- Parte 2 di 6 -

QUANDO DIVENNI UN UOMO

 

di Andrea Garagiola

 

Presente. Hell’s Kitchen, New York. Il caldo è insopportabile. Jimmy Doyle si sta chiedendo da più di mezz’ora quando il vecchio Donald Carter, il padrone di casa, si deciderà ad offrirgli un bicchiere di the freddo o di limonata. Ma il burbero Carter continua imperterrito con il suo racconto e non dà segno di voler smettere per esaudire il desiderio del ragazzo. Per Jimmy, interromperlo per chiedergli qualcosa da bere è assolutamente fuori discussione. Dopotutto, è stato lui ad introdursi di soppiatto a casa del vecchio per cercare di rubargli la protesi alla gamba per vincere una stupida scommessa con Buddy Brown, e ora il minimo che può fare, è ascoltare il racconto del vecchio senza fiatare. O quasi.
- Quanti compagni ha perso quella notte? E i tedeschi quanti erano? - Jimmy, accantonando il pensiero del refrigerio che una bevanda gelata potrebbe dargli, è sempre più preso dal racconto di Carter. E vuole sapere ogni minimo particolare.
- Sei troppo giovane per essere così impaziente, ragazzino. Quando avrai la mia età e non avrai più il tempo materiale per fare tutto quello che vuoi, cosa farai? -
- Io volevo solo... -
- Chiudi il becco e lasciami continuare! -

 

24 Gennaio 1944. Dopo aver toccato il suolo, impiegai alcuni minuti per trovare il coraggio di aprire gli occhi e rimettermi in piedi. Il paracadute mi ricopriva interamente e sotto di esso mi sentivo al sicuro, nonostante intorno a me sibilassero i proiettili e i soldati urlassero e imprecassero. Quando mi rimisi in piedi era passata da poco la mezzanotte. Feci qualche passo nella notte e inciampai su qualcosa. Era buio pesto, ma capii che era un uomo con la faccia riversa nel fango, era uno dei miei compagni. Lo chiamai e cercai di girarlo a pancia in su. Fu il primo cadavere che vidi così da vicino. Ero al limite. Quando il mio sguardo si posò sul suo ventre aperto e sulle viscere che si facevano strada tra la carne e il sangue, quel limite venne superato e vomitai tutta la paura e parte della cena per terra. Non so perché, ma, in quel momento così assurdo, l’unico pensiero fu quello di portare il corpo di quel ragazzo al sicuro. Non riuscivo a sopportare il pensiero di lasciarlo lì, sulla nuda terra, a marcire. Lo presi per la giacca e lo trascinai fino a delle grosse rocce. Il terreno era fangoso e scivoloso, il peso del cadavere non aiutò la mia stabilità e caddi come un sacco di patate. Nel cercare un appiglio per rialzarmi, strappai la giacca del soldato morto e trovai un piccolo lembo di carta che spuntava da una tasca interna dell'indumento. Presi la lettera che custodiva vicino al suo cuore e scoprii che erano le ultime parole di quel ragazzo all’altra metà del suo cuore che era rimasta in America. Elizabeth, era il nome della ragazza. Nella lettera la rassicurava che stava bene, che la guerra stava per volgere al termine e le prometteva che al suo ritorno l’avrebbe finalmente sposata. Non sarebbe mai accaduto. Trattenni le lacrime a fatica e mi infilai la lettera nella tasca della giacca. Non potevo fare nulla per il cadavere martoriato di quel ragazzo, ma forse potevo fare qualcosa per Elizabeth. Decisi che, alla fine della guerra, sempre che fossi riuscito a tornare, cosa che feci come puoi ben vedere, avrei portato a quella giovane ragazza la lettera del suo defunto promesso sposo.
