- Parte 3 di 6 -

QUANDO RITROVAI LA SPERANZA

 

di Andrea Garagiola

 

Presente. Hell’s Kitchen, New York. Finalmente il vecchio Carter si è deciso ad offrire a Jimmy un bicchiere di the freddo per placare l’arsura. Gli ha indicato il frigorifero e il mobiletto con le stoviglie e il giovane ha versato prima la bevanda a Carter e poi ha preparato la sua. Il bicchiere sa di vecchio e il the ha un cattivo sapore, l’espressione di Jimmy non lo nasconde.
- Che c’è, ragazzino, non ti piace? -
- Eh? Ah... No, no.. È squisito... - Con un sorriso nasconde la menzogna e la sua mente torna a fantasticare sull’eccitante racconto del vecchio.
- Ti sto annoiando, allora? -         
- No, no, signore. Stavo solo... -
- Ah, ecco! Ci mancherebbe altro. Non ho certo intenzione di sprecare fiato con uno stupido moccioso, perlomeno che ti rimanga qualcosa in quella testolina bacata. Vabbè, continuiamo... Dov’ero rimasto?... Ah, sì, ecco...-

 

05 Febbraio 1944.  La discesa verso il sud del Belgio fu faticosa ed estenuante. Era più di una settimana che marciavamo ininterrottamente al freddo, immersi nella neve. Sulla nostra strada incontravamo solo il nulla e la morte, stavamo seguendo una scia di distruzione lasciata dai tedeschi. Ogni paese che incontravamo era deserto e distrutto. Nessun posto caldo dove riposare o fare rifornimento. Le nostre scorte di cibo e munizioni scarseggiavano pericolosamente.
Dopo il tremendo scontro a Diksmuide non incontrammo nessuno ostacolo. Nessun amico né nemico, nemmeno un civile. Solo qualche rumore di animale in lontananza, ma non credo che qualcuno di noi sia mai riuscito a vederne uno. Tutto sembrava privo di vita.
La compagnia Freedom era ormai dimezzata dopo la battaglia contro le macchine meccaniche dei nazisti. Molti amici e compagni erano rimasti là, tra le rovine del paese, riversi nella neve in attesa che i corvi banchettassero con i loro cadaveri.
Capitan America ogni giorno ci rinfrancava gli animi con i suoi discorsi carichi di passione e grandi ideali. Riusciva a trasmetterci calore e forza, non so come avremmo potuto affrontare tutto ciò senza di lui. Senza la sua guida.
La vittoria a Diksmuide non aveva certo assicurato a tutti i superstiti la vita. Tredici di noi morirono in seguito alle ferite riportate durante la battaglia, altri sei ci lasciarono a causa di una brutta polmonite durante quella settimana. Tra le truppe si stava insinuando un altro male tremendo: il terrore e lo sconforto. Dopo quel tremendo scontro, la compagnia non fu più la stessa. Tra i ragazzi erano soventi crisi di nervi e di panico.
Le ultime tre notti sentii Parker piangere per ore ed ore. Quel pianto era frutto delle stesse paure e angosce che assillavano anche me. Quelle notti non riuscii a dormire e ascoltai ogni singolo singhiozzo di quel povero ragazzo e lo feci mio. Accompagnai quel suo sfogo con un pianto silenzioso. L’ultima notte, dopo più di due ore di lacrime, lo sentii urlare ed inveire contro il suo compagno di buca. Quelle dannate fosse che scavavamo ogni sera come giaciglio sembravano delle piccole e scomode tombe, immagino l’effetto deflagrante che possano aver avuto sull’animo fragile di Parker. Il suo compagno quella sera forse era troppo stanco per sentirlo strillare tutta notte e aveva cercato di calmarlo per riuscire a riposare un paio d’ore o forse gli aveva urlato contro dicendogli che era una femminuccia e un piagnone, questo non lo seppi mai, fatto sta che ad un certo punto udii l’inconfondibile rumore di un’arma che si carica e tanto trambusto. Da dov’ero io il buio non mi permetteva di vedere cosa accadeva ed ero troppo spaventato per uscire dal giaciglio. Altri lo fecero e introno alla buca di Parker si riunirono decine di soldati. Uno di questi gli urlò di mettere giù il fucile, ma Parker tra un singhiozzo e l’altro gli urlò indecifrabili parole di disperazione e poi, come per mettere un punto esclamativo alla sua frase, sparò. Sentii il corpo di quello che aveva parlato cadere senza vita nella neve. Tutti ci avvicinammo per vedere cosa accidenti stesse succedendo.
