#3 - PER SOLA GRAZIA (parte 1 di 2): La nave fantasma

di Alessandro Vicenzi

 

 

1576, Mar Mediterraneo, al largo delle coste maltesi

 

All'interno della grotta marina, le onde si infrangevano piano, con un rumore continuo e insistente. La luce della luna piena si intrufolava a fatica nell'antro, ma l'intera scena era illuminata da numerosi bracieri che ardevano appoggiati sugli scogli. Da una scalinata in pietra stava scendendo, lentamente, una donna vestita con una lunga tunica nera, ricoperta di monogrammi dorati ricamati su di essa. La attendeva una piccola barca, nera anch'essa, e decorata con un viso demoniaco sulla prua. Due uomini dal fisico possente e lo sguardo spento, vestiti di pochi stracci che sembravano essere stati sbocconcellati dai pesci erano seduti dentro l'imbarcazione, pronti a manovrare i remi. La donna salì sulla barca con un movimento aggraziato, che quasi non causò alcun dondolamento, poi si sedette e fece ai due servi un cenno silenzioso. Altrettanto silenziosamente, i due presero a remare, portandosi rapidamente fuori della grotta.

Per oltre due ore, i tre solcarono le onde del Mediterraneo sotto la luna piena. In lontananza, si potevano scorgere alcune navi da carico o guerra stagliarsi contro il cielo rischiarato dalla luna, ma per il resto tutto era silenzioso. La donna stava seduta con gli occhi chiusi, come assorta in una trance sovrannaturale, e di tanto in tanto pronunciava qualche parola in una lingua misteriosa, come si fosse trattato di una preghiera o di un'invocazione. Ad un tratto, spalancò gli occhi e gridò "Fermi!". I due uomini fecero fermare la barca, tenendo i remi in acqua per frenare, mentre la loro padrona si alzava in piedi con le braccia al cielo.

"Morti del mare, io vi invoco!", esclamò ad alta voce, rompendo il silenzio della notte. Dal fondo dell'imbarcazione raccolse una scatola di avorio, la aprì e ne rovesciò il contenuto in mare; una polvere biancastra cadde in acqua e precipitò rapidamente verso il fondo, come si fosse trattato di

sassi, causando un forte ribollire tutto attorno alla barca.

"Sorgete dalle acque e servitemi, ve lo ordino nel nome degli antichi dei e degli spiriti che regnano sul mondo invisibile! Tornate dal mondo buio dove siete stati gettati, infrangete le catene che vi legano e tornate alla vita! Che la vita scorra di nuovo nelle vostre membra! Risorgete dal fondo del mare e combattete per me!" Il ribollio aumentò, facendo inclinare la barca a destra e a sinistra in maniera molto accentuata, ma la donna non sembrava preoccuparsene. Stando sempre ritta in piedi, iniziò a salmodiare una lenta litania, i cui suoni salivano a spirale verso il cielo, come volute di fumo d'incenso. Grandi onde iniziarono a scuotere l'imbarcazione, sempre più forte, fino a che una sagoma scura non iniziò a emergere dal fondo del mare, dapprima lentamente, poi come se una forza invisibile la scagliasse contro il cielo. I due servi sulla barca manovrarono con i remi per allontanarsi un poco dalla massa in emersione, ma la donna proseguì con la sua formula magica, incurante di ciò che le accadeva attorno. Poi, d'un tratto, dalle acque iniziò a spuntare l'albero maestro di un'imbarcazione, al quale era ancora appesa una bandiera, miracolosamente scampata alla distruzione del mare. A poco a poco, fu un intero galeone, dal legno corroso dall'acqua marina e incrostato di molluschi e parassiti, a rivelarsi in tutta la sua macabra maestosità. Sul ponte, i cadaveri di marinai parzialmente mangiati dai pesci, con i vestiti a brandelli e le orbite vuote, stavano ritti in piedi, pronti a ricevere ordini dalla loro nuova padrona... 