Il mio sguardo e la mia mente erano imbambolati sul cadavere e sulla lettera, tutto era ovattato intorno a me. Non mi accorsi nemmeno di qualcuno che mi arrivò alle spalle e mi strattonò, spingendomi a terra, al riparo dietro i massi. Era il capitano Powell. Ero stordito e disorientato, la mia faccia era a pochi centimetri dal cadavere e sentivo l'odore di morte che mi si insinuava violentemente nelle narici. Sentivo il capitano urlare ordini a destra e sinistra. Rimanemmo al riparo per un bel po’ e altri compagni ci raggiunsero. Eravamo una ventina, anche Slim e Eddie “Tank” Turner erano dei nostri. Powell ci disse che i superstiti si stavano raggruppando in diverse squadre e che avremmo dovuto sfondare la contraerea nemica che ci aveva appena abbattuto per raggiungere il grosso della compagnia e Capitan America che si trovavano al di là della collina, dietro alle batterie tedesche.
Quando fummo certi di aver raggruppato tutti i ragazzi che erano sparpagliati in quella zona, ci mettemmo in marcia. La vista si era abituata alla buia notte e vidi in lontananza le sagome dell’avamposto nazista che aveva fatto tiro al bersaglio con i nostri aerei. Non era tanto grosso, ma quei cani avevano a disposizione quattro FlaK 38 e parecchie mitragliatrici di grosso calibro. Oramai tutti i nostri aerei erano stati abbattuti o se ne erano andati dopo averci fatto paracadutare, ma dovevamo comunque distruggere quell’avamposto per poter proseguire verso sud. L'artiglieria crucca era posizionata su un rialzamento roccioso che separava la costa dall'entroterra.
Mentre ci muovevamo di soppiatto sul limitare della boscaglia che circondava quelle colline, riuscimmo a scorgere altre due squadre dei nostri: una composta da una ventina di uomini, come la nostra, l’altra molto piccola, non arrivavano alla decina, che si avvicinavano all’obiettivo. Il capitano ci fece segno di procedere più all’interno del bosco per poi sbucare solo in prossimità della postazione tedesca.
Eravamo ancora immersi nella vegetazione quando sentimmo dei colpi di fucile e poi un’esplosione. Una delle due squadre che avevamo visto poco prima doveva aver già sferrato un primo attacco. Due minuti dopo gli stavamo dando man forte.
Appena il capitano Powell diede l’ordine di attaccare, Tank si gettò fuori dalla vegetazione urlando come un guerriero vichingo e sparando all’impazzata. Noi tutti lo seguimmo. Piombammo alle spalle dell’avamposto impegnato a difendersi dall'altra squadra che li aveva attaccati. Mentre riempivamo di piombo quei vigliacchi, anche la seconda e una terza squadra, che prima non avevamo visto, ci avevano raggiunti. I crucchi fecero del loro meglio, ma quei mangia-crauti non valevano nemmeno quanto uno di noi e, prima dell’alba, l’avamposto era stato conquistato e ci eravamo ricongiunti con Cap e il resto della Freedom. Avevamo perso due ragazzi e Lloyd Holland era rimasto ferito ad un braccio, ma Harry “Doc” Zborowski, uno dei nostri medici, ci assicurò che non era grave, avrebbe potuto tranquillamente seguirci e sarebbe tornato presto a combattere.

27 Gennaio 1944. Per due giorni ci addentrammo a testa bassa nel territorio belga. Quando eravamo partiti, pensavamo che i nostri unici avversari sarebbero stati i nazisti, ma in quei due giorni ne incontrammo uno più tenace e, se possibile, anche più crudele: il freddo. L’inverno belga ci colse impreparati, non eravamo abituati a quelle temperature così violentemente basse. Data la stagione avevamo con noi l’equipaggiamento invernale, ma non era abbastanza per tenere lontano dal nostro corpo quel nemico così insidioso. Molti di noi avanzavano a fatica, le dita delle mani e dei piedi e il volto erano assediati dai geloni. I medici, quando potevano, distribuivano bevande calde, ma la marcia serrata ci concedeva poco tempo per prenderci cura di noi stessi. L’unica cosa che ci faceva andare avanti, almeno per quanto mi riguarda, era fissare lo scudo bianco, rosso e blu, e l'uomo che lo portava, alla testa della compagnia. Lui non sembrava mai stanco o demoralizzato, marciava fiero davanti a noi e illuminava il nostro cammino.