Il compagno di Parker, Chase, lo implorava di togliersi il fucile dalla bocca e posarlo a terra, ma lui non lo ascoltò. Quando mi avvicinai abbastanza per vedere, scorsi Cap e il capitano Powell che correvano verso Parker per cercare di salvarlo poi, quando i due furono alle sue spalle, udii lo sparo.
Le ultime cose che ricordo di quella notte furono il sangue e il cervello di Parker imbrattare lo scudo lucente di Capitan America.

06 Febbraio 1944.  Eravamo tutti scossi per quello che era accaduto la sera prima, ma nessuno osava commentare l’accaduto. La stessa cosa avrebbe potuto ripetersi una delle notti successive. Tutti eravamo potenziali vittime della follia che stava dilagando tra di noi. Viaggiammo per tutta la giornata nel silenzio più totale, solo qualche brusio sommesso serpeggiava tra le fila. Nemmeno Cap e il capitano Powell avevano la forza di dire qualcosa, se non qualche sporadico ordine e nulla di più.
Quando il sole sparì dietro le montagne, il buio che ne seguì mi terrorizzò come non era mai accaduto da quando mi ero imbarcato in quella tremenda missione. La notte era il momento più brutto, almeno per quanto mi riguarda, non si riusciva a vedere nulla e se venivamo attaccati dovevamo rispondere al fuoco alla cieca senza mai riuscire a capire da dove diavolo arrivasse il piombo crucco. Ma da quel giorno, oltre alla consueta angoscia portata dalle tenebre, si aggiungeva il terrore che un altro dei compagni potesse perdere la ragione e togliersi la vita o toglierla a qualcun altro. Ogni sera poteva accadere a Lazzaro o a Smile. O a Chuck. O a me. Ricordo che in quel momento sperai che non ci saremmo più dovuti accampare per la notte, che avremmo marciato e lottato fino alla fine della guerra.
Poi sentii dei rumori dalla testa del gruppo. Qualcuno che correva verso Cap, Bucky e Powell. Credo fosse Slim. Era agitato, veniva dall’avanscoperta. Sicuramente qualche guaio. E guai significavano niente sonno, il mio incubo avrebbe aspettato per un po’.
Mai avrei creduto di tirare un sospiro di sollievo nel sentire Powell che ci informava che non ci saremmo potuti accampare per la notte. Poche miglia più avanti, dietro la collina che c’era vicino a noi, si trovava un piccolo paesino, di cui non ricordo minimamente il nome, dove si era asserragliato un manipolo di partigiani belgi che aveva eretto un avamposto per contrastare i tedeschi nella zona. Quell’avamposto era assediato e i nostri esploratori avevano contato almeno una mezza dozzina abbondante degli stessi robot che avevamo incontrato a Diksmuide e almeno un’ottantina di soldati nazisti.
Non perdemmo tempo, nel giro di una decina di minuti, un quarto d’ora al massimo, eravamo già divisi in varie squadriglie e avevamo circondato il paesino. Tenendoci ovviamente a debita distanza. Le case avevano le luci accese e i fuochi degli scontri aiutavano ad illuminare la zona, la visuale non era poi tanto male per essere sprofondati nel buio della notte belga.
