- Parte 4 di 6 -
QUANDO SENTII IL FREDDO NEL MIO CUORE

di Andrea Garagiola

Presente. Hell’s Kitchen, New York. Non appena il tintinnio raggiunge l’udito ancora ben sviluppato per un uomo della sua età, Donald Carter sbotta.
- Oh, dannazione, ragazzino... Vuoi stare un po’ attento? Hai fatto cadere il bicchiere sul tavolino e ora è tutto bagnato... Fortuna che non si è rotto. -
- M-mi scusi... Mi scusi, signor Carter, è solo che... - Il giovane Jimmy rialza velocemente il bicchiere che ha appena urtato accidentalmente e lo sistema sul tavolino.
- Quante scuse per un poppante! Ai miei tempi, se si combinava un guaio, non si perdeva tempo a parlare... Si scattava in piedi e si cercava di porre rimedio al proprio errore... -
- C-certo... -
- E allora cosa aspetti!? In cucina c’è della carta assorbente, prendine un po’ e asciuga il disastro che hai fatto... E vedi di sbrigarti, tu sarai anche giovane, ma io non ho molto tempo a disposizione e preferirei finire il racconto prima del giorno del mio funerale! -

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09 Febbraio 1944.  I due giorni successivi all’incontro con la Torcia Umana furono di assoluto e reale relax. Non accadde nulla di nulla, ci riposammo al campo base della Thunder e per 48 ore la guerra ci parve lontana come non mai. Metà del tempo, e non sto esagerando, li passai a giocare a poker con Lazzaro, Tank e Holland, con ancora la sua bella ferita sulla chiappa. Credo che furono gli ultimi due giorni di pace finché non ritornai in America. Non lo sapevo ancora, ma me li sarei dovuti assaporare più lentamente.
In quei due giorni i pezzi grossi non si fecero vedere un granché, erano tutti nella tenda della Torcia Umana per studiare il piano. Non avremmo avuto margine di errore e non potevamo tardare oltre, avremmo dovuto agire quella notte. Un tedesco, non ricordo il suo nome, lavorava in gran segreto per il governo americano ed era da tempo infiltrato nelle file tedesche. Era riuscito a farsi assegnare come guardia del corpo del dottor Hans Albrecht, il nostro obiettivo dell’incursione che avremmo fatto ad Antoing quella sera, e ci comunicò che il dottore e altri ufficiali nazisti si erano riuniti in un hotel, al centro della città, per festeggiare il compleanno di uno di questi.
Il dottor Albrecht era un genetista, o un altro diavolo del genere. Ci dissero che l’intelligence alleata era arrivata alla conclusione che fosse proprio lo scienziato a capo del misterioso progetto dell’arma segreta nazista per la quale fummo catapultati in quell’inferno e noi dovevamo catturarlo per farci condurre alla base dalla quale coordinava le operazioni. Sembrava una passeggiata, ma fu tutt’altro che facile o piacevole.
La notte arrivò fin troppo in fretta e prima delle tre eravamo già dentro la cittadina. Antoing non era molto grossa ed era ancora ben curata, tutto sommato, la guerra aveva lasciato poche cicatrici sugli edifici. Il centro della città era stato trasformato in una vera e propria cittadella nazista. Quei porci avevano eretto un perimetro murato con tanto di sentinelle e torrette di guardia. Nella zona fortificata si ergeva un lussuoso hotel che i crucchi avevano addobbato con i loro drappi rossi, bianchi e neri e le loro dannate bandiere con la loro dannata svastica.
Capitan America formò una squadriglia di circa quattro dozzine di uomini presi dalla compagnia Freedom. Io fui tra questi. Oltre a Capitan America e me, mi ricordo che c’erano anche Bucky, il capitano Powell, Ross, Masters, Smile, Chase, Chapman, Lazzaro e Tank. La squadra avrebbe dovuto sfondare il lato est delle mura, che secondo gli scout era il lato meno difeso, e penetrare nell’hotel per catturare il dottor Albrecht. La Torcia Umana, con i suoi uomini della Thunder e il resto della Freedom, ci avrebbe coperto dall’esterno mettendo fuori gioco tutte le guardie presenti sugli altri lati.
Gli scout, con azioni rapide, precise e silenziose riuscirono a eliminare le guardie lontane dal perimetro in modo da creare un corridoio tra le case libero da sentinelle che avrebbero potuto vederci e dare l’allarme.