 

Alcune settimane più tardi

 

Lo spettacolo del sole che tramontava sul mare era diventato per Solomon Kane abituale e abusato. Ormai da dieci anni viaggiava per il mondo trasportato dal vento e dalle vele delle navi, e quella vita lo aveva reso, se possibile, ancora più chiuso e taciturno di quanto non fosse stato prima di partire. Aveva visto il mondo, certo, ma forse avrebbe preferito non averlo fatto. Si era reso

infatti conto di quanto gli uomini vivessero ormai lontani dai precetti divini, perduti in abissi di malvagità e dissolutezza dai quali non sarebbero mai usciti. Si sentiva, sempre e ovunque, lontano miglia e miglia da casa, e casa non era l'Inghilterra, per Solomon Kane. Casa era un luogo nel quale gli esseri umani si sforzavano di vivere secondo i precetti cristiani, nel quale cercavano nell'agire di ogni giorno un segno di quello che sarebbe stato il destino della loro anima dopo la loro vita terrena. Invece, ovunque andasse, il Puritano si trovava di fronte a uomini che agivano come se le loro anime bruciassero già all'inferno, incuranti della legge di Dio e degli uomini; ogni giorno

strisciavano di qualche pollice in direzione di Satana. Non sembravano essere in alcun modo partecipi del suo anelito verso la salvezza, verso il Signore. Sopravvivevano, sopraffacendosi a vicenda, come belve feroci.

Kane si sforzava di essere diverso, ma temeva, in fondo, di essere pure lui destinato alla dannazione eterna. Ogni istante della sua vita era vissuto nel terrore di scorgere un presagio nefasto riguardante la sorte della sua anima dopo la morte, ed era questo che lo spingeva a lottare e combattere. Mettersi alla prova costantemente era un modo per verificare la benevolenza del Signore nei confronti del suo servo.

 

“Immerso nei tuoi cupi pensieri, Inglese?” fu la voce piena e rotonda di Federigo a strappare Kane dalle sue riflessioni. Federigo era compagno d’armi di Kane su quella nave che lo avrebbe portato in un porto della Spagna, da dove avrebbe poi cercato una nave che lo riportasse in Inghilterra. Era un italiano, rozzo e sguaiato, sempre pronto a porre mano alle armi come se nulla gli importasse della sua vita. Affrontava la mischia con la folle incoscienza di un bambino a cui non avessero spiegato che esiste la morte, con una sorte di sorriso stampato sulle labbra ancora sporche di vino. Portava una folta barba nera che non tagliava oramai da tre anni, a quanto raccontava, ed era di corporatura robusta. Due occhi vispi e in continuo movimento si agitavano costantemente sotto le sopracciglia, nere e folte non meno della barba. Per qualche strana ragione, Kane non riusciva a trovare sgradevole quel curioso personaggio. In qualche modo lo rispettava, sapeva che possedeva un suo personale senso dell’onore e una sua qualche forma di devozione religiosa, nonostante imprecasse spesso e volentieri. Talvolta singhiozzava dormendo, invocando un nome femminile, un nome musicale, probabilmente italiano o spagnolo.

Kane si voltò. Federigo aveva in mano una tazza di vino, e sembrava già alticcio. Il Puritano mosse le sue labbra in ciò che più simile ad un sorriso potessero produrre i suoi muscoli, e rispose:

“No, mio rozzo compare, scrutavo il mare. Pare che i pirati turchi infestino queste acque, e allora non è bene abbassare la guardia”

“Bah, perché cavarsi gli occhi, quando c’è chi è pagato per fare la vedetta?”

“Non conviene farsi cogliere dall’ozio, Federigo. Conosci la storia di Annibale?”

“Uh?”

“Era un condottiero cartaginese, che con le sue armate giunse a minacciare Roma. Purtroppo per lui, si perse in ozi e festeggiamenti prima di sferrare il colpo decisivo, e fu sconfitto.”

“Bah, almeno si sarà divertito! Sai, mi domandavo se tu non abbia mai riso in vita tua. Avevo sentito dire che voi inglesi siete noiosi, ma tu, parola mia, sei di compagnia quanto lo sarebbe oggi questo Annibale di cui parli, dopo secoli sotto terra!”

“Attento Federigo, non costringermi a gettarti a smaltire la tua sbornia in mare… Non credo che Nostro Signore abbia mai riso, comunque, e non vedo perché allontanarmi dal suo esempio.”

“Bah, fratello mio, io fossi in te ora mi farei un sorso di vino, prima di sguainare le spade,” disse Federigo porgendogli la tazza che aveva in mano.

Kane lo guardò perplesso:

“Cosa stai dicendo? Hai intenzione di batterti con me?”

“Non mi sognerei mai, mastro Kane. Purtroppo non credo che i turchi che guidano quella nave là in fondo siano della mia stessa idea.”