A metà del secondo giorno di marcia giunse una comunicazione via radio da parte di un gruppo di agenti alleati che si erano infiltrati nel paese e si erano uniti alla resistenza belga a Diksmuide, una cittadina poco più a sud della nostra posizione. Ci dissero che la zona non era di grande interesse per i tedeschi e la città non era ben difesa, gli agenti avevano saputo della nostra missione e ci attendevano per i rifornimenti. Ci avrebbero nascosto per la notte, offerto un pasto caldo e un po’ di riposo su dei veri letti. Era un sogno per la compagnia. La notizia aveva ridato ai nostri corpi la forza di mettere di nuovo un piede dopo l’altro e alla nostra mente la motivazione per non cedere.
Per i chilometri che ci separavano da Diksmuide marciammo spediti e rinvigoriti dalla bella notizia. Al tramonto riuscivamo a scorgere in lontananza le prime case che spuntavano dalla bassa nebbia che avvolgeva il paese. L’effetto era un po’ spettrale, ma eravamo affamati e sfiniti, non sarebbe certo stato un paesaggio da film dell’orrore a fermarci. Ma, ahimè, quella cittadina aveva ben altro che il paesaggio da condividere con un film dell’orrore.
Quello che trovammo all’inizio era un paese fantasma. La nebbia ci seguiva ad ogni passo e le nostre caviglie ne erano costantemente avvolte. Eravamo penetrati in quella città con entusiasmo, ma, ad ogni metro percorso, nei nostri cuori tornava vivo lo sconforto dei giorni precedenti. Il paese riportava i segni indistinguibili del passaggio della guerra sui suoi edifici, ma nulla che facesse pensare ad uno scontro recente. A Diksmuide ci sarebbe dovuta essere gente per le strade che cercava in qualche modo di mandare avanti la cittadina e la propria vita nonostante l’orrore che li circondava e almeno un piccolo contingente crucco a difesa , invece nulla. Solo vuoto e silenzio.
Superati i primi isolati di costruzioni, la nostra formazione si aprì. Iniziammo a guardare dentro le case, bussammo ad ogni porta e finestra, ma nessuno di noi osava parlare ad alta voce, il silenzio era pesante e ci sovrastava, solo l’idea di romperlo ci metteva i brividi. Le case che stavamo perlustrando erano vuote. Il capitano Powell fece segno alla compagnia di cercare in ogni posto qualche traccia di vita. Spaventati, eseguimmo l’ordine, ma volevamo restare tutti uniti, ci muovevamo a gruppetti e cercavamo di non perdere mai di vista i compagni. Controllammo centinaia di case. Io stesso, insieme a Topper e Smile, ne perlustrai almeno una dozzina. Erano tutte uguali, nessun segno di vita, né di morte, e nessun segno di violenza o devastazione.
Ci ritrovammo tutti nelle vie di quello che poteva essere il centro del paese e lì trovammo l’orrore: i nazisti avevano preparato un tale spettacolo che le budella del soldato morto che avevo visto qualche giorno prima non erano nulla a confronto. I cadaveri di tutti i cittadini di Diksmuide erano ammassati in grottesche, e alquanto ripugnanti, montagne di sangue e carne. Uomini, donne e bambini, tutti trucidati indistintamente dalla follia nazista. Il freddo pungente e la morte recente non avevano permesso al puzzo dei cadaveri di avvisarci in tempo per non farci finire in quel maledetto inferno. Non c’era nessun agente alleato ad attenderci, era solo una trappola nazista.