La mia squadra attendeva nascosta in una grossa corte abbandonata. Dalla mia posizione potevo vedere bene il punto in cui avremmo sfondato le difese della cittadella. Era pieno di guardie armate, sentii le mani che istintivamente si stringevano intorno al corpo del fucile fino a sbiancare le nocche. Immobile passai in rassegna i volti dei miei compagni, ognuno guardava dritto davanti a sé, fissando il nulla, colmo di tensione. Per ultimo portai il mio sguardo su Cap, era l’unico che sembrava tranquillo, sentii le mie mani allentare leggermente la presa. Tutta la mia attenzione era fissa sul suo pugno fermo a mezz’aria. Da un momento all’altro, quella mano ci avrebbe fatto segno di partire all’attacco.
Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro solo quando vidi la mano di Capitan America che si aprì di scatto, quasi contemporaneamente ai primi scoppi che udimmo provenienti dalla parte opposta delle mura fortificate. La Torcia Umana e gli altri erano entrati in azione e ora toccava anche a noi fare la nostra parte.
Uscimmo di corsa dal nostro riparo e ci fiondammo verso il gigantesco portone d’acciaio che si trovava proprio davanti a noi. Capitan America era in testa, con il suo scudo deviava i proiettili che erano diretti contro di lui. Alle sue spalle, Bucky e il capitano Powell, e dietro tutti noi che sparavamo all’impazzata contro le guardie davanti al portone e a quelle che stavano sopraggiungendo ai fianchi. A chiudere il gruppo c’erano Tank, Chapman e altri due, tutti armati di bazooka che, sparando all’unisono, si preoccuparono di abbattere le due torrette munite di artiglieria che difendevano entrambi i lati del portone.
Senza più la minaccia delle torrette che incombeva su di noi, potevamo preoccuparci di riuscire a superare il grosso cancello. La squadra si riunì a semicerchio intorno al portone per consentire a Chase di abbatterlo con una carica di plastico. Dai rumori e dalle urla che sopraggiungevano da ogni parte, capii che la Torcia Umana e gli altri stavano dando parecchio filo da torcere ai crucchi, ma diverse squadre di nazisti stavano arrivando verso di noi e non avevamo nessun riparo. Per non contare quelle che ci avrebbe atteso all’interno delle mura.
Sparavamo ad ogni figura scura che correva verso la nostra direzione, prego solo che tutti quelli che abbattemmo fossero degli sporchi tedeschi. Chiusi gli occhi e staccai la mente, l’indice sul grilletto fece il resto. Sparavo e pregavo, non facevo altro. Pregai Dio che facesse finire tutto, lo pregai per mettere fine a quell’orrore. Anche un proiettile in testa sarebbe stato meglio di quello che stavo vivendo. Ma si vede che non era la mia ora o che il buon Dio non aveva un’ottima mira, perché quel proiettile tanto ambito se lo prese il soldato che era alla mia sinistra. Il sangue caldo di Ross mi inondò il viso, il proiettile lo aveva colpito in pieno viso. Credo che in mezzo a quel fiotto di sangue ci fosse anche qualcosa di più consistente. Altri due o tre caddero intorno a me. Ogni istante pensavo “il prossimo proiettile è per me”, poi, quando sentivo un tonfo sordo alle mie spalle, il gioco ricominciava da capo.
Il plastico di Chase sortì l’effetto desiderato e noi abbattemmo tutti quelli che stavano sopraggiungendo dall’esterno del perimetro. Capitan America ordinò di penetrare attraverso il portone e poi si gettò all’interno delle mura, noi lo seguimmo a ruota.
Il tragitto che ci separava dall’hotel non era lungo e, sinceramente, mi sarei aspettato di trovare più resistenza. Qualche nazi sbucava fuori da un angolo, ma veniva freddato ancora prima che potesse prendere la mira. In poco tempo eravamo arrivati tutti sotto l’edificio, nessuna ulteriore perdita, solo un paio di feriti leggeri.
Capitan America fece dei gesti e ci dividemmo in due squadre, una seguì Cap verso l’entrata principale, a sud, e l’altra, comandata da Powell, aggirò l’edificio e si portò sul retro. Io ero nella seconda.
Sfondammo la porta del magazzino sul retro e ci catapultammo all’interno. Non facemmo in tempo ad entrare tutti che una dozzina di guardie ci piombarono addosso. Il capitano si beccò un proiettile sopra la spalla, ma ne abbatté tre o quattro da solo. Io ero rimasto indietro, vidi sopra le spalle dei miei compagni alcuni cadere. Non riuscii a riconoscerli, era tutto veloce e la mia vista era impastata dal sangue di Ross. Per un attimo mi sembrò di riconoscere Chapman tra i cadaveri dei nostri rimasti a terra dopo aver abbattuto quel gruppo di resistenza.
L’interno dell’hotel sembrava deserto, ci dirigemmo verso la sala da pranzo. In lontananza si potevano udire spari, probabilmente anche il gruppo di Cap doveva aver incontrato dei soldati.