Federigo aveva ragione. Le vele, le bandiere, la foggia della nave. Erano pirati musulmani quelli che stavano puntando il loro vascello, e presto avrebbero dovuto combattere ancora una volta per le loro vite.

 

La notte trascorse lentamente e nell’angoscia. A differenza di altre navi sulle quali Kane aveva prestato servizio in quegli ultimi anni, questa era una nave prevalentemente mercantile. Era dotata di un armamento e di soldati, è vero, ma non era stata progettata per il combattimento. Gli uomini non riuscirono a chiudere occhio. Dalla nave nemica giungeva di tanto il canto salmodiato di un sacerdote, a cui faceva da contrappunto il rombo del cannone, anche se le palle cadevano ben lontane dal bersaglio. Federigo si sforzava il più possibile di tenere alto il morale della ciurma, mentre Kane cercava di riposare il più possibile. Sentiva l’italiano parlare del paradiso dei musulmani, e suggerire che i pirati si sarebbero fatti uccidere più che volentieri, pur di finire tra tutte quelle vergini e fiumi di miele e via discorrendo. Il puritano trovava tutto ciò ributtante. Il paradiso è vicinanza al Signore, non piaceri terreni. Le parole di Federigo non facevano che alzare in lui l’odio per gli avversari, e questo era esattamente il piano del suo compagno. Nascosta sotto una scorza indecifrabile, c’era infatti in Federigo l’astuzia e l’esperienza del comandante che sa come ottenere il meglio dai suoi uomini senza che neanche questi si accorgano di essere stati spinti in una qualunque direzione. Kane trasse un profondo respiro, e chiuse almeno per un po’ gli occhi.

 

Poche ore dopo, era come se l’apocalisse fosse scesa sulla nave. All’alba, i pirati avevano spiegate tutte le vele ed erano partiti alla carica, sospinti anche dallo sforzo dei rematori incatenati nella stiva. Un breve scambio di cannonate dalla distanza aveva portato solo danni secondari a entrambe le imbarcazioni, e ucciso solo una manciata di uomini per parte. Un ragazzino di appena sedici anni, totalmente ubriaco a causa dell’acquavite bevuta per farsi coraggio, si era tuffato in mare per il terrore, morendo affogato sotto gli occhi impotenti di Kane e del capitano della nave. Un uomo era stato centrato in pieno da una palla, e ben poco era rimasto di lui. Sull’altra imbarcazione, almeno un paio di pirati erano stati feriti gravemente dalla schegge di legno che un colpo di cannone finito sul ponte aveva fatto volare tutto attorno. Poi era seguito un momento, che a molti sembrò eterno, di tregua, nel quale la nave di Kane aveva cercato di disimpegnarsi dal combattimento, ma invano. La nave pirata aveva urtato la fiancata del mercantile con il suo rostro, e subito una torma di diavoli in turbante, seminudi, era sciamata sul ponte con le armi in pugno al grido di “Allah è grande!”, di fronte a uomini ben poco avvezzi al combattimento corpo a corpo. Era stata ovviamente una carneficina. I marinai cadevano come mosche, sotto i colpi esperti dei loro avversari, cedendo metri su metri. Alcuni avevano cercato di salvarsi implorando mercede, ma non avevano ottenuto altro trattamento che una morte ancora più lenta e atroce. I pirati sembravano intenzionati a non fare prigionieri, a sterminare completamente i loro nemici, con una furia sanguinaria che aveva lasciato atterriti persino Kane e Federigo. E proprio loro due, schiena contro schiena, avevano causato le maggiori perdite ai nemici, menando terribili fendenti o sparando quando possibile con le pistole. Si erano eretti durante tutta la mischia come furie, abbattendo, e tagliando teste a braccia, ammucchiando i morti dinnanzi a sé per poi scostarli a calci, mentre attendevano nuove vittime. Come posseduti da quello che un marinaio di origine nordica poco prima di morire decapitato aveva riconosciuto come spirito del berserk i due guerrieri avevano reso ben difficile la vita ai turchi, assottigliandone le fila in maniera sensibile. Da lontano, il comandante dei pirati li aveva guardati ammirato, pensando a quale spreco sarebbe stato l’uccidere due esemplari che avrebbero reso una fortuna al mercato degli schiavi. Così, aveva dato ordine affinché fossero catturati vivi, e così era avvenuto. Ormai stremati per il lungo combattimento, Solomon Kane e Federigo erano stati catturati e intrappolati da una rete, e poi tramortiti. Non avevano così assistito al rogo della loro nave, oramai un’enorme bara galleggiante, della quale loro due erano stati gli unici superstiti. Tutti gli altri, con i loro sogni, le loro paure, ambizioni, invidie, e umane passioni, dal capitano all’ultimo dei mozzi, erano morti.

