MARVELIT presenta:

 

#1

Speciale numero doppio

- Non c'è potere se non da dio -

parte 1

"We rule the school"

 
      Storia:         Ermanno Ferretti
      Supervisione:      Tobia Brunello
      Copertina:      Ermanno Ferretti
      Editor-In-Chief:

     Carlo Monni

 

Trey Rollins iniziava a pensare che era ora di cambiare qualcosa nella sua giornata tipo. Sprecava troppo tempo. Cioè, per lui non era sprecare. Era qualcosa di costruttivo. Ma, effettivamente, come diceva sua madre, non ne veniva fuori niente di concreto. Almeno non nel senso in cui intendeva lei.
Costruttivo. Concreto. Parole strane. Ci si aspettava da lui qualcosa, e lui faceva qualcos'altro. Gli piacevano gli dei greci. Non sembra un brutto difetto, detto così. In genere, quando lo confessi, ti guardano con aria un po' stranita. Ma di passioni al mondo ce ne sono tante, no? Meglio gli dei greci di un catalogo di armi automatiche. Al massimo possono attribuirti qualche passione filo-nazista. Peraltro sbagliata. Ma niente di più. Ti dicono: ah sì, Zeus e cose simili, vero? Sì, rispondi, Zeus e cose simili. Almeno non dicono Giove. Perchè se no bisogna star lì a fare tutta la storia della Grecia e di Roma. Perdite di tempo, diceva sua madre. Oh, e non aveva torto. Passava ore su libri che raccontavano tutto sugli dei greci, i loro poteri, i loro difetti. E i loro miti, chiaro. E poi, alla fine di queste ore, cosa gli rimaneva? Niente. Nada. Prendeva appunti, sì, e quelli gli rimanevano. Elenchi di dei, di poteri, di caratteristiche. Un giorno, si diceva, quando ne avrò voglia, mi metterò anche a studiare un po' di greco. Così avrebbe letto gli originali. Poi ci pensava su un po' e capiva che era meglio lasciar perdere. Non aveva nemmeno mai letto tutta l'Iliade in inglese. Era noiosa. A lui interessavano solo i poteri e i miti. Non storie così lunghe, poetiche, noiose.
E allora si chiedeva perchè? Perchè continuava a fare quegli elenchi, a studiarli e poi a buttarli via? E dopo qualche giorno ritornava a riscriverli nuovamente, a ristudiarli. E a ributtarli via. Perchè? Era arrivato a livelli da vera e propria dipendenza. Gli sembrava quasi di farlo non tanto per l'interesse negli dei, ma per autocompiacersi. Per tenersi impegnato o per dimostrarsi bravo. Si dava, in un certo senso, un obiettivo e lo realizzava. L'obiettivo era elencare tutti gli dei? Tutti i loro poteri? Tutti i loro miti? Prendeva i suoi 7 libri sull'argomento e si metteva all'opera. Quando, dopo qualche giorno, aveva finito, buttava via tutto. L'obiettivo era stato raggiunto. Era bravo. Era capace di fare qualcosa. Ma dopo? Quale nuovo obiettivo poteva porsi? Ce n'erano alcuni di difficili, che gli si prospettavano davanti. Porsi obiettivi difficili era rischioso. Si correva il rischio di non riuscire a realizzarli. E quindi frustrazione e rabbia. No, era una strada che non faceva per lui. Lui voleva sentirsi bravo, non frustrato. E quindi sotto di nuovo con elenchi e libri di dei. Quelle cose era sicuro di saperle fare, non correva rischi. Ogni tanto comprava un libro nuovo, o cercava in internet qualche informazione aggiuntiva, ma nulla più. E, come sfida, era abbordabile.
In fondo, pensava, non aveva del tutto torto sua madre. Era entrato in una specie di circolo vizioso, da cui non riusciva ad uscire. Il nostro Trey aveva bisogno di sentirsi bravo, di sentirsi all'altezza, ma non voleva correre rischi nel soddisfare questo bisogno. Il fallimento, ecco cosa lo spaventava. E, mentre pensava a queste cose, guardava fuori dalla finestra di camera sua e incominciava a prepararsi per l'ennesima mattinata a scuola.