Nel gruppo con me c’erano Slim, il piccolo Chuck, Cage, Loebster e altri quattro o cinque ragazzi. Io chiudevo il gruppo sul lato destro. Tra le altre cose, dovevo assicurarmi di avere sempre sott’occhio la squadra di compagni che avanzava sul nostro fianco destro.
Avanzavamo nel buio silenziosi e veloci, senza emettere il minimo rumore. Quando il mio gruppo raggiunse le prime case, ci imbattemmo in una piccola squadra di crucchi che stava trasportando delle casse dal retro di un grosso camion verso la zona degli scontri, nel centro del paese. Maneggiavano il carico con cura, forse erano bombe o missili per quelle dannate macchine da guerra.
Ci rifugiammo tutti dietro alle mura di una casa, indecisi sul da farsi. Cage propose di attaccarli, erano solo un paio più di noi, ma avremmo avuto il fattore sorpresa e la maggior parte di loro sarebbe caduta dopo la prima raffica. Una volta vinto lo scontro avremmo potuto saccheggiare il contenuto delle casse, sicuramente avremmo trovato qualcosa di utile. Slim fermò l’entusiasmo di Cage sostenendo che avremmo dovuto attendere il segnale del capitano Powell o di Capitan America prima di attaccare, altrimenti avremmo compromesso il nostro vantaggio tattico. Io rimasi in silenzio, continuavo a fissare il compagno più vicino a noi della squadra che stava alla nostra destra, loro erano rifugiati dietro ad un fienile.
Poi li vidi agitarsi, da un’altra parte del paese iniziai a sentire delle urla e degli scoppi più forti. Fucili mitragliatori che urlavano come impazziti. I nazi con le casse si immobilizzarono per un istante, poi, dopo una ventina di secondi, anche la squadra che stavo fissando si mosse con i fucili spianati e sparì dalla mia vista, dietro il fienile. Il segnale d’attacco atteso da Slim era presumibilmente giunto, e il “Fuoco, ragazzi!” che Cage stava trattenendo in gola da tempo finalmente uscì.
Investimmo la dozzina di crucchi con il nostro piombo, più della metà rimasero a terra immobili, gli altri risposero al fuoco e si fiondarono al riparo. Prima sparammo, poi ci venne in mente che forse avremmo dovuto essere più cauti per evitare di colpire le casse. Un proiettile vagante penetrò una di esse e, in un attimo, una gigantesca esplosione ci investì, noi e loro senza fare preferenze, gettandoci tutti a terra. Il boato assordante che ne seguì mi fece vacillare e per almeno un minuto rimasi immobile, a terra, quasi sordo e senza la minima preoccupazione di poter essere crivellato dai nazi dato che ero nel bel mezzo della strada senza la minima protezione. Fui fortunato.
Altri un po’ meno: uno dei miei compagni era poco distante da me, completamente infilzato da schegge di metallo grandi come un pugno, mentre Loebster, che era il più vicino dei nostri durante l’esplosione, si era ritrovato senza gambe e senza bacino, oltre che con la sua dose di schegge metalliche che gli squarciavano il corpo. Uno spettacolo terribile. Scoprimmo solo in seguito che le casse contenevano dei missili al fosforo bianco per le mostruosità meccaniche, fatte apposta per investire i nemici di dilanianti schegge metalliche. Il karma punì i tedeschi per le loro armi e i pochi che erano rimasti vivi dopo il nostro attacco a sorpresa, lasciarono le penne nell’esplosione.
Avevamo poco da esultare, lo scoppio aveva attirato verso la nostra posizione una squadra, decisamente più numerosa della precedente, armata fino ai denti e accompagnata da un bipede robotico. Non dicemmo una parola, ma sono sicuro che tutti pensammo la stessa cosa, nello stesso istante: “Siamo fottuti!”.
