#02

 

La rivolta di Jacques Bonhomme

 

Arrivo, notte.

Quanto tempo è che non vedo la luce del giorno? Sei o sette salti, pochi giorni in realtà, ma il mio organismo modificato ne risente, inevitabilmente.

Non che potrei permettermi il semisonno in cui le batteriodopsine inducono il mio corpo mentre si nutre, ma questo paesaggio rurale sarebbe perfetto per lo scopo.

Un giorno riuscirò a tornare e anche a vendicarmi. Anche di questo.

Ma, bando alle ciance, vediamo di orientarci. È notte, dicevo, una notte oscura e stellata. Le costellazioni sono riconoscibili, per lo meno. Posso usarle come riferimento. Europa centrale, tra il XII e il XIV sec dell’Era cristiana (sempre che in questo mondo questo riferimento sia applicabile).

Ok, buio pesto, per quanto mi scocci devo riadattare gli occhi. Lo scenario diventa nitido. Aperta campagna, praticamente quasi bosco.

Non si vedono tracce di antropizzazione neppure in lontananza (il che è normale se sono giuste le mie ipotesi sul periodo storico).

Mi attende una lunga e forse inutile camminata. La tentazione di sprofondare nel mondo onirico, così che il mio subconscio possa risolvere un po’ dei suoi problemi col mondo è forte, ma non posso permettermi di abbandonare neppure la più piccola possibilità di ritorno. Lo devo ai miei compagni, che stanno facendo sicuramente la stessa cosa e lo devo anche a Mr Gone, spero che mi stia aspettando, perché io lo troverò e sarò lieto di raccontargli perché la mia gente… le mie genti, si sono liberati da quelli come lui e sarò lieto, anche, di mostrargli come.

La marcia è monotona, trovo della frutta su alcuni alberi (e ai loro piedi). È un buon nutrimento. Mentre cammino è giocoforza occupare la mente ripensando al passato e facendo piani per il futuro. Il passato, almeno quello recente, è un casino al quale preferisco pensare il meno possibile. Il futuro è un’altra cosa.

Per quello devo fare i conti con chi sono. Jazzrabriha Hardekamfor Hordhozlh. Il mio popolo affonda le sue origini in un’antichissima, e per lo più mitica, isola. Stendemmo un impero sopra il mondo quando gli umani non si erano ancora mossi dai pressi del Lago Vittoria. Popolo di potentissimi stregoni, mi dicono. Non avendo combattuto sul mio mondo l’eterna guerra tra i Signori dell’Ordine e i Signori del Caos quel popolo è sopravvissuto al suo declino e si è difficoltosamente mescolato con le altre razze emergenti. Al di la di quanto c’è di mito e quanto di realtà in una storia che si proietta indietro di migliaia di anni, i nostri ricercatori (forse presi da altri, più pressanti problemi, forse per non fare i conti col fatto che una razza che discende da grandi stregoni è tra le meno dedite, nel nostro mondo, alla magia, forse per paura) hanno fatto ancora pochi viaggi fino al tempo in cui quel regno era ancora in piedi e Signori dell’Ordine e del Caos giravano liberi sulla Terra.

Se fossi stato un buon mago ce la saremmo cavata meglio? Ne dubito, con noi c’era uno dei migliori maghi del nostro tempo (e non solo del nostro) eppure Chirone è riuscito a stento a impedirgli di ucciderci. Verrà a cercarci, questo è certo, ma la natura stessa dei suoi incantesimi gli rende, dovrebbe rendergli, difficile, trovarci.

Quello che abbiamo appreso è pericoloso, per lui e i suoi compagni come per noi.

Questo rende più urgente il ritorno, Mr Gone  è un pericolo anche per il nostro mondo. E rende necessario che ci si interroghi sui nostri scopi.

Mentre mi gingillo con questi ameni pensieri ho percorso dei chilometri, sempre senza incontrare nulla e nessuno. Sono ormai ore che sono qui e non è successo nulla. Rispettando i tempi dei miei ultimi salti fra un po’ dovrò andarmene. Le cimici che ho mandato ad esplorare il circondario cominciano a darmi le immagini di un accampamento. Due o tre ore di marcia. Umani. Richiamo le altre e mi incammino in quella direzione.

Dopo questa esperienza ho iniziato a richiamare quante più cimici possibile. Avendo perso il software di gran parte dei miei impianti nanotech sono diventato più prudente anche con quelli ancora in funzione. Contenere la disperazione è la parola d’ordine.