Nessuno rideva alle battute di Mick. Tutti, nel gruppo, lo guardavano dall'alto in basso. E non riusciva a uscire da questa situazione. Non solo non riusciva, non poteva. Era ormai per tutti Mick lo scemo, Mick il cretino. Gli avevano dato anche un soprannome. C'era uno del gruppo, Rennie, che era irlandese. Si era trasferito coi suoi solo due anni prima. L'aveva ribattezzato "Mick the gick", che vuol dire Mick la merda. Fino a qualche tempo fa c'era anche una ragazza, nel gruppo, che gli stava dietro, lo ascoltava. Anne. Gli dicevano, per sfotterlo, che se ci provava lei ci sarebbe stata. Probabilmente era vero. Probabilmente le piaceva. Ma Anne non era "figa". Particolare. E dolce. Ma non "figa". E "Mick the gick" era già troppo sfigato per mettersi con una "non-figa". Anne non usciva praticamente più con loro. E quando, perchè non aveva niente di meglio da fare, usciva con quel gruppo, non lo badava, almeno non come un tempo. Gli avevano detto che si vedeva con un tipo, Carl. Un tipo che anche Mick conosceva, facevano la stessa scuola. Un coglione, pensava. Però intanto quel coglione stava per mettersi con Anne. E Mick era sempre più solo.
Il suo gruppo, la sua compagnia non si era mai caratterizzata per i buoni sentimenti. Tutti un po' stronzi, e se non sei stronzo sei fuori. Questo valeva per i maschi. Per le ragazze questa regola non era fissa. Anne era l'esempio di una non stronza. Ma ce n'erano anche altre. Ma le ragazze non avevano molto potere all'interno del gruppo. Certo, qualcuna, molto "figa", poteva esprimere ogni desiderio e vederlo realizzato. Ma non aveva potere sul gruppo. Sui singoli sì, ma non sul gruppo. Il gruppo era governato dai maschi. Erano loro a decidere cosa fare e cosa non fare e fin dove ci si poteva spingere. Se Tony iniziava a sfottere Mick, allora era concesso a tutti. Se Michael rubava un giornale, allora era concesso a tutti. E sulle cose concesse non c'era libertà. Una volta che diventavano lecite per il gruppo, andavano fatte. Per forza. Se volevi restare nel gruppo non potevi tirarti indietro.
Beh, se non ti andava potevi cercarti un altro gruppo. Se non condividevi quello che facevano, potevi sempre uscire e farti altri amici. Farti altri amici? "Mick the gick" non aveva mai avuto veri amici. Solo compagni. Di scuola, di bevute, di furtarelli. Mai amici, solo compagni. Come avrebbe potuto farsene altri? Nessuno rideva alle sue battute. Mai. Nemmeno Anne rideva alle battute, ma a volte, dopo che le aveva fatte, gli accarezzava un po' il braccio, come a consolarlo. Lui, in genere, si tirava indietro, la scansava. Che cazzo hai da consolare?, pensava.
E quindi il gruppo era tutto quello che aveva. Sì, aveva anche una casa. Aveva anche una famiglia. Non troppi in famiglia, a dire la verità. Un padre e una madre. Niente fratelli, nè sorelle. La casa era bella, quasi nuova, in un quartiere residenziale. Aveva provato ad invitare i suoi amici lì, quando i suoi non c'erano. Ma in genere non volevano venire. C'erano stati solo in un'occasione, per il superbowl. Non sapevano dove andare e lui aveva una grande tv. Alla fine della partita gliel'avevano sfondata con una bottiglia di birra. Il St. Louis, su cui avevano scommesso tutti tranne Rennie, aveva perso col New England. E c'era da ringraziare perchè si erano limitati solo alla tv.
E adesso, era sicuro di quello che stava per fare? Le cose, ora, si facevano più complicate. Come non lo erano mai state prima.

Trey uscì di casa, in ritardo rispetto al solito, alle 8.40. La scuola non distava molto da casa sua. Ci andava sempre a piedi, col bello e col cattivo tempo. Di solito, non da solo. Di solito c'erano alcuni amici, del vicinato, a cui si accodava. Quel giorno no. Quel giorno era in ritardo, aveva perso tempo a pensare a dei e affini. Poteva comunque mantenere il ritmo di camminata che voleva, avrebbe fatto sicuramente in tempo ad essere in classe prima del suono della campana. Non era vestito troppo bene. Si stava un po' lasciando andare, pensava, negli ultimi tempi. Ma tante cose non facevano tornare i conti, non era più come una volta. Anche i suoi amici, il suo gruppo di amici che pensava inseparabili iniziava un po' a stufarlo. Sembravano non crescere, in un certo senso. Sempre a giocare a basket, sempre a sbavare dietro alle solite ragazze. D'altronde, chi poteva biasimarli? Nessuno di loro aveva mai avuto una ragazza, e questo nessuno includeva anche Trey. E forse il basket non era poi peggio degli elenchi di divinità greche. Anzi, era meglio. Almeno ci si manteneva in forma. Quello degli elenchi, invece, era un lavoro molto sedentario.
Comunque, il largo marciapiede lo stava conducendo fuori dagli isolati residenziali, pieni di villette con giardinetto e cane da guardia. Erano passati cinque minuti dalla partenza da casa, e per arrivare a scuola ce ne volevano più o meno altri cinque. Ora, sulla destra, vedeva i vecchi palazzoni che il comune sembrava in procinto di abbattere. Erano lì da chissà quanto, e avevano ormai un aspetto più che fatiscente. C'era da stupirsi che fossero rimasti in piedi così a lungo. Certe volte, però, pensieri come questi hanno un che di profetico...