Al nostro arrivo uno stormo di corvi si levò in volo e ruppe il silenzio spettrale che ci seguiva da quando avevamo messo piede in città. Poi ci fu un sibilo e un proiettile perforò la gola di uno dei nostri. Il capitano Powell urlò: “Cecchino!” e tutti ci gettammo al riparo. Sopra di noi si riversò una tempesta di piombo.
Ero rannicchiato dietro ad una porzione di muro crollato, ovunque mi girassi vedevo compagni che cadevano a terra sotto i colpi dei nemici nascosti alla vista. Topper, Leon e Sullivan si ripararono anche loro dietro un muro, dalla parte opposta della strada, ma una raffica li falciò. Sullivan, il più fortunato, venne preso di striscio e perse solo tre dita della mano destra. Topper e Leon vennero crivellati dalla testa ai piedi.
Con me, dietro a quel pezzo di muro diroccato che stavo per iniziare a chiamare “casa”, c’era Rupert Harrison. Mi batté il pugno sulla spalla per richiamare la mia attenzione e mi indicò le finestre del piano superiore di una casa, una decina di metri davanti a noi in linea retta. Da quelle finestre c’erano due o tre cecchini e alcuni mitraglieri che stavano prendendo di mira un gruppetto dei nostri che cercava di avanzare passando da un edificio ad un altro. Era già da mezzo minuto che non sentivamo arrivare colpi diretti verso di noi e ci sentimmo abbastanza sicuri a sporgere testa e fucili dal nostro amato muro. Coprimmo lo spostamento della squadra sparando contro le finestre. Riuscimmo a mettere fuori gioco i cecchini. La mitragliatrice si girò dalla nostra parte e sputò tanto di quel piombo rovente che, se raggruppato, sarebbe pesato più di me ed Harrison assieme. Ed era tutto diretto contro le nostre teste. Ci buttammo a terra appena in tempo e il muro dietro cui avevamo trovato rifugio venne divorato dal fuoco tedesco. Avevamo le facce a terra, con le mani stringevano forte in testa l’elmetto per difenderci dai detriti che il muro ci lanciava contro. Sentimmo l’inconfondibile urlo di guerra di Tank, poi un’esplosione e la mitragliatrice che ci aveva preso di mira tacque per sempre. Quando ci rialzammo, Tank era sotto l’edificio dei cecchini e ci mostrava il suo sorriso e il pollice alzato. Ricambiammo il sorriso e lui girò l’angolo. Lo sentimmo sparare e urlare ancora per un po’. Il suo amore per le bombe a mano ci aveva salvato la vita.
Quattro dei nostri diedero la vita per contrastare un’altra squadra di nazisti che stavano sparando nella nostra direzione. Questo permise a Sullivan di raggiungerci e subito dopo arrivò anche il giovane Chuck, il più basso e secco soldato che l’esercito americano abbia mai visto. Sarà stato piccolino, ma Chuck aveva l’energia di un leone e le palle quadrate. Sullivan si tamponava le ferite mentre noi sparavamo contro i quattro nazisti che stavano puntando dritti verso di noi. Ne colpii uno all’addome e Chuck falciò le gambe di un altro. Gli altri due ci scaricarono addosso i fucili poco prima di essere attaccati alle spalle dal capitano Powell e da una decina dei nostri. “Avanti, ragazzi, dobbiamo riunirci!” urlava verso di noi mentre abbatteva altri due crucchi che erano sbucati da un vicolo. “Questi bastardi spuntano ovunque, dobbiamo ricompattarci altrimenti siamo fregati.” Senza farcelo ripetere due volte, tutti e quattro lo seguimmo.
Quando raggiungemmo il grosso della compagnia, assistemmo ad uno spettacolo che pochi avevano avuto l’onore di vedere: Capitan America si gettò contro un gruppo di venti o trenta soldati, non sto esagerando, quella vecchia furia a stelle e strisce, armato solo del suo portentoso scudo, riusciva a tenere testa a decine e decine di nazisti. Era l’essenza di tutto quello per cui eravamo lì, era il nostro ideale fatto uomo. Vedevamo la nostra amata bandiera impressa sul suo scudo che era immune al piombo tedesco e, al suo passaggio, il male che quei soldati rappresentavano veniva spazzato via. Non saprei descrivere quello che Cap riusciva ad infondere nei nostri cuori, ma se sono qui a raccontarti questa storia, se la guerra è stata vinta e il mondo è libero dal giogo di Hitler è solo grazie a lui.