In fondo vengo da una cultura che non disperde le risorse. Cammino pensando a casa, a quanto è simile ed insieme profondamente diversa da questo territorio. Penso ai nostri villaggi e all’abissale differenza con quelli di quest’epoca. Il freddo, la fame, la povertà assoluta tutte cose che il mio mondo non conosce più da generazioni. E mentre cammino pensando a questo ricordo che in gran parte dei mondi umani questo era un periodo di grandi rivolte rurali in Europa.

Poi penso a Mr Gone e all’improvviso so che la mia vendetta nei suoi confronti è gia cominciata, essa è insita nella nature stessa del nostro scontro.

È l’esistenza stessa di mondi come il nostro che lo spaventa e lo irrita.

Devo tornare a casa. Diventa fondamentale che le nostre assemblee discutano di questo pericolo.

Intanto i riassemblatori hanno ristrutturato i miei vestiti in una foggia consona al periodo seppur conservando i colori. Se solo fossi in grado di usarli come armi… ma non sono progettati per questo e io non sono in grado di riscriverli.

Intanto nella mia mente inizia a delinearsi un piano B. Mentre cerco un mago posso impegnarmi in altri compiti. Sono ormai ore che cammino e non me ne sono ancora andato, speriamo bene. Sono ormai vicino all’accampamento e comincia ad albeggiare. Mi fermo per un po’ e aspetto che il sole finisca di sorgere. Poi mi avvicino all’accampamento. Subito vengo accerchiato da una decina di uomini, cenciosi e malvestiti, armati per lo più di forche di legno e strumenti da campagna.

Pietra e legno, qualche raro strumento metallico, una spada, consunta e arrugginita.

- Chi sei? Da dove vieni? I miei database linguistici mi restituiscono la frase con un leggero ritardo, tanto sono più ricche e complesse le varianti linguistiche rispetto ai modelli accademici. Comunque è francese del nord. Programmo in pochi istanti un francese un po’ più vicino allo standard dell’epoca con accento tedesco, così da avvalorare la mia tesi.

- Sono un menestrello e vengo dalla Germania. Sono in viaggio per cantare le lotte di questa terra.

- Le lotte non si cantano, si combattono. Per me sei una spia. Dov’è il tuo strumento?

- E a combatterle son venuto, che cantare qualcosa di forte e vero non si può, se non lo si è vissuto. Ma cantarlo anche è importante, che altri sappiano che contro l’oppressione ci si ribella. Il mio poco bagaglio l’ho lasciato qui vicino, che non ci si avvicina al campo altrui armati. Quanto ai tuoi sospetti non ho modo di fugarli. Se non potete fidarvi di un uomo solo me ne andrò.

- O morirai…

Il contadino fa un goffo affondo con la sua forca. Facile da evitare per uno come me. Mi sposto e afferro l’impugnatura, ruotandola di colpo.

L’uomo si trova disarmato e con la punta appoggiata al collo. L’allontano subito porgendogli il manico.

- Per tua fortuna non ti son nemico.

Afferra l’arma e fa per attaccarmi di nuovo.

- Fermo, siamo forse peggiori di quelli che combattiamo, da uccidere anche chi si dimostra amico?

- Ma…

- Nessun ma, se è un amico gli dobbiamo il beneficio del dubbio, se è una spia vedremo come se la cava con un gruppo armato, ma non giudichiamolo prima.

L’uomo, chiaramente il capo del manipolo, si avvicina. In mano ha un’ascia così grande da far paura persino a me.

- Vai a prendere il tuo bagaglio ti offriamo una possibilità. Abbiamo bisogno di gente che sa combattere.

Lo guardo negli occhi, fermi e determinati.

- Sarà un piacere darvi una mano, ma non potrò fermarmi molto, sono diretto a Parigi.

- Parigi non è lontana, ma temo dovrai arrivarci combattendo.

- Combatteremo, allora.

Mi avvio al luogo in cui mi ero fermato ad attendere l’alba. L’uomo con la scure enorme e un altro mi accompagnano. Li vedo furtivi ed aumento la sensibilità del mio udito. In quest’epoca, senza armi da fuoco e boom sonici, posso permettermi qualcosa di più.