Davanti al cortile della scuola, lo stesso istante. I ragazzi erano riuniti in gruppetti, com'era loro solito. Ce n'era uno, subito oltre il cancello d'ingresso. Lo formavano quattro ragazzi. Parlavano animatamente.
- Manca solo Trey - fece il primo, Matt.
- Si sarà svegliato in ritardo, non è la prima volta che succede. Vedrai che adesso arriva - gli rispose Teddy, l'unico che poteva vantarsi di mostrare qualche pelo di barba.
- Ieri poi non è venuto alla festa?
- Io non l'ho visto.
- Neanch'io - confermò il terzo, Rich.
- Avrà avuto altro da fare - una frase con cui Frank voleva tagliar corto il discorso. D'altronde a quest'ultimo non era mai importato molto di Trey e lo sapevano tutti. Erano esattamente i due opposti all'interno di quel gruppo. Ad ogni modo, era da un po' che il ritardatario si faceva vedere in giro sempre più col contagocce, soprattutto nelle occasioni più importanti.
- Ma ha qualcosa in 'sto periodo? - chiese Matt a Teddy, quello che lo conosceva meglio e da più tempo.
- Che io sappia, no. Però--
Un improvviso fortissimo rumore bloccò le parole di Teddy. In lontananza si alzò una grande nuvola di fumo, tanto da attirare l'attenzione immediata di tutto il cortile della scuola. In pochi istanti erano fuori e iniziavano a dirigersi, cautamente, verso il luogo da cui proveniva il rumore.

Due minuti prima. Stesso cortile, qualche metro più in là. Mick e i suoi amici - chiamiamoli così, per comodità - erano in cerchio, come tanti altri ragazzi. Discutevano della lezione che avrebbero avuto alla prima ora con quel deficiente di Hopkins, l'insegnante di storia. Era un test, e nessuno, a quanto si dicevano, aveva studiato. A dire la verità Mick un po' sì. Ma comunque poco, non poteva correre il rischio di risaltare nei risultati rispetto ai suoi compagni. Questo modo di rendersi importanti non era ammesso. Si poteva essere importanti solo all'interno del gruppo e dei suoi equilibri. Ogni altra forma di successo non era ammessa, anzi, era denigrata. E Mick lo sapeva. Si preparava quindi all'ennesima insufficienza e già immaginava la scena con sua madre che gli faceva la solita predica sempre uguale. E suo padre che se ne fregava. Nessuno dei due capiva, neanche lontanamente, il perchè del suo comportamento. Quei voti bassi gli servivano per qualcosa che era più importante della scuola.
Vide passare, a pochi metri di distanza, Anne. A mano con Carl. Cazzo, allora era vero. Le cose stavano davvero così. Lei lo vide e lo salutò con un sorriso, segno che almeno non ce l'aveva con lui. Lui non rispose al sorriso, ma fece un cenno con la testa, per non farsi notare troppo dagli altri. Anche perchè se se ne fossero accorti di sicuro l'avrebbero sfottuto lì, in mezzo al cortile, a voce alta, e avrebbero sfottuto anche lei. E lui avrebbe dovuto stare al gioco. Begli amici che aveva.
Anche i suoi pensieri, però, vennero interrotti dal rumore improvviso. Solo che lui e gli altri non si mossero verso la sua origine, ma rimasero fermi lì, a discutere un modo per saltare il test di storia, argomento che al momento era fondamentale per il gruppo.

Trey si rialzò lentamente. Attorno a lui i detriti di un palazzo che era appena crollato. E lui era illeso. "Ne ho di culo", pensò. Ma non sapeva che non si trattava di semplice fortuna. Con le mani spazzò via alla meno peggio la polvere dai suoi vestiti e iniziò a guardarsi intorno. Starnutì alcune volte. Doveva andare a farsi quelle maledette prove allergiche. Ma ora era più interessato a trovare una via d'uscita da quella situazione, anche perchè i detriti non gli sembravano del tutto stabili e non si sa mai... E poi, adesso si ricordava, ad attenderlo a scuola c'era anche il test di storia di Hopkins. L'unico prof. che gli sfoderava quattro test a trimestre. Un maniaco della sua materia! Non che storia non gli piacesse, soprattutto quella antica, però...
Però era ora di darsi da fare e trovare uno spiraglio di luce da qualche parte. Iniziò a muoversi al buio, a tentoni, e ad un certo punto inciampò su un ammasso di cianfrusaglie. Da queste spuntava ora un oggetto stranamente luminoso. Trey lo tirò fuori da dov'era incastrato, lo ripulì dalla polvere e iniziò a guardarlo con stupore. Sembrava un'armatura con l'effige della testa di Medusa. Roba greca, per capirci.

- Dentro, dentro. Non è successo niente. Hanno solo abbattutto quel vecchio palazzo. Ora andate tutti in classe che la campana è già suonata.
Il tentativo di andare a curiosare verso il luogo da cui era venuto quel grande botto era stato così represso da alcuni professori. La campana era effettivamente già suonata, e Matt, Rich, Teddy e Frank si avviarono in classe per il test di storia. Il loro amico Trey Rollins non s'era visto. Si vedeva, invece, la banda degli amici di Reggie. Michael, Paul, Chris, Tony e Mick. Sempre insieme, sempre stronzi. Solo Frank, degli amici di Trey, riusciva in un qualche modo a relazionarsi con loro, ma spesso per interesse. Aveva dei piani ben precisi per il suo futuro, e non si sa mai - diceva - di chi puoi aver bisogno per realizzarli.
Hopkins era già, come al solito, nella sua aula, pronto con i fogli fotocopiati col test. Venti domande sulla rivoluzione francese. Nemmeno un mese prima ce n'erano state altre venti su quella americana. Tra neanche un mese era previsto il test successivo, quello su Napoleone. E poi veniva quello sulla Restaurazione. E poi la Guerra di Secessione. E via così. Aveva già programmato le prove fino a fine anno. "Chi vuole seguire il mio corso - diceva sempre - deve mettercisi d'impegno". Il fatto era che il suo corso, prima o poi, dovevi per forza seguirlo, e quindi tanto valeva mettercisi sotto. Anche se l'impegno, bisognava dirlo, ce lo mettevano in pochi.