Ci riunimmo nelle strade che portavano alla piazza del paese, davanti a noi si stavano ammassando centinaia di soldati grigi, crudeli e desiderosi di sangue americano. Mentre la marea nazista si avvicinava inesorabilmente, tutti noi guardavamo Capitan America, in attesa delle sue istruzioni. I tedeschi iniziarono a fare fuoco e ci dovemmo nascondere nuovamente.
Durante l’addestramento non avevo legato molto con Harrison, non che ci fossero rancori particolari o antipatie, solamente non c’era mai stata occasione di essere più che semplici compagni. Ma gli ultimi avvenimenti ci unirono particolarmente, non ci scambiammo nessuna parola, ma combattemmo fianco a fianco per ore finché un colpo di mortaio non cadde vicino a noi. Le gambe di Harrison sparirono dalla mia vista e il suo corpo martoriato mi fece da scudo. Caddi a terra, con un tremendo sibilo nelle orecchie e qualche lieve escoriazione. Nulla in confronto agli indelebili segni incisi sul suo povero cadavere. Ace mi trascinò al riparo e mentre, disorientato, mi guardavo intorno, vidi una nuova arma tedesca che terrorizzò la maggior parte di noi. Il colpo di mortaio che aveva ucciso Harrison e altri due dei nostri era stato lanciato da una macchina meccanica apparsa da dietro una casa. Era grande circa tre volte un essere umano, era di metallo corazzato con impressa la Croce di Ferro nazista. Aveva grosse gambe che polverizzavano tutto quello che incontravano lungo la strada e le braccia erano un intero arsenale: mitragliatrici, lanciagranate, lanciafiamme e ogni altra diavoleria che gli ingegneri tedeschi avevano a disposizione. Al posto del volto c’era un vetro e al di là un soldato tedesco che governava quel marchingegno come se fosse stato un’estensione del suo corpo. Quando questi mostri meccanici iniziarono a moltiplicarsi, arrivando da ogni parte della cittadina, sentii sull’anima la carezza fredda della morte. Non avrei scommesso un centesimo che sarei sopravvissuto a quella gelida notte.
Cap non si fece intimorire e puntò dritto contro la più vicina di quelle macchine di morte. “Non fermatevi, soldati. Questa notte vinceremo perché Dio e l’America sono con noi! Stiamo combattendo nel nome della pace e della libertà, non falliremo!” Schivò rapidamente i colpi di mitragliatrice della creatura meccanica e con un balzo raggiunse la cabina di pilotaggio. Il suo scudo colpì più volte il vetro mentre il pilota faceva divincolare il mezzo per farlo cadere a terra, ma la presa di Capitan America era salda come la sua fede per gli alti ideali che rappresentava. I colpi dello scudo erano potenti e precisi e il vetro antiproiettile cedette. Cap prese il soldato al suo interno e lo scagliò a terra, impossessandosi del mezzo.