Sento subito qualcuno muoversi nel folto, mando a vedere qualche cimice. Non è una trappola dei miei nuovi amici. Sono meglio vestiti, quasi in divisa, il che dato il periodo, vuol dire esercito “regolare”. Mercenari, in realtà, e sbirri.

Non so neppure se si sono accorti di noi.

Ma mi immobilizzo e segnalo la direzione.

- Non siamo soli. Sono i vostri?

Mi fa segno di no. Mi allunga una roncola, di rame, nella migliore delle ipotesi. Gli faccio segno di no e sparisco nel folto.

Mi vengono dietro, magari anche poco convinti. Ci appostiamo e vediamo passare due vedette reali. Ci guardiamo negli occhi per un attimo poi balziamo. Uno dei due ha una balestra incoccata, uno scarto e mi manca, due secondi dopo ha il suo stesso coltello piantato fra le costole. Cade subito, ancora prima di avere il tempo di urlare. L’altro stramazza al suolo per un colpo d’ascia. Faccio segno con le dita “3” ed indico la direzione. Mi guardano un po’ stupiti ma mi seguono.

Vediamo passare gli altri tre non lontani da noi, furtivi, hanno probabilmente sentito i rumori dell’altra lotta. Il primo cade con un coltello piantato nel collo, poi saltiamo addosso agli altri due. Non fanno neppure in tempo a reagire.

Mi acquatto in ascolto, nulla. Le cimici sono ormai disperse su una superficie sufficientemente vasta. Do uno sguardo rapido. Niente. Probabilmente una pattuglia di esploratori che si è spinta un po’ troppo avanti. Non torneranno, sarà meglio muovere lo stesso il campo.

Raggiungiamo il mio finto accampamento. Raccolgo lo zaino, pieno di niente di importante, l’arco e il pugnale che avevo tirato fuori dalla mia borsa magica prima di muovermi.

Torniamo in silenzio verso il campo.

Appena li l’uomo alto, Louis, inizia a berciare ordini.

Il centinaio circa di contadini che stanno sparsi nei dintorni si muovono veloci e organizzati, dimostrando di essere avvezzi a smontare il campo in fretta per fuggire.

Mi scopro a pensare che se ne avessi il tempo potrei fare di questi uomini dei buoni guerrieri. Se ne avessi il tempo.

In realtà dovrei fare di tutto per tornare, ma non ho alcun controllo su questo e trovare un mago in mezzo a questo bosco è quasi impossibile. Mentre le mie cimici lavorano ho qualcosa da fare.

Ci muoviamo in ordine sparso, in maniera molto silenziosa. Di certo questi uomini hanno il vantaggio della conoscenza del terreno, ma gli altri hanno dalla loro addestramento e superiorità dell’armamento. Se si fanno trascinare in uno scontro in campo aperto sarà un massacro.

 

Il nuovo campo, a chilometri verso nord, è più esteso e frammentato, meno individuabile. C’è un che di stupefacente in questo addestramento a metà. Sono bravi nella fuga quanto limitati nel combattimento, se solo potessi invertire, almeno in parte, questa tendenza.

Ma nelle lunghe ore dello spostamento ho discusso a lungo con Louis. Sono allo stremo. La guerra, i saccheggi ed ora le angherie dei proprietari. E la lotta non va bene, alla fine i signori li prenderanno per fame o per stanchezza, dato che non possono affrontare il nemico in campo aperto.

Gli parlo della guerriglia, cerco di illustrargli come farla funzionare. Molti dovranno tornare nelle terre, l’appoggio logistico è fondamentale.

Quello di cui hanno bisogno è l’addestramento.

Troviamo una decina di loro, particolarmente incattiviti, disposti a farsi addestrare, almeno un po’.

Non posso promettere l’impossibile, starò qui ancora per poco, ma quel poco va usato al meglio, fottiti Mr Gone.

Inizio le mie lezioni, è più di un giorno che sono qui.

Illustro loro le basi del combattimento, andiamo avanti per ore, poi capisco che non hanno la mia resistenza. Ma non si sarebbero fermati, troppo fieri.

Durante la pausa Louis viene a cercarmi, vuole parlare mentre io sono roso dai dubbi.

- Non so se sto facendo la cosa giusta, in fondo cosa posso mai insegnarvi? Non so neppure quanto tempo ho.

Ho paura che quel poco possa aiutarvi solo a farvi massacrare meglio.