Ero ancora a terra, mi stavo riprendendo dall’esplosione. Cercai di raggiungere Loebster per trascinarlo al riparo, dove gli altri si erano già spostati. Lui mi guardava e sputava sangue, allungai una mano e lui fece lo stesso. Quando le nostre dita furono a pochi centimetri di distanza mi sentii tirare per una manica. Slim mi aveva afferrato. “Dannazione, Carter! Vuoi farti ammazzare? Loebster ormai è andato, cerca almeno tu di mettere in salvo le chiappe”. Mi lasciai trascinare verso il riparo senza opporre resistenza mentre il mio sguardo restava fisso sugli occhi di Loebster che si spegnevano lentamente.
Cage e Chuck sparavano all’impazzata per coprire me e Slim che ci portavamo al sicuro, ma quei porci continuavano a correre dritti verso di noi, incuranti del piombo che gli sputavamo contro.
Dopo poco mi ripresi e cominciai a sparare anche io. Come se fosse proprio in risposta al mio attacco, il grosso mezzo meccanizzato puntò una delle sue braccia contro il nostro riparo e fece fuoco. Il missile, identico a quelli che avevamo fatto esplodere poco prima, colpì in pieno un casolare adiacente a quello dietro cui ci stavamo riparando e noi saltammo in aria con esso. Fortunatamente c’era un edificio intero che mi separava dal centro dell’esplosione e rimasi praticamente illeso, così come Chuck e Slim. Per Cage e gli altri non si poteva dire lo stesso: una porzione di muro del nostro riparo era crollata e li aveva sommersi. Vidi solo la mano di uno di loro sbucare dalle macerie e mollare lentamente la presa sul fucile e poi tornai a sparare contro i nazi sempre più vicini con la certezza che il prossimo missile del bestione mi avrebbe centrato in pieno.
Il secondo missile partì con puntualità, secondo le mie previsioni. Seguivo con attenzione la scia, come se fosse stato un filmato al rallentatore, mentre correvo al riparo insieme ai due miei compagni in un fossato a diversi metri da noi. “Siamo fottuti! Siamo fottuti!” continuava a ripetere Slim. In effetti era il pensiero più logico in quella situazione: l’esplosione che avevamo stupidamente causato aveva richiamato a noi una squadra di crucchi accompagnati dal grosso robot, eravamo rimasti solo in tre e tutti i nostri compagni erano a combattere al fianco di Capitan America da tutt’altra parte del paese. Come dare torto a Slim?
Eravamo poco distanti dalla cascina dietro la quale si era riparata l’altra squadra prima dell’attacco. Parcheggiato lì a fianco c’era un trattore con le chiavi inserite. Il piccolo e coraggioso Chuck lo aveva puntato. “Copritemi le spalle... Ho un’idea!” ci disse prima di iniziare a correre lungo il fossato in direzione del mezzo. Io e Slim facemmo quello che ci aveva chiesto, sbucammo dal nostro riparo e aprimmo il fuoco. Sparavamo alla cieca per costringere i tedeschi a ripararsi e dare il tempo a Chuck di raggiungere il trattore senza essere visto. Ne lasciammo a terra più di quanti avrei sperato.
Appena salì a bordo del mezzo, facemmo tacere i fucili e i nazi ne approfittarono per rispondere con i loro proiettili. Il piombo fischiava sopra i nostri elmetti. Nel fossato eravamo ben riparati, ma, anche se non li vedevamo, sentivamo quei bastardi sempre più vicini.
Chuck mise in moto, sentimmo i tedeschi esitare per la sorpresa e ne approfittammo per dire la nostra. Altri tre o quattro rimasero a terra dopo aver sentito le nostre argomentazioni. Il trattore sbucò da dietro la cascina, investendo in pieno due tedeschi, e si diresse senza esitazione verso il gigante d’acciaio mentre gli altri gli sparavano contro da tutte le direzioni. Tutta l’attenzione era su Chuck e noi gli demmo manforte sfoltendo i suoi assalitori. Chuck perdeva sangue, diversi colpi lo avevano raggiunto, ma riuscì comunque a colpire con il mezzo la gamba del gigante e si gettò a terra prima di rimanere nella traiettoria di caduta dell’ammasso di metallo e circuiti. Due crucchi, invece, rimasero schiacciati in pieno.