Era una corazza. Come la mitica Egida, la misteriosa pelle di capra a frange indossata da Atena e di proprietà di Zeus. Ed Egida era anche il nome usato per designare lo scudo di Atena, dove la testa di Medusa pietrificava chiunque la guardasse. E su questa corazza c'era proprio la testa di Medusa. Doveva essere la casa di un appassionato. Chi era che si teneva in salotto una corazza costruita sul modello di quella di Atena? Solo un appassionato come lui, chiaro. Bella, comunque, come nuova. Chissà come gli stava, si chiese. Provò ad indossarla. Mentre la fissava alle spalle e ai fianchi, pensava che doveva fare in fretta, che Hopkins era là col suo test ad aspettarlo. Ma a quel minuto per provare una corazza come quella di Atena non poteva rinunciare. Ok, l'aveva fissata. Ora doveva solo cercare uno specchio o qualcosa di simile, per vedere come gli stava e--
Cavolo. Stava volando! Si trovava a un metro buono da terra, librato nell'aria. E tutto senza nemmeno accorgersene. I suoi piedi ballavano nel vuoto. La cosa lo emozionava e contemporaneamente gli metteva in testa una leggera vena di paura. Non riusciva a muoversi, stava lì, fermo, a mezz'aria.
- Voglio tornare giù - urlò, e subito, come in risposta al suo ordine, cadde a terra. Non troppo elegantemente, purtroppo. Ma almeno era sceso. Decise di riprovare.
- Voglio andare su-- Stop! - riuscì ad urlare, appena in tempo prima di schiantarsi contro una trave sopra di lui.
- Voglio andare a destra - e ci andò.
- A sinistra? - e ci andò.
- Ritornare giù lentamente - e anche quest'operazione si concluse nella maniera sperata.
- Wow - fu l'unica parola che riuscì a pronunciare. Era colpa della corazza, questo era chiaro. Per esserne ancora più sicuro se la tolse e provò a dare gli stessi ordini, ma questa volta senza successo. Niente da fare. Non aveva di colpo manifestato poteri mutanti. Il potere era tutto nell'armatura. Il problema era ora: che farne? Quel palazzo era abbandonato da molto tempo, lo sapeva bene. Tant'è vero che era pure collassato su se stesso. Quindi probabilmente anche la corazza era abbandonata. Ma non poteva esserne certo. L'unica cosa di cui era certo era che quella corazza non era sua. E col potere che aveva, rubandola poteva cacciarsi in brutti guai. Ma d'altronde, se l'aveva trovata in una maniera così fortuita, forse c'era un motivo. Mentre pensava non capiva se questa era una scusa con cui cercava di convincersi a mettere a tacere la propria coscienza, o se ci credeva davvero a quello che pensava. Non si era mai posto, non in maniera seria almeno, il problema se la sua vita fosse regolata in qualche modo da eventi mossi da una qualche forza al di sopra di lui. E se anche avesse ammesso l'esistenza di questa forza, bisognava decidere che nome darle. Perchè a dire fato, destino, Dio o altro c'era una bella differenza.
Ma adesso, santo cielo, com'era tardi. Il test di storia! Aprì la borsa a tracolla dove portava libri e quaderni, la svuotò di tutto ciò che poteva portare a mano e dentro v'infilò la corazza. Dopodichè riuscì ad aprirsi uno spiraglio attraverso alcuni detriti e ritornare alla luce. Intorno non c'era nessuno. A quanto pare era uscito sul lato più nascosto di quello che una volta era l'edificio. Dall'altra parte sentiva delle voci. Soccorritori e pompieri, forse. Decise che era meglio non farsi notare e sgattaiolò via, verso la scuola.

Corridoi della scuola. La campana era ormai suonata da un quarto d'ora abbondante. Tutti erano nelle rispettive aule. Tutti tranne una ragazza. Si dirigeva sicura verso la porta dell'aula del professor Hopkins. Vi si arrampicò, per guardarci dentro attraverso il vetro, e di lei si accorse Teddy, che le gettò uno sguardo di sfuggita per non farsi beccare dal professore. La conosceva. La ragazza gli fece un segno interrogativo, indicando un banco vuoto. Lui le rispose di no con la testa, dopodichè Fran, questo il suo nome, scese di nuovo a terra e se ne andò sconsolata verso il bagno delle ragazze.