- Quello che non capisci è che gran parte di quelli che sono qui sanno gia che moriranno, vogliono solo farlo nella maniera migliore. Che sappiano che per quanto dura potrà essere la loro repressione, noi ci ribelleremo.

- Ma la ribellione, da sola, non porta a molto, magari qualche piccola concessione, pagata col sangue di molti uomini.

- Per noi la scelta è tra toglierci volontariamente il pane di bocca e veder morire di fame i nostri figli per imbandire le mense dei ricchi o ribellarci.

- Per loro, invece, la scelta è più facile, o glielo date volontariamente o mandano dei mercenari a strapparvelo.

- Ma così devono sudarsela, abbassare il capo gli renderebbe solo la cosa più facile. Inoltre abbiamo preso più di un castello. Sappiano qual è il prezzo della repressione.

Tu per cosa combatti, invece?

- Per le stesse cose, più o meno. Ma è più facile farle, che farle fare ad altri.

- Non se gli altri lo fanno per loro scelta, amico mio. A quel punto è sbagliato ostacolarli.

Continuiamo a parlare a lungo, della guerriglia e delle sue tecniche.

- In fondo è un metodo per far meglio ciò che facciamo gia. – Osserva ad un certo punto.

 

L’addestramento alla lotta va bene. Ci sono parecchi allievi promettenti che dimostrano di poter continuare anche da soli. Questo mio apporto alla piccola comunità mi permette di inserirmi velocemente.

Sono qui da cinque giorni, un vero record.

Mi sto ambientando, stamattina sono uscito a caccia per il gruppo, qua attorno brulica di selvaggina, ma con le loro poche risorse devono accontentarsi di ciò che cade nelle trappole. Abbiamo spostato il campo ancora una volta. Stanno aspettando, questo è evidente, ma cosa?

Comunque sono uscito a caccia. Malgrado le trappole la fame è il problema più grosso. Per questo non ho soluzioni, se non transitorie. Stamattina sono a caccia di una preda al di sopra delle loro possibilità. Le mie cimici mi hanno avvertito della sua presenza. Ho preparato alcune frecce con monofilamento lungo la lama, un’arma mortale per chiunque.

Lo sto seguendo gia da un po’, sapere dov’è è una cosa, raggiungerlo un’altra.

Mi metto sottovento, avvicinandomi a poco a poco. Lo vedo nel folto mentre scava per trovare radici commestibili. Incocco la freccia e la scocco. Penetra con facilità nel cranio ed il cinghiale stramazza a terra.

Sono solo. Li vicino c’è una pozza d’acqua, mi tolgo gli stivali ed immergo i piedi.

Sento gli alo-batteri che iniziano a fare il loro lavoro, il sole che filtra attraverso i rami mi colpisce il volto.

Sento il nutrimento che mi attraversa il corpo, se solo avessi ancora attiva la produzione di nanotecnologia potrei replicare il processo sui miei compagni.

Tolgo il berretto che imprigiona i miei capelli metallici, devo resistere alla tentazione di spogliarmi del tutto, ma la pozza non è abbastanza profonda per un’immersione completa e ripulirsi dal fango, poi, sarebbe lungo e noioso.

Terminato il mio “pasto”, estraggo la freccia dal cranio del cinghiale e me lo carico in spalla.

Mi avvio verso l’accampamento pensando a quale panzana raccontare a giustificazione di una preda così improbabile da prendere con arco e frecce. Quando arrivo tutti prendono la cosa con una certa fatalità. E gioia, essendo il miglior pasto da giorni.

 

Il castello, è quasi un insulto chiamarlo così, si adagia su una piccola collinetta. La posizione rialzata offre la visione su tutta la valle, un vantaggio innegabile.

Ma i contadini sono in rivolta da più di un mese e l’erba, attorno alle mura è alta.

I mercenari, adagiati nel grasso bottino dei saccheggi, non si abbasserebbero mai ad un lavoro umile come tagliarla.

Per noi è quindi un gioco avvicinarci, strisciando nella notte e acquattarci nei pressi del fossato, poco più di un rigagnolo, utile solo a non far avvicinare le macchine più piccole e a non far appoggiare le scale contro le mura.

Dentro, lo so, ci sono circa venti mercenari, pochi rispetto a noi, ma ben armati, ben addestrati e a cavallo, una strage sicura, anche se saremmo in grado di sopraffarli alla fine.