Ci avvicinammo di corsa a Chuck per soccorrerlo, nel tragitto abbattemmo gli ultimi tre tedeschi rimasti in piedi. Fummo fortunati: i nostri proiettili li colpirono in parti vitali mentre a Slim forarono lo zaino e io me ne beccai uno di striscio alla spalla. Giusto due o tre punti di Doc e sarei stato come nuovo. Afferrammo il piccolo Chuck sotto le spalle e lo portammo verso una casa poco distante.
Alzai per un attimo lo sguardo verso il gigante caduto e vidi attraverso il visore il soldato tedesco che stava armeggiando con i comandi. Anche se era a terra, disteso su un fianco, evidentemente i comandi dovevano funzionare ancora. Un braccio del robot si mosse e puntò dritto contro la nostra direzione. Guardai il tedesco negli occhi e vidi che anche lui guardò nei miei. Sentii un “click”. Pensai che la mia testa, in vista dell’imminente morte che stava per sopraggiungere, stava giocando i suoi ultimi brutti scherzi: non potevo aver udito il rumore del grilletto premuto all’interno dell’abitacolo del mezzo tedesco. Poi capii che il rumore veniva da dietro le mie spalle e il bipede metallico esplose.
Io e Slim ci girammo e trovammo Tank, con in spalla un bazooka ancora fumante, e al suo fianco Ross, Grayson, MacNeil e una decina d’altri che erano giunti in nostro soccorso. Quando realizzai di essere sopravvissuto all’ennesimo scontro, mi accorsi che intorno a noi la battaglia era quasi terminata, si sentiva ogni tanto qualche colpo di fucile, ma avevamo vinto. Guardai Slim e insieme spostammo lo sguardo sul piccolo Chuck. Era morto. Quel dannato figlio di puttana ci aveva salvato le chiappe. Non lo scorderò mai.
Insieme al gruppo di Tank raggiungemmo il centro del paese dove Cap e il capitano Powell stavano parlando con altri soldati americani e con i partigiani belgi. Io mi fiondai da Doc per farmi ricucire il taglio. Nella casa in cui Doc era al lavoro sulla mia carne c’erano anche alcuni degli altri soldati che stavano parlando con Cap: erano della compagnia Thunder, 101esima divisione. Doc mi raccontò che era una squadra in missione segreta, un po’ come la Freedom, che ci aveva raggiunti fin qui per darci man forte dopo le grosse perdite che avevamo subito negli scontri precedenti. Il grosso della squadra ci avrebbe aspettato più a sud, verso la nostra prossima tappa. Qui c’erano solo un piccolo contingente che aveva aiutato i partigiani a liberarsi degli invasori. L’indomani mattina avremmo dovuto incamminarci per ricongiungere le due squadre.
La ferita non era un granché, ma ne approfittati per bere un po’ di whiskey di Ace con la scusa di anestetizzarmi durante l’operazione. Appena Doc mi lasciò libero, andai a cercare Ace per restituirgli la bottiglia, avevo bevuto parecchio. Il buio era calato e c’era pace intorno a noi. Vedevo i miei compagni che ridevano e scherzavano e facevano amicizia con i ragazzi della Thunder. Io li evitai come la peste, non volevo affezionarmi, o anche solo conoscere qualcuno per paura di doverlo piangere il giorno dopo. Magari solo poche ore dopo.