 

Kane e Federigo erano stati incatenati allo stesso remo, le loro ferite erano state lavate e avevano ricevuto del cibo, migliore di quello degli altri fantasmi che avevano intorno. Si trattava di uomini in gran parte incatenati ai remi da anni, le cui lunghe chiome si confondevano con le barbe, dalla carnagione pallida, che emanavano un fetore tremendo. Tuttavia, sotto quella pelle si muovevano muscoli temprati dal remo, come perle custodite in un astuccio logorato da secoli trascorsi sotto il mare. Kane li studiava, ne esaminava le fisionomie, e meditava a come sollevare quegli uomini contro i loro aguzzini. Se già considerava ignobile che un uomo potessero essere schiavo, il fatto che potesse esserlo di un miscredente era ai suoi occhi un vero e proprio insulto a Dio. Federigo, invece, sembrava avere perso il suo spirito, sin dal momento in cui aveva aperto gli occhi e si era ritrovato incatenato. Come un animale in cattività che si lascia morire, guardava dinnanzi a sé con gli occhi fissi, e annuiva meccanicamente, senza alcuna convinzione, quando Kane gli esponeva i suoi piani.

 

Muhammad Ibn Al Kazim poteva ritenersi soddisfatto. Aveva fatto un buon bottino, e sicuramente il sultano sarebbe stato impressionato dal risultato di quella scorreria, senza contare che la vendita dei due schiavi cristiani gli avrebbe procurato non pochi denari, ammesso che giungessero a destinazione in buone condizioni. Aveva pertanto disposto affinché fossero trattati con riguardo, anche perché gli altri rematori provassero astio per loro e non li seguissero in un’eventuale rivolta. Lo preoccupava molto, a dire il vero, il più magro dei due. Aveva lo stesso sguardo dei più fanatici guerrieri musulmani che aveva conosciuto, uomini pronti a combattere chiunque si discostasse anche solo un minimo dagli insegnamenti del Profeta, solo che era un cristiano. Sicuramente doveva trovare insopportabile l’essere suo prigioniero, e questo avrebbe potuto risvegliare in lui una forza sovraumana, derivante dalla fede e dal fanatismo. Al Kazim disprezzava i fanatici religiosi. Era un politico, prima ancora che un guerriero, e sapeva benissimo quanto fosse utile la religione per tenere sotto controllo i sottoposti e i più deboli. Se poi dei pazzi non volevano bere alcolici, sperando di poterlo fare dopo la morte, a lui non importava. Il vino di Cipro preferiva berlo da vivo, quando sapeva di poterlo fare. Non credeva a nulla che non potesse vedere con i suoi occhi e toccare con le sue mani. L’oro. Il potere. Questo era ciò che contava. Il resto erano favole per tenere a bada umili e stolti.

 

“Vieni o Azriel, io ti invoco!”

Così parlava la sacerdotessa sul ponte della sua nave di morti, circondata da cadaveri viventi, pronti a obbedire ad ogni suo comando. Aveva montato un cornice istoriata sul castello di poppa, e vi aveva posto davanti un braciere ardente. Ora era in ginocchio davanti ad esso, vestita solo di una leggera tunica di cotone rosso, che non riusciva a coprire completamente le forme del suo corpo. Ne era cosciente: sapeva che Azriel, il suo demone protettore, apprezzava, assieme alla malvagità, i piaceri della carne, e sperava di fargli cosa gradita presentandosi dinnanzi a lui discinta. Recitò un ultima formula, poi scostò i lunghi capelli neri dal viso e guardò intensamente dentro la cornice. Attraverso il fumo del braciere, un volto iniziò a disegnarsi nel nulla. Era il viso di un uomo, dagli zigomi alti e le labbra sottili. Gli occhi erano leggermente obliqui e profondi, sormontati da due sopracciglia sottili e ben disegnati. Il naso era diritto e sottile, e i lunghi capelli neri, lisci come seta, incorniciavano il volto di Azriel, demone degli inferi.

“Bentrovata, Madra, mia diletta,” disse infine, passando una lingua biforcuta sulle belle labbra rosse.