Se penso alle imponenti battaglie svoltesi nei secoli passati del mio mondo, mi appare quasi comica la dimensione delle scaramucce a cui ho partecipato in questi ultimi giorni, eppure è guerra, non c’è nulla di comico nella guerra.

Dagli scontri di questi giorni abbiamo tesaurizzato alcune armi, tra cui tre archi e due balestre. Ho cercato di insegnarne l’uso ai più dotati, con risultati decenti. Un drappello di contadini, una trentina, male in arnese, si avvicina alle mura del castello e si fermano. I soldati si sporgono per sbeffeggiarli e minacciarli.

Uno dei migliori tiratori, un certo Etienne, punta la balestra ed abbatte un graduato. Subito i soldati scendono dalle mura, si sente un gran vociare e poco dopo la porta si apre e una passerella mobile viene gettata sullo stretto fossato. Il nostro drappello è gia in fuga verso i boschi, ma compie un largo giro per i campi incolti.

I soldati a cavallo tagliano invece lungo una traiettoria di intercettazione diritta. I più avanzati cadono nella profonda fossa che abbiamo scavato, frutto del nostro lavoro notturno per giorni. Prima che gli altri si riprendano dalla sorpresa un’intera pattuglia gli è addosso. Più della metà della forza nemica è spacciata con perdite relativamente lievi da parte nostra. Noi, intanto, ci siamo alzati e precipitati all’interno delle mura. Prima che i pochi rimasti dentro si rendessero conto della situazione eravamo gia entrati. Lo sconto, comunque, è cruento.

Vengo affrontato da un grosso mercenario, tutto avvolto di cuoio e ferro. Nella destra stringe un grosso martello da combattimento mentre nella sinistra una piccola ascia. Potente e, si spera, poco maneggevole, il suo armamento incute paura.

Il mio arco è nelle mani della pattuglia che ha fatto da esca, ho solo un paio di pugnali e una tozza daga, bottino di guerra di un precedente scontro. Ok, pugnale nella sinistra e daga nella destra attendo il mio corazzato nemico. Il suo attacco è potente ma goffo, rispetto ai miei standard, per lo meno, lo scanso senza difficoltà, ma il mio affondo di risposta si infrange contro la sua corazza. Scanso quasi per miracolo il colpo di rimando della sua ascia e cerco di sgambettarlo. Malgrado la mia forza e la mia tecnica superiore è come cercare di fare lo sgambetto ad una quercia, mi allontano appena in tempo per evitare il pesante colpo di martello che si abbatte dove mi trovavo fino ad un istante prima.

Vedo che lo scontro in campo aperto dei miei compagni procede abbastanza bene, potendo contare su un numero soverchiante ed essendo ridotto la scarto nell’addestramento. Questo castello ci fornirà armi e cibo sufficienti per poter aspirare a prede più grandi, magari uniti ad altri gruppi. A patto di sopravvivere, certo.

Il mio avversario mi incalza con ascia e martello, non posso che indietreggiare, sbilanciato. Trovo un istante di tregua, evidentemente spostare tutta quella massa ha un costo anche per lui, e scaglio il mio pugnale. Entra nella feritoia per gli occhi, purtroppo troppo stretta, e rimbalza via. Malgrado ciò il mio avversario, forse a causa della sorpresa, incespica. Non ho bisogno d’altro, mi scaglio contro di lui con tutta la mia forza, l’impatto è tremendo e doloroso, ma sufficiente a scagliarlo a terra. Perde la presa sul martello ma si è gia quasi rialzato quando gli sono nuovamente addosso. Alzo la sua arma due, tre volte, per essere sicuro che non torni a muoversi. Poi mi volto verso il resto della battaglia, ormai terminata. Sul campo sono rimasti gli otto, dieci soldati che erano rimasti fra le mura e un numero quasi uguale dei nostri, segno che la sorpresa ci ha permesso di contenere le perdite.

Un gruppo trascina al centro una figura lacera e scarmigliata i cui abiti mostravano, malgrado gli strappi, una certa ricchezza. Mi avvio verso un angolo poco interessato al processo che subirà l’un tempo signore di questo maniero prima di essere messo a morte. Malgrado il mio ruolo nel gruppo mi permetterebbe di far parte della corte, preferisco dare una mano nella raccolta di tutto ciò che possiamo trasportare. Quando ce ne andremo lasciandoci dietro solo mura fumanti e diroccate sarà più importante quanto cibo siamo riusciti a radunare che la posizione del cadavere del signore.

