mascherati erano imprevedibili e agivano rispondendo ad un proprio personale codice d’onore, convinti che questo bastasse a giustificarne ogni azione.

Scrollò le spalle. Aveva un lavoro da portare a termine e non era tipo da lasciare le cose a metà.

 

 

 

 

 

Neshville, Stato di New York (circa 34 khm dalla Città di New York) – Venerdì ore 11.22 p.m.

 

 

Feng lanciò una fredda occhiata a Jing Go che girava come un’anima senza pace lungo il perimetro dell’angusto appartamento. Stava cedendo. Ormai ne era certo: i nervi dell’uomo erano stati duramente provati e la sua capacità di sopportazione esaurita da tempo. Tutti quanti i tentativi di ottenere protezione erano andati falliti e gli anziani erano decisi a non revocare il contratto che c’era sulla sua testa. A quell’ora avevano capito che quanto accaduto alla base newyorkese dei Jong non era colpa sua ma non gliene importava molto: volevano sbarazzarsi di Jing Go; aveva fallito troppe volte e il suo atteggiamento imprudente era costato quello che ormai appariva come un sicuro dominio delle Costa Est, un obbiettivo perseguito pazientemente e a costo di grandi sacrifici nel corso degli anni.

La Triade deve modernizzarsi.” Questa era la parola d’ordine dietro quella vasta operazione. La Mafia cinese voleva andare oltre i confini delle chinatown locali e spandersi lungo strade che tradizionalmente erano territori altrui. Eliminare la concorrenza, dettare le nuove regole di un mercato in continua ascesa erano l’aspirazione di una famiglia che si era fatta portabandiera di un rinnovamento senza precedenti. Erano stati temuti e rispettati per questo ma la sconfitta americana aveva cambiato tutto: i vertici della Triade erano scontenti e gli altri clan reclamavano il sangue del Jong per aver portato ad un inasprimento delle operazioni di polizia internazionali. La dove esistevano tregue o taciti accordi ora era guerra senza quartiere e lo stesso Governo Cinese, che aveva usato l’organizzazione per i suoi fini fornendole spesso occulto fiancheggiamento ora gli si stava rivoltando contro. Se Jing Go fosse stato giustiziato la situazione si sarebbe placata, almeno sul fronte interno, visto che era stato usato come capro espiatorio. Feng non poteva negare né l’avventatezza, né la stoltezza di quell’uomo che tutto sommato aveva innescato una pericolosa reazione a catena che correva il rischio di portare all’estinzione della famiglia e ad un forte ridimensionamento della stessa Triade. Tuttavia Jing Go doveva sopravvivere. Era necessario e questo anche se quest’ultimo stesso non lo sapeva. Se fosse morto si sarebbe avverata la profezia. Storse la bocca in un gesto di stizzita insofferenza. Per tutta la sua vita era stato guidato dalla maledetta Profezia. Rinunce, privazioni, sacrifici e tutto per un maledetto cumulo di parole di cui non capiva nemmeno il senso completo.

Nessuno, guardandolo, avrebbe mai nemmeno intuito il dramma interiore che bruciava nell’animo di quell’uomo dal volto di ghiaccio che, in piedi al centro dell’ennesima squallida stanza di motel, studiava con grande discrezione quello che era stato il suo padrone. Ormai rimaneva solo una tremante caricatura che pareva così sbiadita da confondersi con l’anonima tappezzeria di quell’angusto spazio. Si voltò, dando un’occhiata al parcheggio di fronte, cercando eventuali macchine sospette ma decise che per il momento la situazione era sotto controllo, anche se con la famiglia non si poteva mai essere sicuri di niente. Sapeva che presto o tardi li avrebbero trovati e non importava quanto lui fosse bravo a nascondersi. Li avrebbero trovati semplicemente perché c’erano persone molto più brave a rintracciare qualcuno di quanto lui lo fosse nel nascondere le tracce. Li avrebbero trovati e allora nemmeno lui avrebbe potuto fare niente, anche Feng, mano lama di spada sarebbe stato impotente contro i migliori killers della famiglia Jong. No, doveva porre fine a quella storia prima che fosse troppo tardi. Aveva una ed una sola speranza. Non doveva sprecarla.

 

 

Hardy Private Eye Investigation, Manhattan, N.Y.C. – Venerdì ore 12.00 p.m.

 

Quando Kaine ebbe finito di parlarle trasse un profondo respiro. Doveva controllarsi. Doveva mantenersi calma.

Il pugno saettò con furiosa rapidità mandando in frantumi la cornice di legno contro la quale si era abbattuto.

Subito lui le si fece d’appresso e con infinita premura s’assicurò che la mano non avesse riportato ferite gravi mentre, con gentilezza quasi fraterna la rimproverava per quel suo gesto avventato. Indossava i nuovi guanti fornitigli da Scorch, e il loro rinforzo extra le aveva evitato spiacevoli conseguenze anche se le nocche le formicolavano un poco.