“Volevo mostrarvi cosa ha fatto la vostra potenza, mio signore,” disse Madra sorridendo e incrociando le mani sul seno, scostando nel frattempo ancora un poco la veste.

Il demone parve apprezzare, sorrise, prima felice poi cupo:

“Purtroppo, nel limbo dove sono confinato i miei poteri possono fare ben poco. Se fossi libero, mia cara, ora avremmo una flotta intera di navi demoniache, cariche dei nostri figli immondi, flagelli della razza umana, e in breve tempo potremmo conquistare il potere su tutte le terre emerse. Ma i miei fratelli mi hanno imprigionato qui, lo sai bene, prima di distruggersi da soli nella loro sciocca lotta per il potere… e solo tu puoi liberarmi…”

“Lo so, mio signore, conosco la vostro storia, e vi giuro che farò il possibile affinché i vostri desideri diventino realtà al più presto”

Azriel non ascoltò le ultime parole di Madra. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione. La presenza di un’anima forte, e pura. Un autentico nettare per la sua condizione. Il sacrificio di un simile spirito lo avrebbe liberato per sempre, reso potente come ai tempi in cui la Terra era il suo territorio preferito di caccia, prima che le orribili progenie venute dallo spazio insozzassero ciò che lui e quelli della sua specie avevano creato…

“Madra, figlia mia diletta, mia sposa mistica, ascolta bene i miei ordini…” disse infine, già pregustando la libertà ritrovata.

 

Solomon Kane si era reso conto piuttosto presto di quale fosse il gioco dei loro carcerieri: trattarli bene per mantenerli in salute in previsione della vendita come schiavi, e fare sì che i restanti rematori provassero ostilità per loro. Aveva infatti più volte tentato di scambiare parole con alcuni degli uomini incatenati al suo stesso remo, ma senza successo; Federigo era sempre più chiuso in un mutismo esasperato e terrorizzato e questo isolava completamente il puritano, gli toglieva ogni possibilità di agire. In silenzio, quindi, spingeva il remo e meditava un’impossibile ribellione. L’unico suo sfogo era insultare il grasso turco incaricato di sorvegliare i rematori, ben sapendo che quello non avrebbe potuto infierire oltre un certo limite su di lui. Quel limitato dolore che gli causava battendolo serviva al puritano a mantenere la coscienza di sé, e a non perdersi nell’ignavia. Presto, lo sentiva, avrebbe saputo se il Signore lo aveva abbandonato, o se era destinato a vivere ancora da uomo libero.

 

Al Kazim quasi sputò fuori dalla bocca il raffinato vino che stava sorseggiando quando vide la sagoma della nave che li stava per raggiungere. Yussuf, il suo fidato vice, aveva ragione. Quella nave era la Satyricon, la sua prima preda sul mare, vent’anni prima, quando era solo un giovane nobile al servizio di altri. Ricordava ogni dettaglio di quell’assalto, con Yussuf al suo fianco, ogni moneta del bottino, ogni colpo inferto e ricevuto, l’esecuzione dei prigionieri, l’affondamento dopo la vittoria. Non poteva sbagliarsi, era lei,  ma quella nave doveva essere sul fondo del mare, e il suo equipaggio divorato dai pesci. Invece, stava puntando dritta sul suo vascello, ancora con la sua bandiera intatta che sventolava fiera nel vento, quella bandiera con quell’immagine oscena tratta dallo stesso libro latino da cui aveva preso il nome. Si fece passare un cannocchiale, e quasi impallidì quando vide sul ponte muoversi i cadaveri degli stessi uomini che aveva ucciso anni prima. Lasciò cadere tutto, e corse verso la sua cabina, in preda al terrore. Niente e nessuno  torna dalla morte. Solo gli sciocchi potevano credere il contrario. Al massimo i parenti di un morto possono tentare la vendetta, ma non il morto. Ed era impossibile far tornare a galla una nave dal profondo fondale dove si trovava la Satyricon.

Era come se tutto il mondo nel quale Al Kazim aveva vissuto gli stesse crollando addosso, schiacciandolo sotto le certezze infrante. Capì che stava per morire. Non si può combattere contro i morti, contro ciò che è già passato. Tutti loro sarebbero morti. Nessuno su quella nave sarebbe sfuggito alla morte. Prima di notte non sarebbero più esistiti, cristiani o islamici che fossero. Pensò ai prigionieri. Li avrebbe liberati, prima dello scontro, così avrebbero potuto combattere per la propria vita, affrontare quella morte innaturale da uomini liberi. Cercò di raccogliere le forze, chiamò Yussuf e gli diede istruzioni sul da farsi. Poi, quando rimase di nuovo solo, per la prima volta nella sua vita pregò.