 

Louis si precipita da me, chiaramente agitato. Sono passati altri giorni, mi sono quasi abituato a vivere qui, anche se l’inquietudine di essermi arenato per sempre non se ne va.

- Hanno catturato Guillaume, ci serve il tuo aiuto per liberarlo.

- Lo farei volentieri, ma cosa posso mai fare? Dove l’hanno portato comunque?

- È rinchiuso in un castello qua vicino. Un maniero un po’ più imponente di quanto non siano le nostre solite prede. Ho mandato ad avvertire altri gruppi e quando arriveranno avremo uno dei più imponenti eserciti mai radunati in questa rivolta, ma temo sarà troppo tardi. Non puoi nasconderti adesso. So chi sei. Non tutti hanno dimenticato la dea bianca e il popolo fatato. Ti ho osservato bene, sei più veloce e più forte di qualunque uomo, sai di più e la tua musica, per quanto cerchi di nasconderlo, non è di questo mondo. Una notte, mentre stavamo di vedetta, ho visto i tuoi occhi brillare nel buoi.

E ti ho visto mentre ti nutrivi d’aria e luce. Noi abbiamo bisogno di te e dei tuoi poteri per liberarlo perché la prigione è impenetrabile e c’è un mago potente a sorvegliarlo.

- Che tu ci creda o no, non appartengo al popolo delle fate… - faccio una pausa, ripensandoci – ma raccontarti la mia storia sarebbe troppo lungo, ora. Parlami di questo mago e di questa prigione.

 

Le mura sono alte e imponenti. In realtà non lo sono per nulla, ma questa è la mia impressione nel vedere lo spiegamento di forze a guardia della piccola fortezza.

Ci vorrebbe un Warlock o una Susan Storm per entrare qui dentro. O meglio, per entrare andrebbe bene un po’ chiunque, ma noi dovremmo farlo di soppiatto, la cosa mi sembra difficile.

- Entro da solo, al massimo con un compagno. Il problema sarà quello di superare le mura. Da solo posso entrare stanotte, senza luci.

- Vuoi agire alla luce della dea e dici di non appartenere al suo popolo? Comunque sei sicuro di potercela fare da solo?

- Di sicuro c’è solo il fatto che ho più possibilità di entrare, uscire potrebbe essere un problema comunque. Ma questa notte non ci sarà la luna. Poco male, stanotte il buio è nostro amico.

 

È notte. Una notte buia, con solo la luce delle stelle sulla mia testa.

Striscio tra i cespugli e l’erba alta per raggiungere la base del muro.

Per i miei occhi modificati la luce è intensa, le cimici che ho spedito fin sulla sommità seguono le mosse della pattuglia che la sorveglia, un rampino non sarebbe una buona idea, possono individuarlo con le torce.

Il muro è di soli sei metri, non particolarmente liscio, si può fare lo stesso.

Aspetto che passi la pattuglia che sorveglia il perimetro, evitando di guardare le loro torce, poco utili per loro, oltre pochi metri, ma abbaglianti per me.

Inizio a studiare la superficie, piena di appigli. Modifico la mia epidermide per avere più aderenza e penso con rimpianto all’incantesimo di transito nel buio che Chirone ha tentato inutilmente di insegnarmi.

Inizio la scalata. Il primo metro è facile, ma dopo inizio a trovare delle pietre instabili, poco indicate sia per il rumore che per la presa. Mi fermo poco sopra, mentre passa la pattuglia sulla sommità. Ho calcolato quattro pause, a patto che ci siano appigli sufficienti. La superficie dei miei polpastrelli gratta contro la pietra quando riprendo a muovermi. Sarebbe bello essere il Ragno, in questi casi, ma dove lo trovo un ragno radioattivo?

Riparto un’altra volta. Certo che il cervello, sotto stress, fa degli strani scherzi.

Mi chiedo ancora a cosa può servire la mia azione. Ma di fatto, senza Guillaume, verranno certamente massacrati. Fra poco il comune nemico inglese tornerà a farsi pressante, se i contadini saranno ancora in armi il loro potere contrattuale sarà maggiore.

Non realizzeranno il socialismo ma, forse, miglioreranno la loro situazione.

Riprendo a muovermi. Penso alla storia di questi giorni così come l’ho letta sui libri, quelli recuperati indietro nel tempo, perché i nazisti, da noi, avevano fatto una pulizia totale.