La sala da pranzo era immensa e ben illuminata, tutti i tavoli erano imbanditi a festa, ma non c’era nessun commensale che potesse rimirare quello splendore. Solo ad un tavolo c’era qualcuno. Era un grosso tavolo circolare ricoperto di ogni ben di Dio e tutt’intorno c’erano una decina di ufficiali tedeschi con le loro donne e un piccolo uomo, elegante, era il dottor Albrecht. Alle sue spalle, adiacenti al muro, si ergevano immobili otto soldati.
Appena i gerarchi ci videro, si alzarono in piedi, ma non fecero resistenza. Anche i soldati erano immobili. Mi soffermai parecchio sui loro volti: erano tutti uomini di una certa età, alcuni appesantiti dagli anni, altri ancora in forma. Ce ne erano alti e magri e altri più bassi e robusti. Ma erano degli esseri umani come me. Se non avessero avuto quelle uniformi che li etichettavano come nemici dell’America e dell’umanità, sarebbero stati come i tanti signori di mezza età del mio quartiere ai quali consegnavo i giornali, prima della guerra. Eppure ognuno di loro, nessuno escluso, ne ero certo, aveva ordinato omicidi, torture e barbarie. Erano demoni dalle sembianze umane. Poi arrivò anche Cap e la sua squadra. Ad una prima occhiata, sembrava non mancarne nessuno.
Le due squadre si strinsero attorno al gruppo di nazisti con le armi spianate, vedevo le mani dei miei compagni tremane su quei grilletti. Ognuno di noi fremeva dalla voglia di fare fuori quei mostri che ci guardavano con superiorità, ma la presenza di Cap fece resistere tutti all’impulso.
Albrecht ci guardava e sorrideva. Tra le otto guardie alle sue spalle c’era anche la nostra spia, ma non seppi mai chi era tra quelli. Cap si avvicino al dottore, gli disse che avrebbe dovuto condurci ai laboratori nei quali stava lavorando per il regime. Il dottore continuava a fissarlo immobile, come se non temesse l’eroe bianco, rosso e blu che aveva davanti. Era un folle.
Poi Albrecht fece un gesto che mi colpì. Fu un movimento breve, minimo, quasi impercettibile. Non seppi mai se qualcun altro lo avesse visto oltre a me. Il dottore tocco il gemello che portava al polso destro, solo dopo mi dissero che aveva azionato un comando nascosto nel polsino, e poi accadde qualcosa che mai mi sarei sognato di vedere in vita mia, qualcosa di ancora peggiore di ciò che avevo vissuto fino ad allora.
Gli otto soldati nazisti iniziarono a contorcersi e a urlare in preda al dolore. Il comando del dottore aveva attivato qualcosa presente nelle loro uniformi, un siero o qualche altra loro diavoleria, e quelle guardie iniziarono a trasformarsi sotto i miei occhi esterrefatti. Ovviamente anche cosa fosse successo a quei soldati ci venne spiegato solo in seguito, ma ti assicuro che anche averlo saputo prima non mi avrebbe aiutato a sopportare quello spettacolo.
Le ossa si ingrandirono e gli arti si deformarono, le uniformi esplosero sotto l’impeto di una tale metamorfosi. La testa divenne più grossa e deforme e il volto si riempì di zanne. Erano diventati alti più di due metri. Poi vomitai.
Albrecht approfittò della confusione creata dai suoi mostri e fuggì verso la porticina che conduceva alle cucine. Cap, Bucky e molti dei miei compagni ingaggiarono uno scontro con le creature e con gli ufficiali. Powell, Lazzaro e altri quattro si fiondarono all’inseguimento del dottore. La vista di quelle creature mi creò una tale repulsione che evitai in tutti i modi di guardarli e seguii Powell nella sua caccia al fuggitivo.
Dietro di me stava avvenendo un massacro, l’unico attimo in cui mi voltai, vidi un braccio mozzato con la divisa dell’esercito americano che veniva gettato nella mia direzione e una di quelle mostruose creature che azzannava alla base del collo uno dei miei compagni. Un altro conato mi travolse e tornai con lo sguardo alla figura di Albrecht che spariva all’interno delle cucine.
Lo inseguimmo per parecchie stanze, per essere un topo da biblioteca correva forte e noi eravamo stanchi, demoralizzati e carichi come muli. Riuscivamo a stargli alle calcagna a malapena. Dalla cucina sterzò bruscamente e si fiondò in una piccola porta che dalla mia posizione faticavo a vedere. Facemmo lo stesso e ci trovammo in un corridoio di servizio, scese una scala che ci portò in un altro corridoio sotterraneo, umido, con le pareti di pietra viva e dei radi faretti che gettavano solo delle tenui macchie di luce qua e là. Il corridoio era lungo e stretto, e  faceva parecchie curve. Si passava in due alla volta e io ero in coda al gruppo, non riuscivo a vedere Albrecht e seguivo solo i miei compagni davanti a me.