 

Yussuf comparve davanti ai rematori con il volto sconvolto e sussurrò qualcosa nell’orecchio al guardiano, che lo guardò con aria sorpresa e terrorizzata. Poi Yussuf parlò:

“Schiavi, prigionieri del magnificente Al Kazim, a breve le vostre catene saranno sciolte. Poiché l’inferno si è aperto e ha mandato contro di noi i suoi abitanti, il vostro signore ha deciso che combattiate per la vostra vita da uomini liberi. Pertanto, sarete liberati e condotti sul ponte, dove riceverete un’arma o qualcosa di adatto alla vostra difesa. L’inglese catturato pochi giorni fa sarà il vostro capo.”

Kane non capiva cosa stesse accadendo esattamente. Senza troppa cortesia, il guardiano lo liberò e lo fece alzare. Una volta sciolto, il primo pensiero dell’inglese fu di colpire con forza l’uomo, poi prendere in ostaggio Yussuf e… Fu proprio Yussuf, però, a mettergli una mano sulla spalla, e dirgli:

“Vieni sul ponte a vedere cosa ci attende, e capirai che non è il momento di combattere tra di noi.”

Perplesso, si lasciò spingere fuori dalla stiva, mentre sotto di lui i prigionieri erano in uno stato di agitazione, attendendo di essere liberati. Saliti gradini che lo portarono all’aria aperta, si coprì gli occhi con una mano. Non era più abituato alla luce del sole. Quando riuscì a vedere di nuovo, vide la sagoma di una nave che puntava su di loro. Yussuf gli porse un cannocchiale. “Guarda,” disse. E Kane guardò. E vide i morti camminare come se fossero stati vivi. Vide una donna discinta e lasciva dare loro ordini. Vide le abominazioni dell’inferno avvicinarsi. Sentì il sangue bollire. Doveva combattere, e salvare la sua vita. Di cosa sarebbe stato degli infedeli non gli importava, lui avrebbe combattuto per salvare se stesso. Dopo, avrebbe pensato anche loro, con l’aiuto del Signore.

“Capisco,” disse semplicemente, dirigendosi di nuovo verso la stiva.

Il suo discorso al suo raffazzonato esercito fu breve ed essenziale. Disse ai prigionieri che il Signore li stava mettendo alla prova, mandando loro illusioni di morte. Dovevano mantenere salda la fede, e non avrebbero rischiato nulla. Decise che non sarebbero usciti che all’ultimo momento, per risparmiare loro la visione di quei cadaveri viventi, che aveva gelato il sangue pure a lui. Poi, mentre distribuiva randelli e pugnali (mentre lui stringeva la sua sciabola, che gli era stata restituita, e un lungo coltello), andò da Federigo, il cui sguardo era come al solito lattiginoso e fisso.

“Hai capito cosa ho detto?” gli chiese.

Federigo lo fissò, poi all’improvviso gli afferrò un braccio e disse:

“Siamo tutti già morti, inglese, da quando abbiamo messo piede su questa nave. Ci chiamano i morti del mare, a noi rematori. E non so contro chi o cosa stiamo per combattere, ma parola mia siamo morti. Non capisci che è tutto inutile? Dannazione inglese, SIAMO MORTI!”

Kane si divincolò bruscamente e gli voltò le spalle. Un’enorme tristezza lo invase. Federigo era veramente già morto. Aveva deciso così quando era stato catturato. Lui non poteva farci nulla. Non era nulla che potesse affrontare con la spada in pugno. Decise che gli infedeli avrebbero pagato anche per questo.