L'ora di lezione stava finendo e così anche il tempo a disposizione per il test. Alla fine non era nemmeno così difficile come temevano, pensava Teddy. Qualche domanda sugli eventi fondamentali. Qualcuna sulle classi sociali. Qualche altra sui vari colpi di stato. Due o tre sulle costituzioni. Insomma, non serviva nemmeno aver studiato tanto. Però Trey era rimasto a casa. Strano perchè si erano visti solo la sera prima, e tutto era a posto. Strano perchè storia era forse l'unica materia che gli piaceva. Certo, non gli andava a genio Hopkins, ma, diciamolo, a chi piaceceva Hopkins? Bof, magari s'era solo addormentato, non sarebbe stata la prima volta che si perdeva una prima ora di lezione.
Alcune rapide occhiate fecero capire a Teddy che anche gli altri suoi amici non se la stavano cavando male col test. Frank, poi, erano giorni che studiava. Ogni test per lui era IL test, quello fondamentale che avrebbe deciso la sua vita.
E gli altri compagni di corso? Non sembravano avere facce troppo disperate. Non credeva che a tutti il test sarebbe andato bene, ma era sicuro che almeno quelli che avrebbero preso una F, tutto sommato, si aspettavano quel risultato e non ci sarebbero rimasti troppo male. Gente che non aveva mai aperto il libro, nè più nè meno. L'unico che aveva una faccia strana era Mick. Mick the gick, lo chiamavano. Che sfigato, pensava Teddy.

Trey varcò il portone della scuola di corsa, con la borsa a tracolla e i libri in mano, sull'orlo di cadergli a terra. Sfortunatamente, la porta dell'ufficio del preside era aperta, e non riuscì a non farsi vedere.
- Hey, hey, ragazzo! - Trey si fermò, era inutile. Anche se si fosse rifugiato in classe Hopkins l'avrebbe richiamato a voce alta, e il preside l'avrebbe scovato. Bisognava invece inventare una scusa efficace, e in fretta.
- Ti pare questa l'ora di presentarti a scuola?
- No, signor preside, vede, io --
- Ma dove sei stato? Sei tutto pieno di polvere...
Ma sì, poteva raccontare la verità, del crollo dell'edificio. Gli avrebbero sicuramente creduto, perchè l'edificio era crollato davvero e i suoi vestiti ne portavano ancora i segni. Nonostante avesse cercato di pulirsi.
- Io... stavo venendo a scuola quando il vecchio palazzo a due isolati da qui è crollato all'improvviso...
- Ma non l'hanno abbattuto?
- No, cioè, è caduto da solo.
- Senti, ragazzo, non prendermi in giro...
- Ma dico la verità. E' pieno di pompieri!
- E tu ci sei finito in mezzo?
- Beh, come crede che me li sia fatti questi vestiti?
- Umpf. Tu adesso fili subito in classe, e io vado a controllare che quello che dici sia successo realmente!
BANG
- Cosa è stato? - disse, spaventato, il preside.
Trey si guardò attorno. E guardò, ricambiato, il preside. Sembrava proprio il rumore di uno sparo. Nessuno dei due osava dirlo ma era quello che pensano. Sembrava uno sparo. E veniva dall'aula del professor Hopkins.

Otto di mattina. Della stessa mattina. Quasi due ore prima, quindi. Una casa di medie dimensioni, classe media. Tutto troppo medio. Mick aveva appena fatto colazione e stava per tornare di sopra per vestirsi. Si fermò, per un secondo, davanti alla porta dello studio del padre, che si trovava immediatamente prima delle scale. I suoi genitori erano ancora in cucina, a far colazione. Entrò nello studio e, sicuro, si diresse verso la scrivania in legno nero. Aprì l'ultimo cassetto, in basso, sollevò un mucchio di carte e tirò fuori una pistola. Richiuse quindi il cassetto, uscì circospetto dalla stanza e corse di sopra, a prepararsi.