Trovai Ace, Smile, Holland e Tank seduti su un ammasso di macerie che mangiavano qualcosa e si passavano un grosso sigaro. Anche loro, come me, preferivano evitare di distrarsi troppo, più non si pensava allo schifo in cui eravamo immersi fino al collo e più si soffriva quando i proiettili dei nazi ci riportavano crudelmente alla realtà. Li salutai e Tank mi rispose con un sorriso e mi offrì il sigaro. Rifiutai. Posai in mezzo a noi la bottiglia di whiskey mezza vuota e Ace mi porse una porzione della cena. “Era ora, pensavamo che te la fossi scolata tutta mentre eri sotto i ferri. Tieni... è ancora tiepido”. Mangiai con foga la brodaglia, non era il massimo, ma era calda, almeno lo era quella degli altri, la mia si stava raffreddando. Il primo pasto caldo da tempo. E poco dopo ci sarebbero stati anche un materasso sgualcito e una coperta di lana. Un lusso che ambivo nelle notti passate nelle fosse di terriccio gelido. Finii la cena per primo, anche se gli altri avevano iniziato prima di me, e me ne andai verso gli edifici adibiti a dormitorio. Mi dissero che sarebbero stati lì ancora un po’ e mentre mi allontanavo li sentii ridere della ferita alla coscia di Holland.
Mi portai le loro risate fino in branda. Rimasi sveglio per mezzo minuto prima di crollare in un sonno rilassato e senza sogni, e senza incubi, soprattutto. Quella notte, finalmente, non avrei avuto il terrore di addormentarmi, mi sentivo al sicuro. In quei trenta secondi che mi separarono dal meritato riposo peccai di ottimismo e sentii nel petto il flebile calore di una fiammella di speranza che si accendeva. Non potevo sapere che dal mattino seguente  avrei vissuto esperienze molto peggiori di tutto quello che avevo visto e imparato a temere nei miei primi giorni di guerra. Poi mi addormentai.

07 Febbraio 1944.  Partimmo all’alba. Il cielo non era ancora luminoso, ma dalle prime luci si capiva che sarebbe stata una bella giornata. Mangiammo un velocissimo boccone e ci incamminammo verso sud, accompagnati dai ragazzi della Thunder. Mentre percorrevamo la strada principale, tutti i partigiani superstiti e alcuni civili costeggiavano i lati della carreggiata e ci salutavano e ringraziavano.
Marciammo per diverse ore, la vegetazione intorno a noi si era fatta sempre più fitta via via che proseguivamo nel nostro viaggio, e nel tardo pomeriggio eravamo immersi nel bosco che circondava la cittadina di Antoing, luogo della nostra prossima missione.
Le ore di cammino passarono velocemente, parlavamo ed eravamo rilassati dopo aver passato una notte su di un vero letto e aver cacciato nello stomaco un pasto decente. Eravamo anche cauti, certo, ma gli esploratori ci avevano assicurato che del nemico non c’era traccia. Mentre si chiacchierava del più e del meno, giungeva alle nostre orecchie qualche voce dalla testa della squadra con Powell, Bucky e, ovviamente, Capitan America con dettagli più precisi sulla nostra missione. Le notizie più precise mi giunsero dalla bocca di Lazzaro: Antoing era stata trasformata in una delle roccaforti naziste. Oltre ad alcuni importanti gerarchi nazisti vi si trovava uno scienziato che era legato alla pericolosissima arma che i tedeschi stavano costruendo, la sua cattura sarebbe stata molto importante per il buon esito dell’operazione e per le sorti del conflitto.
Alla fine raggiungemmo il piccolo campo base, completamente mimetizzato nel verde del bosco, dove si era insediato il resto della Thunder. Un uomo biondo, vestito con una tuta rossa, si avvicinò a Capitan America e gli strinse la mano. Non ci potevo credere: ero solo un ragazzino appena maggiorenne e, poche settimane dopo aver stretto la mano alla Leggenda Vivente, incontrai un altro grande eroe americano: Jim Hammond, la Torcia Umana originale.


[ CONTINUA ]