La jacquerie fu repressa nel sangue dopo la morte di quest’uomo. Ho dato loro le basi di una diversa strategia e, se mi riesce, darò loro, di nuovo, il loro capo. Sarà sufficiente?

Attendo che la pattuglia passi, poi scavalco il muro. Scendere dall’altra parte è semplice. Se osassi usare ancora l’incantesimo di levitazione sarebbe anche più semplice, ma non si può avere tutto e io non sono un mago, non ne ho l’impegno assiduo, per lo meno.

Scendo nel cortile, dunque.

Qui non c’è sorveglianza, i miei apparentemente inattaccabili nemici dimostrano troppa sicurezza. Del resto hanno catturato il loro nemico principale e domani, all’alba, lo impiccheranno (o qualunque altra forma di esecuzione pubblica si usi in questo mondo, in questo tempo).

Hanno anche ragione di sentirsi sicuri, tanto più che i loro nemici sono contadini e per loro è naturale sottovalutarli. Attraverso il cortile con la massima prudenza, la fretta non può giovarmi. La porta è chiusa, ma questo, per me, non rappresenta un problema. Tiro fuori dalla borsa i miei attrezzi da scasso e mi accingo ad aprirla. Un lavoro di pochi secondi.

Entro, le mie cimici mi hanno mostrato un corridoio sgombro.

Mi incammino, sempre con circospezione.

Sono dentro. Non è un grande edificio, un paio di scale e una decina di celle. Due guardie. Le celle sono tutte piene, ma i prigionieri sono troppo puliti ed in forze per essere qui da molto.

Solo uno è incatenato.

Il più pericoloso e quindi il mio uomo, almeno ad una analisi superficiale.

Oppure mi hanno preso per un idiota. Controllo le serrature, aperte. Scommetto che ci sono anche armi nascoste. Poco male, ho pochi riassemblatori, a parte quelli che modificano il mio abbigliamento, ma più che sufficienti per fare qualche saldatura a livello molecolare. Li sfido, ora, a girare questi cardini. Solo un paio di balestre, cariche. Il meccanismo di tiro non scatterà mai.

Controllo la scala, c’è una trappola a pressione. Salto lo scalino e, con un salto mortale, atterro tra i due guardiani. Affondo due pugnali nelle loro gole.

Stramazzano a terra senza un rumore. Nella stanza c’è un residuo energetico che non so identificare, di probabile natura magica. Non ho tempo di starci a pensare. Mi avvicino alla porta con la spada già in mano. Su uno dei due fili ho applicato quel po’ che mi resta del filamento monomolecolare. Spero di poterlo recuperare dopo, al momento facilita il mio compito. Con un fendente ben assestato mi libero della serratura.

Il rumore è poco più di uno stridio, quando il metallo della spada cozza contro il metallo della serratura, essendo il taglio molto sottile.

Ma i soldati sono ben addestrati e all’erta, sento le imprecazioni quando le porte restano chiuse, le urla e il rumore delle asce e delle spade contro il legno.

Ho chiuso la porta d’ingresso, ma potrebbe restarmi comunque poco tempo. E contro l’intera guarnigione anche l’arsenale superiore che posso mettere in campo, cambiando la storia in maniera imprevedibile, potrebbe non bastare.

Vero che dovrebbero essere tutti distratti dal finto attacco che è stato sferrato per distrarre l’attenzione ma è sempre meglio non contare sulla stupidità altrui.

Mi precipito nella cella e taglio catene con un rumore metallico assordante. Il prigioniero mi guarda stupito, ha anche un po’ paura.

- Guillaume? – faccio.

- Si, ma tu cosa sei?

- Un amico, non preoccuparti, ora dobbiamo fuggire.

Usciamo dalla cella e capisco con orrore a cosa è dovuto il residuo magico.

Un individuo sta attraversando la porta come se fosse fatta d’aria. Il mago, mi avevano avvertito, ma non lo consideravo un pericolo così grande da rinunciare.

Impreco violentemente e lo colpisco con un fendente. Poiché l’incantesimo era stato fatto sul suo corpo e non sulla porta lo attraverso. Ma il filamento monomolecolare fa il suo lavoro, vedo una smorfia, ma di sorpresa più che di dolore, segno che il danno non è significativo. Il secondo fendente non sortisce effetto. Passo velocemente la spada nella sinistra ed estraggo un amuleto che mi ha dato Chirone.