Ora. Trey e il preside corsero subito verso la porta dell'aula di Hopkins. La spalancarono e si presentò ai loro occhi una scena sconvolgente. Mick era fermo in mezzo all'aula con la pistola puntata verso il professor Hopkins, che se ne stava immobile, in piedi, con la cattedra alle spalle. Trey notò subito che il muro dietro al professore era stato scalfito da una pallottola, probabilmente quella di cui avevano appena sentito il rumore. Tutti, nell'aula, erano immobili e tesissimi. Mick, invece, non manifestava la minima paura.
- Che succede? Chi ti ha dato quell'arma? - urlò il preside.
In breve, anche ragazzi di altre classi si affacciarono alla porta della stanza.
- State tutti fermi - intimò Mick, parlando lentamente in modo da scandire bene tutte le parole.
Trey si protese leggermente verso Teddy, il cui banco era uno dei più vicini alla porta.
- Che è successo? - gli bisbigliò.
- Hopkins ha ritirato il test di Mick e ha iniziato a rimproverarlo perchè l'aveva lasciato in bianco. E Mick ha tirato fuori quella pistola dalla borsa...
Era andato via di testa, completamente, pensò Trey. Anche i suoi "amici", Reggie, Michael e gli altri, erano tutti immobili. Avevano paura, forse, che dopo aver ammazzato Hopkins passasse a regolare i conti con loro.
- Ragazzo, per carità, se c'è qualche problema lo risolveremo. Metti giù quell'arma, ti prego. Io sono qui per parlare con te, per capirti - continuava a ripetere il preside, ma le sue parole restavano nell'aria e nessuno le coglieva.
C'era bisogno di fare qualcosa, di tentare qualcosa prima che Hopkins e tutti gli altri si ritrovassero una pallottola ficcata nel cranio. Trey riuscì a divincolarsi dalla folla che ormai circondava la porta dell'aula e si diresse nel bagno dei maschi, deserto, senza che nessuno lo notasse. Qui aprì la borsa e tirò fuori l'Egida, la corazza magica che gli aveva permesso di volare solo qualche minuto prima. Volando alla velocità che aveva avuto modo di testare nel palazzo caduto avrebbe sicuramente potuto disorientare Mick. E comunque non c'era molto da pensare. Era l'unico piano che gli era venuto in mente.
Si rese conto, mentre faceva queste semplici operazioni, di non essersi nemmeno fermato un attimo a riflettere sui rischi che correva facendo una cosa del genere. Non l'aveva fatto perchè semplicemente non doveva. Era questione di minuti, forse di secondi. Doveva agire, tentare di salvare il salvabile, e non perdere tempo in mille paranoie. Il suo sarebbe potuto essere considerato un comportamento eroico, ma non era così. Trey non stava pensando: adesso farò l'eroe, salvero la situazione. Si dava da fare per provarci e basta. Fu una reazione quasi istintiva, come quella che ti porta a tuffarti per salvare una persona a cui vuoi bene che sta per essere investita. Non pensi a cosa stai facendo, non pensi alle conseguenze, non decidi di rischiare la tua vita. Lo fai senza pensarci. Non sei un eroe, almeno non un eroe nel senso di uno che mette a repentaglio la propria vita per gli altri. Perchè Trey, in quel momento, non si accorgeva di rischiare la vita. E se vogliamo chiamarlo eroe, allora l'eroe è semplicemente uno che ha i riflessi pronti, da tutti i punti di vista. Riflessi fisici, mentali ed etici. E, anche se non si riteneva un eroe perchè stava facendo tutto senza consapevolezza, alla fine, in quei pochi secondi di preparazione, Trey stava pensando a queste cose che abbiamo appena scritto. Erano pensieri suoi. Era lui che pensava, in quel bagno, a cosa significhi essere eroe. E quindi, pensava, forse in un certo senso stava diventando un eroe, perchè la consapevolezza dei rischi che correva, senza accorgersene, era arrivata.
Però ora basta, si disse. Si mise la corazza, la fissò bene e la provò di nuovo. Su, giù, a destra, a sinistra. Rispondeva bene e aveva anche una gran velocità. Si diresse subito verso la porta del bagno, ma appena vi mise mano si fermò. Certo, aveva la corazza ma farsi vedere a svolazzare sarebbe stato controproducente. Gliel'avrebbero portata via e poi chissà che guai avrebbe potuto passare. S'immaginava già i federali che lo interrogavano in una stanza piccola e buia. Sì, aveva visto troppi polizieschi in vita sua. Così usò la prima cosa che aveva a portata di mano per coprirsi la faccia. Poi si levò l'armatura per togliersi anche il maglione e subito dopo toccò alle scarpe, in modo da non avere più addosso qualche abito che lo rendesse riconoscibile, e li nascose appena fuori dalla finestra del bagno, sperando di ritrovarli al suo ritorno. Rimaneva solo con addosso un'anonima t-shirt, i jeans e i calzini. E sopra rimise l'Egida. Si lanciò, già volando, fuori dal bagno, verso l'aula di Hopkins. Nel tempo in cui era stato dentro non aveva sentito alcuno sparo e questo lo rassicurava. Se la situazione fosse stata un po' meno drammatica, avrebbe di certo urlato: arriva la cavalleria!

A miglia e miglia di distanza. Improvvisamente, un'ombra sembra illuminarsi, percepire. Comprende che qualcosa è cambiato nell'equilibrio che domina il mondo. Qualcosa di potente è finito in mani che non l'hanno mai padroneggiato prima. Sente questo cambiamento come un istinto primordiale, dentro di sè. Un'arma micidiale serve un nuovo signore. E lui dovrà intervenire per porvi rimedio.