Nel frattempo noi tutti avevamo risposto al fuoco. Nonostante fossimo in minoranza, riuscimmo a rallentare l’avanzata tedesca. Io sparavo verso i cattivi e non pensavo ad altro che a rivedere il sole il mattino dopo. Tank e un altro soldato schivarono una granata lanciata da una delle micidiali macchine e si diressero verso una jeep tedesca. Correvano dritti verso i nemici e sparavano. Gli occupanti del mezzo caddero sotto i colpi dei due valorosi americani, ma uno dei crucchi con meno voglia di finire all’inferno degli altri, prima di abbandonare questo mondo per sempre, riuscì a sparare una raffica di mitragliatrice che mancò di pochi centimetri Tank, ma colpì in pieno volto il suo compagno. Tank, sempre più furioso, montò sulla jeep e la diresse contro una delle grosse macchine meccaniche tedesche e contro alcuni soldati che marciavano al suo fianco. Incurante dei proiettili nemici, Tank puntava dritto sul suo obiettivo. Il mezzo era completamente crivellato di colpi, ma Tank, miracolosamente, era illeso. All’ultimo momento, lasciò cadere sulla jeep due granate e si gettò a terra. La jeep impattò contro le gambe del mostro e la zona venne investita da un’esplosione che lasciò a terra decine di nazisti e uno dei mezzi meccanici. Tank si era salvato, ma non lo rividi fino alla fine della battaglia.
I compagni a terra erano sempre di più e quelli al mio fianco che ammazzavano tedeschi erano sempre meno. Ma anche quei luridi figli di cagna stavano iniziando a cedere e alcuni erano anche fuggiti. E noi avevamo guadagnato terreno. Allo spuntare della debole luce dell’alba, Capitan America riuscì ad abbattere anche l’ultimo dei mezzi meccanizzati. Urlando fuori tutta la nostra rabbia e disperazione e sparando all’impazzata, ci mettemmo a caccia degli ultimi crucchi che cercavano invano di farci fuori o di fuggire. Nonostante la nostra evidente inferiorità numerica e la presenza delle letali macchine da guerra, la giustizia ci aveva assistito e ci aveva consentito di primeggiare sul nemico.
Il sole tanto agognato tornò ad illuminarmi il viso. Era un sole debole, coperto dal grigiore invernale, ma fu abbastanza per procurarmi un brivido piacevole lungo la schiena e riscaldarmi il cuore. I tedeschi erano stati sconfitti e la compagnia Freedom era sopravvissuta a quella trappola mortale. Avevo le labbra e la gola secca, trangugiai avidamente un lungo sorso d’acqua dalla borraccia e mi guardai intorno: a terra c’erano decine e decine di amici morti, Doc e gli altri medici che correvano a destra e sinistra per assistere i feriti che agonizzavano ovunque. Ace mi passò di fianco, mi poggiò una mano sulla spalla e scrollò la testa. Non avevo mai visto quello sguardo su Ace, mai vista tanta paura e disperazione nei suoi occhi. Si appoggiò al muro di una casa e si accese una sigaretta. Poi scoppiò a piangere.
Avevamo perso tanti compagni e amici. Era stata una battaglia crudele e violenta, ne eravamo usciti vincitori, certo, ma a quale prezzo? L’orrore visto qualche giorno prima sulla costa non era stato nulla a confronto e dentro di me sapevo che nei giorni a venire mi avrebbero atteso altre prove difficili, se possibile ancora più ardue di questa. Dovevo solo tenere duro e ricordarmi che stavo combattendo dalla parte giusta e che solo la fede nella bandiera e nella libertà mi avrebbe guidato in questo buio inferno. Ormai non potevamo più tornare indietro, non eravamo più i ragazzi usciti da Camp Claiborne. Quella notte, chi aveva avuto la fortuna di sopravvivere, era diventato un uomo.
Guardai il sole all’orizzonte e mi lasciai inondare dai suoi raggi. Vidi che Capitan America, Bucky e il capitano Powell stavano discutendo davanti ad una cartina stesa sul cofano di una delle jeep tedesche. Mi fermai ad osservare Capitan America, così fiero e possente: invincibile. Avrei voluto tanto essere come lui e non essere perseguitato dalla paura e dal dolore. Stavo quasi per cedere e scoppiare in lacrime, ma Lazzaro mi chiamò. Lui e Jeremy Ross avevano bisogno di me per trasportare dei feriti. Fare qualcosa ed essere utile ai miei compagni mi avrebbe aiutato a tirare avanti anche in quel giorno funesto.


[ CONTINUA ]