Il corridoio si allargò e ci trovammo in una zona avvolta dalla penombra, i faretti erano sempre meno e nessuno vedeva più il dottore. Poi sentii Lazzaro urlare “Di là!” e lo vidi fiondarsi poco più avanti, contro il muro alla nostra destra, Powell lo seguì a ruota.
Benedetta sia la vista dell’italiano, io ci misi parecchio ad abituarmi a quella poca luce. Lazzaro si era accorto di una porzione di muro che si stava richiudendo e lui e il capitano si erano gettati per non farla sigillare. Era un maledetto passaggio segreto, chissà quanti ce n’erano disseminati per tutto l’hotel.
Il meccanismo faceva parecchia resistenza e per aprire la porta si dovettero mettere in quattro a fare forza. Io e gli altri tre rimanemmo di guardia. L’inconveniente della porta ci rallentò non di poco.
Avanzammo cauti, sembrava una sorta di bunker sotterraneo ed era pieno di stretti corridoi e stanze. Una porta davanti a noi era spalancata, la superammo e ci trovammo in una stanza più grande dalla quale partiva un grosso corridoio buio che sembrava senza fine.
Nella stanza c’erano diversi mezzi leggeri, come piccoli camioncini e jeep. Guardai velocemente a destra e a sinistra, ma non notai nulla, quella zona mi sembrava così irreale per essere edificata sottoterra che ero spaesato. Poi vidi Powell e gli altri che si gettavano al riparo dietro casse e mezzi e feci lo stesso. Solo quando sentii degli spari, mi accorsi che Albrecht stava salendo su una delle jeep e ci stava sparando contro con una Luger.
Uno dei miei compagni, un ragazzotto robusto del Sud, fu il più lento a mettersi al sicuro e si beccò una pallottola dritta in fronte, precisa e letale. Powell approfittò del fatto che Albrecht avesse smesso di sparare per posizionarsi al posto di guida del mezzo, uscì da dietro la cassa e sparò un solo colpo di fucile che raggiunse il dottore ad una coscia e lo fece cadere a terra.
Avanzammo verso di lui con le armi spianate mentre uno dei nostri si preoccupava inutilmente di accertarsi delle condizioni del nostro compagno colpito.
Lazzaro con un calcio gli fece volare lontano la pistola e Powell lo alzò di peso torcendogli le braccia dietro la schiena senza troppa gentilezza e senza preoccuparsi della ferita alla gamba.
Quando tornammo indietro con il prigioniero, ci trovammo davanti una carneficina. Non sono mai stato in un mattatoio in vita mia, ma me lo immagino proprio come la sala da pranzo di quell’hotel.
C’erano sangue e pezzi di cadavere sparsi ovunque. Decine e decine di soldati smembrati giacevano a terra. Immersi nel sangue, sembravano tutti uguali, i volti, di quelli che ancora lo possedevano, erano irriconoscibili. I mostri erano tutti morti, come la metà degli ufficiali, gli altri erano nelle mani dei pochi dei nostri ancora in piedi. Tutti erano immobili e silenziosi, anche Cap. Credo che una scena del genere non potesse lasciare indifferente neanche un eroe del suo calibro.
Ci avvicinammo a loro lentamente, rispettando il religioso silenzio di cui era pregna l’aria. Powell si diresse verso Capitan America tenendo ben stretto Albrecht. Io camminavo lentamente, cercando di non calpestare nessuno dei cadaveri in segno di un rispetto che i loro assassini non avevano avuto. Era un’impresa impossibile, tutto il pavimento era ricoperto di morte. Mettevo un piede davanti all’altro e facendolo gettavo uno sguardo ai cadaveri per cercare qualcuno dei miei amici. C’era Smile, il suo corpo era praticamente diviso in due e le budella incorniciavano il suo volto. Spero che nessuno mi vide in quell’occasione, avrebbero pensato male di me, che fossi crudele o impazzito, ma quando fissai il volto del mio amico, sorrisi.
Non perché fossi felice, ovviamente, ma perché non ricordo un solo istante in cui Smile non stesse sorridendo e, vedendo il suo volto privato del suo solito sorriso, mi era sembrato come se gli equilibri del mondo, del mio mondo almeno, stessero venendo meno e mi ero sentito in dovere di riequilibrare la situazione. E poi le prime luci dell’alba si posarono su di noi.

[ CONTINUA ]