Trey decise che era meglio non penetrare in classe dalla porta d'entrata. Mick se ne sarebbe accorto con la coda dell'occhio e l'effetto sorpresa sarebbe stato perso in partenza. Meglio entrare sfondando una finestra e attaccandolo dal lato che riteneva coperto. Volando uscì quindi dall'ingresso principale, ancora non visto da nessuno, e fece il giro dell'edificio, rientrando a tutta velocità da una finestra. Mick, istintivamente, si girò verso di lui e sparò subito, senza pensarci. Non era proprio questa l'entrata ad effetto che Trey si era immaginato.
Fortunatamente per lui, qualcosa girava per il verso giusto. Il proiettile infatti rimbalzò a pochi centimetri dalla corazza, come se avesse urtato un muro che lo proteggeva, e andò a piantarsi sulla parete di fronte, mancando di poco Reggie. Che non stava reagendo molto bene alla situazione di pericolo.
- Non voglio morire, non voglio morire, non voglio... - diceva, piagnucolando, sottovoce, quasi impercettibile. Mick di sicuro non lo sentiva. Era ora con gli occhi fissi su Trey, anche se la pistola era ritornata ad essere diretta verso il professor Hopkins. I compagni, intanto, iniziavano a mormorare, forse rassicurati dal fatto che un altro colpo di pistola non aveva fatto ancora vittime. O forse perchè, tutto sommato, credevano di avere davanti un super-eroe, uno tipo l'Uomo Ragno o Capitan America che avrebbe salvato loro la pelle. Anche se i mormorii non erano propriamente incoraggianti per Trey.
- Ma cos'è quella roba che ha in faccia? Carta igenica?
Mick lo guardava, pieno di rabbia. Non si riusciva a capire che cosa avesse in mente, e forse nemmeno lui lo sapeva. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa in quel momento: lasciare la pistola e arrendersi, o sparare a Hopkins, o sparare di nuovo a Trey, o sparare a Reggie che non la smetteva di piagnucolare, o sparare a se stesso. Ma intanto rimaneva così, immobile, e con lui tutti gli altri, Trey compreso. L'entrata a sorpresa non aveva migliorato di molto la situazione, anzi. Aveva dato a Mick solo più soggetti da colpire, dopotutto.
Fu la voce del preside ad interrompere questo stallo.
- Mick, ti prego. Stanno per arrivare i tuoi genitori, li ho appena fatti chiamare. Potrai confidarti con loro oltre che con noi...
- I miei genitori?
Fu probabilmente un'impressione fugace, momentanea, ma Trey si convinse di vedere negli occhi di Mick un attimo d'esitazione, di paura, di vergogna. Ed infatti Mick, per la prima volta da quando tutto questo era iniziato, pensò alle conseguenze che avrebbe avuto quello che stava facendo. Ai rimproveri dei suoi, e poi al processo, al riformatorio, alla gente. Soprattutto a cosa avrebbe pensato la gente. E soprattutto, tra tutta la gente, i suoi. Si guardò un attimo intorno. Avrebbe voluto vedere Anne tra tutti quelli che si erano accalcati sulla porta dell'aula a guardare il maniaco. Ma non riuscì a vederla. Non sapeva che lezione avesse quella mattina. Forse non era nemmeno lì fuori, forse era nell'altra ala dell'istituto. Forse non sapeva ancora cosa stava succedendo, perchè altrimenti qualcuno le avrebbe chiesto di parlargli, di tentare di convincerlo. Ma presto anche lei l'avrebbe saputo, era inevitabile. Fu un secondo. Girò la pistola e iniziò a mettersela in bocca, pronto a premere il grilletto.
Ancora una volta, erano i riflessi a fare l'eroe. Trey si buttò a tutta velocità su di lui, senza nemmeno il bisogno di dare l'ordine a voce. La corazza sembrava ormai obbedire (o forse lo faceva fin da subito) ai suoi comandi mentali. Caddero insieme, lui e Mick, e con loro la pistola, che ruzzolò via sul pavimento. Mick era ormai un peso morto, non opponeva nessuna resistenza. Reggie era ancora seduto, immobile, sul banco, a un metro da loro due, e come un autistico ripeteva tra sè che non voleva morire. Fu Frank, infine, il più pronto di spirito: si alzò dal banco e raccolse la pistola, si affacciò alla finestra e tentò di sparare un colpo in aria, ma la pistola aveva finito le cartucce. Voleva, dirà poi, svuotarne il caricatore, così che nessun pazzo potesse più minacciarli con quell'arma. Ma la pistola era scarica già dal colpo sparato contro Trey. In fondo, l'entrata a sorpresa, anche se nessuno lo sapeva, aveva salvato la vita a tutti, Mick compreso.
Il preside entrò subito nell'aula, e con lui alcuni professori, mentre s'iniziavano a sentire le sirene, che, come nei film, sembravano arrivare sempre un secondo dopo il momento decisivo. O forse arrivavano anche prima, ma nessuno badava ai rumori in lontananza. Polizia e ambulanze. Tutti guardavano Mick, ma nessuno gli diceva nulla. Non c'era niente da dire. Non c'erano parole. D'altronde, anche lui aveva uno sguardo perso, assente.
D'improvviso la voce di Barbara, una loro compagna di classe, acuta, interruppe i bisbigli di sollievo.
- Il professor Hopkins! E' morto!
Il preside si girò subito verso la cattedra. Nessuno aveva più guardato verso quella che doveva essere la vittima designata.
- Ma non gli ha sparato! Come...? - disse titubante, avvicinandosi al corpo del professore, disteso esanime per terra, appoggiato con la schiena alla cattedra. Gli sentì il polso.
- E' morto - disse. Intorno non c'era sangue.
- Credo infarto - concluse, sfinito.
Qualcuno potrebbe definire ironica la cosa. Scampare alla morte quasi per miracolo e morire lo stesso, d'infarto, per la paura. Trey però non ci trovava niente da ridere. E nemmeno Mick, che sembrava finalmente essersi svegliato dal torpore. Morto, nonostante il bel piano di Trey, nonostante avesse rischiato la vita, nonostante avesse fatto l'eroe, nonostante tutto. Morto.
Tempo pochi secondi e la polizia fu dentro all'aula a pistole spiegate, e dietro di loro erano pronti i paramedici con le barelle. Mentre il preside si sgolava per far entrare i soccorritori, cinque agenti circondarono e ammanettarono Mick, portandolo via dalla stretta di Trey. Un agente invece si avventò, con la pistola in pugno, sul ragazzo con la faccia coperta dalla carta igenica.
- Tu chi sei? Togliti quella roba che hai sulla faccia! - gli intimò.
Trey pensava ad altro. Per qualche minuto aveva creduto di aver trovato quella corazza, l'Egida, per un motivo ben preciso. Che non si fosse trattata di una coincidenza. Che con quel potere avrebbe potuto salvare Hopkins e insieme a lui anche Mick. Non era riuscito nell'impresa. Forse era stato solo un caso che quel palazzo fosse crollato proprio mentre ci passava lui davanti. Forse era stato solo un caso l'essere inciampato sull'Egida. Forse era stato solo un caso che lui fosse così esperto di miti greci. Forse tutto era un caso, ma... Troppe coincidenze. Eppure, non era riuscito a salvare il professore, e probabilmente nemmeno Mick. La vita del suo compagno di classe era rovinata. Non ci capiva molto.
- Ehi, parlo con te! Chi sei? - gli urlò in faccia il poliziotto, iniziando a togliergli la carta igenica dalla faccia. Non poteva permettersi di esser smascherato lì, davanti a tutti. Per un istante ebbe paura dei guai che avrebbe potuto passare. Fermò la mano del poliziotto e si librò da terra.
- Chiamatemi Aegis - disse. E se ne andò volando dalla finestra dalla quale era entrato, a tutta velocità, senza che nessuno avesse il tempo di reagire.
Aegis. Suonava bene, tutto sommato, per essere un nome pensato sul momento.