“È tutta colpa mia.” Mugolò dopo pochi attimi di silenzio, contemplando le schegge di legno e i pezzi di vetro caduti sulla moquette verde scuro.

“Non dire sciocchezze. Non puoi esserne alcun modo responsabile.” Ribatté Kaine con ferma dolcezza.

“No. È colpa mia e devo assumermene la piena responsabilità. La selezione del personale era un compito mio che invece, ad un certo punto, ho delegato ad altri. Ero troppo concentrata a fare la vita della donna fatale e guarda cosa è successo. Ho fallito su tutta la linea e non importa quanto tu ti affanni a negarlo. Sei un vero tesoro, amico mio, credimi. Solo in questi ultimi giorni l’ho capito veramente e ti devo le mie più sincere scuse, anche se ormai non cambiano la situazione. Chester ha scoperto chi sei e ha venduto la tua identità al Demone, bruciandola ed ora, purtroppo, saremo costretti a cercartene un’altra per evitare problemi. Quello che ti ha fatto… che ci ha fatto è stato tutto dovuto alla mia incuria.”

“Felicia, non puoi rimproverartene. Chester è stato molto bravo a vendersi come investigatore modello e anche io, se non fosse accaduta tutta quanta questa storia, continuerei a vederlo come tale. Non puoi martoriarti in questo modo e non hai certo giocato a fare, come dici tu, la donna fatale. Sei stata alla guida di quella che è divenuta una delle più rinomate e ricercate agenzie investigative newyorkesi. Persino la polizia ha chiesto la tua collaborazione in più di un caso. Hai commesso degli sbagli, non te lo sto certo negando né mi interessa farlo. Non fare però quello di lasciarti andare all’autocommiserazione. Devi essere forte ora, anche se suona retorico. Credi che non abbia capito quanto ti pesi quello che quel maniaco ti ha fatto? Credi che non veda la paura nei tuoi occhi ogni volta che accenno a quel nome? Hai rinnovato il tuo arsenale, corazzato il tuo costume per quanto possibile e ti alleni come un’ossessa in palestra e per strada. Ti sei gettata in più risse da bar tu in una settimana che uno scaricatore di porto in sei mesi. Ascolta, la tua voglia di riaverti su quel porco è legittima ma non lasciarti guidare dalla voglia di vendetta.”

Lei gli posò le mani sulle spalle avvicinandoglisi. I loro respiri cominciarono a fondersi mentre i loro volti illuminati dalla tenue luce di una lampada da tavolo si trovavano a pochi centimetri.

“Sei un bravo ragazzo ma non devi preoccuparti che io faccia qualche sciocchezza. Sono pur sempre Felicia Hardy la Gatta Nera. Cosa credi? Lo rimproverò scherzosamente, mentre si accorse di non riuscire a distogliere il suo sguardo dal suo. Il suo labbro inferiore tremolò leggermente. Era un piccolo tic di cui neanche lui forse si era mai accorto. A Peter succedeva sempre quando era nervoso, quando magari avevano avuto una discussione o dovevano affrontare una situazione scabrosa ai vecchi tempi, quando facevano coppia. Quasi una vita fa pensò, e continuò a parlare So e che devo badare a me stessa e porre fine a questa faccenda. So che parli per il mio bene.”

Kaine abbassò per un istante lo sguardo, come se stesse scrutando un abisso improvvisamente spalancatosi sotto i suoi piedi. Alcune ciocche di capelli gli cadevano sulla fronte e lei li scansò con un gesto affettuoso, assaporando con la mano la bella sensazione che gli dava accarezzare la sua pelle.

“No, Felicia. Non è tanto per il tuo bene che te lo dico.”

Rimase a fissarlo interdetta. Il tono con cui l’aveva affermato la lasciò per qualche istante allibita. C’era una misurata freddezza in quelle parole, un cinico, calcolato distacco che per un istante lo avvolsero come un impenetrabile manto.

“Che vuoi dire?”

Lui alzò lo sguardo, fissandola negli occhi senza alcuna emozione apparente:

“È la prima regola di un cacciatore: non trasformare mai una caccia in qualcosa di personale.”

 

 

Fine episodio.

 

 

 

 

 

Un grazie speciale a tutte quelle persone speciali che mi sono state davvero vicine in questi giorni di dolore e tristezza. Un grazie a tutti quelli che mi hanno aiutato, sostenuto e permesso di continuare anche qui, in questo mondo virtuale.

Un grazie a Carlo, che supervisiona i miei racconti e ha perdonato la mia latitanza.

Un grazie a Valerio Diggi, per la sua amicizia, per me molto importante.

Un grazie a chi legge questi racconti e mi da voglia di andare avanti.

 

 

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