Il lampo si infrange contro lo Scudo di Seraphim, ma mi sbalza indietro. Mentre indosso il medaglione ed estraggo un altro amuleto un altro fulmine mi colpisce. Vedo che sorride nel capire che tutta la mia magia è data da oggetti, sa di potermi sovrastare per lo meno per flessibilità e varietà.

Il sorriso si attenua al mio primo fulmine, ma non svanisce. Si concentra un po’ di più.

La mia arma, caricata da Chirone, è più potente di ciò che lui ha fatto sino ad ora, ma mi restano solo tre cariche e, in qualche modo, lui l’immagina.

Il secondo fulmine colpisce contemporaneamente. Sento urlare da una cella, colpita dalle scariche residue. Usare tali energie in uno spazio chiuso è sempre pericoloso. Getto uno sguardo, è una delle celle chiuse, non mi do certo pena per loro, ma il mio avversario approfitta subito della mia distrazione e cambia attacco. Immagino che se fossi stato un mago il mio scudo sarebbe stato in grado di parare anche questo e forse, se non fossi stato distratto, avrei parato ogni forma di energia, fatto sta che sono concentrato sui fulmini e il suo incantesimo funziona.

Mi trovo avvolto dalle bande scarlatte di Cyttorack. Il controincantesimo è una delle magie più potenti che conosco. Ma recitarlo mentre le bande mi stritolano e il mago inizia a tempestare il mio scudo di fulmini, più frequenti, seppur meno potenti, è qualcosa al di sopra delle mie possibilità. Vuole infrangere il mio scudo o tenermi occupato fino a quando il lento, ma inesorabile stritolamento delle bande avrà posto fine alla mia resistenza. Non mi resta che cambiare tipo di attacco, libero una delle due colonie di riassemblatori che mi rimangono. Per quel che ne so, non potendo controllarne la programmazione, potrei aver liberato dei robottini programmati per le cure di emergenza ed il nostro caro mago si ritroverebbe privo di ogni piccola imperfezione fisica. Niente più nei, niente più cicatrici o malattie. O arti alieni da cui trarre potere, ma ciò, temo, sarebbe chiedere troppo.

Inizia ad urlare, cosa che non vuol dir nulla, in assenza di anestetici a volte il processo di guarigione è ben più doloroso delle ferite.

Approfitto comunque del vantaggio ed inizio a recitare il controincantesimo mentre lui è sopraffatto dal dolore, se riesco a fare in fretta posso beccarlo con lo scudo abbassato o debole.

Le bande cadono ma prima di poter lanciare un altro fulmine vedo che sulle parti di pelle libere dai vestiti si stanno formando delle chiazza grigiastre. Mi precipito nella cella aperta a prendere il prigioniero per un braccio e fuggiamo. Penso con ironia all’incursione dell’elfo nella prigione ed alla statua del mago che resterà a testimonianza della cosa.

Non c’è più modo di impedire a questa leggenda di propagarsi.

Devo trascinare il mio compagno per i primi scalini ma gia quando è il momento di saltare la trappola è completamente padrone di se. Arriviamo alla porta. So che fuori infuria ancora la battaglia. Troppi morti e feriti per coprire la mia azione, avevo detto loro di andarsene non appena fossi entrato. Nessuno si è accorto del nostro piccolo, ma rumoroso scontro, segno che i sigilli del silenzio che avevo posto al mio ingresso hanno tenuto. Li recupero, non si sa mai.

Corriamo nelle ombre fino al muro e mi accingo alla scalata. Questa volta più dura, con un passeggero.

Inizio a sentire la nausea.

Rinfodero la mia spada, ma invece di modificare l’epidermide pesco nella borsa. L’unica cosa sicura da fare in questo caso, visto che non so più quanto tempo mi resta.

Tiro fuori una bomba, piuttosto potente. La piazzo alla base del muro ed indico a Guillaume un luogo in cui ripararsi. Non appena al sicuro gli sussurro – Qualunque cosa accada, non appena ti do il via inizia a correre.

Poi pigio il detonatore. L’esplosione è assordante, ancor più in questo luogo che non ne ha mai conosciute. Cessano i rumori della notte e quelli della battaglia.

- Via. - Cominciamo a correre prima che polvere e calcinacci si depositino. Passiamo attraverso la braccia nel muro e corriamo verso la campagna e il bosco. Faccio appena in tempo a scaricare la mia storia nelle cimici che salto.