Una larga strada di New York, un paio di giorni dopo. Lungo il marciapiede una figura possente correva senza sosta, urtando la gente che finiva per terra, a gambe all'aria. Non aveva tempo per fermarsi e chiedere scusa. Qualcosa di molto urgente richiedeva la sua presenza. E lui era Ercole.

CONTINUA

***

LE NOTE:
Perchè una nuova serie? Ma soprattutto perchè una serie incentrata su un personaggio come Aegis, che nella continuity MarvelIT nemmeno dovrebbe esistere?
Prima di tutto un breve riassunto, anche per assolvere qualche debito che ho contratto con questa storia. Aegis è un personaggio creato dalla penna (o dalla tastiera?) di Jay Faerber e comparso per la prima volta su New Warriors vol.2 #0. Le origini che ho dato al personaggio sono - con qualche differenza - le stesse descritte da Faerber. Sia il mio sia il suo Aegis ritrovano la corazza (anche se negli USA è una "voce" che lo spinge al ritrovamento) e, indossandola, acquisiscono vari poteri tra cui quello di volare (gli altri poteri li scoprirete coi prossimi episodi... ^__^). Su NW vol.2 #1, poi, l'Aegis americano entra a far parte della nuova versione del gruppo, consacrandosi come personaggio di primo piano della nuova (e breve) versione della serie.
Ritorniamo però ora alla domanda iniziale: perchè riprendere un personaggio che da noi praticamente non esiste, quando l'universo Marvel è così vasto? E' perchè dargli una testata autonoma, che in America non ha nemmeno mai avuto? I motivi sono due:
1) l'Universo Marvel sarà pure vasto, ma non sono poi molti i personaggi rimasti liberi in Marvel IT! ^__^
2) i personaggi minori, personalmente, mi affascinano molto perchè non hanno centinaia di storie alle spalle (come invece succede per l'Uomo Ragno o gli X-Men) e perciò lasciano più libertà alla fantasia, permettendo di creare le situazioni e le trame che più si preferisce
E perchè proprio Aegis? Perchè è un eroe metropolitano (sono i miei preferiti) ma, come vedrete nel prossimo numero, con radici mitologiche; perchè è un teen-ager e in quanto tale ha una certa somma di debolezze/incertezze/paure su cui si può ben giocare; perchè mi piace il suo costume (questa è la motivazione più scema ma, forse, la più decisiva ^___^).
Questi sono i motivi per la scelta del personaggio.

Ora la palla va a voi. Piaciuto questo numero doppio (più di 37.000 caratteri quando la media di un normale racconto regolare MIT si aggira sui 20.000: sono diventato prolisso)? Mi sembra d'aver dato un'impronta particolare alla serie, ma ne parleremo meglio dopo le vostre reazioni. Ho infatti intenzione di aprire, alla fine di ogni numero, una vera e propria pagina della posta, dove pubblicherò (a meno che non mi chiediate espressamente il contrario) ogni commento che riceverò, pubblicamente e privatamente, riguardo ai numeri precedenti, con la mia relativa risposta. Ok? Uomo avvisato...
Vi lascio con un no-prize al primo che indovinerà da dove vengono i due titoli di questo numero (quello della saga e quello della storia). Unico indizio: hanno due origini molto diverse. Ci vediamo sul #2!

***

Prossimo numero:
Entra in scena Ercole, più arrabbiato che mai. Inoltre: il funerale del professor Hopkins. Non mancate!

***

-EF
ottobre 2002