Poi, un grido dal ponte lo richiamò alla realtà. La nave stava per abbordarli. Gli uomini iniziarono a gridare per lo spavento, e i superiori gridavano loro dietro per farli coraggio. Ci fu, nella stiva, un momento di silenzio preoccupato. “Pregate, miscredenti, se volete che il Signore combatta al vostro fianco!” ringhiò Kane, trasformando in aggressività la sua inquietudine. In un attimo, l’aria si riempì di sommesse preghiere e invocazioni in tutte le lingue della cristianità, mentre di sopra ci si faceva coraggio al grido di “Allah uakbar!”. Al momento dello scontro tra le due navi si sentì un terrificante grido di battaglia, e poi urla e rumore di armi. Era il momento. Kane fece un cenno, e si spinse fuori dalla stiva seguito dai suoi uomini. Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu tremendo: i pirati stavano combattendo contro morti viventi, cadaveri mangiati dai pesci, dalle carni marce ma nonostante questo dotati di forza e resistenza sovraumane. Erano a mani nude, o usavano armi semplici, si gettavano su viventi cercando di morderli, come se avessero avuto fame di carne umana. “Avanti, avanti!” incitò Kane i suoi uomini, spingendo a forza nella mischia i più recalcitranti. Federigo iniziò a urlare, come un pazzo: “Ah, ah, ecco i nostri fratelli morti che vengono a prenderci! Fratelli, uniamoci a loro! Morti del mare, uniamoci! Ah ah ah!!!”. Poi, gettato il coltello a terra, si gettò tra i morti, che lo accolsero tra loro, lacerando e mordendo la sua carne, mentre lui continuava a ridere e gridare.

Kane combatteva invece con la sua solita furia e perizia, ma si rese conto ben presto di come questi avversari fossero difficili da abbattere. Per quante ferite ricevessero, continuavano a muoversi, ad attaccare, ad avanzare, anche se avevano perso arti. Uno di questi, a cui erano state mozzate le gambe, avanzava sul ponte strisciando, e si era attaccato con i denti al polpaccio di un musulmano, che lo colpì al collo tranciandolo di netto. Il morto smise di muoversi. In breve, tutti gli uomini cercavano di decapitare i morti viventi, che erano però in una superiorità numerica schiacciante. Kane si rese conto che non era quello il modo di vincere quella battaglia. Dovevano arrivare alla strega che li comandava. Era lei che continuava a bruciare erbe e resine sul braciere, lei che recitava formule blasfeme. Se fosse riuscito a fermarla, era convinto che avrebbe vinto la battaglia. Solo, doveva raggiungerla, e per farlo avrebbe dovuto superare quel muro di morti. Con il solo acciaio, non ce l’avrebbe mai fatta, anche con l’aiuto di Al Kazim, che era sicuramente il più valoroso dei musulmani. Arretrò fino all’albero maestro della nave, dal quale penzolava una lunga fune. Si afferrò e iniziò ad arrampicarsi, le due lame infilate in ciò che restava dei suoi pantaloni. Dall’alto, la scena della battaglia era orribile a vedersi. Il ponte della nave musulmana era un tappeto di cadaveri sul quale si muovevano altri cadaveri. Il sangue era ovunque, il suo odore metallico quasi insopportabile, le grida di terrore e disperazione laceravano l’aria. Ma sull’altra nave, ora Kane poteva vedere alla perfezione la fonte di tutto l’orrore, una donna, una giovane donna, in piedi dinnanzi ad un braciere ardente, nei cui occhi scintillavano malvagità e gioia.

Con un grido, il puritano si diede lo slancio necessario e attraversò la battaglia aggrappato alla fune. Atterrò sul ponte della Satyricon piuttosto malamente e rotolò un paio di volte su stesso, rischiando di ferirsi da solo. Mentre si rialzava, ancora parzialmente stordito, sentì dei pesanti passi avvicinarsi a lui. Erano le due guardie del corpo della strega, anch’essi morti viventi, ma molto più pericolosi dei marinai risorti dal mare. Portavano grosse scimitarre con loro, e avevano fisici possenti da lottatori. Kane non li lasciò avvicinare troppo a lungo. Con un gesto fulmineo, scagliò il suo pugnale verso la gola di uno dei due. La lama scintillò un istante nell’aria, per poi conficcarsi nella carne, e là rimanere. Mentre quello cadeva a terra, il suo compagno si avvicinò allo spadaccino, menando un poderoso fendente. Kane scartò di lato, ma non abbastanza in fretta, e l’acciaio morse il suo braccio sinistro. Un fiotto di sangue uscì dallo squarcio, ma non aveva ancora toccato terra quando la testa del colosso rotolò per terra, mozzata dalla parabola tracciata dalla spada dell’inglese.

A questo punto, la donna si rese conto del pericolo che stava correndo. La preda che stava cacciando per conto di Azriel si era tramutata in cacciatore, e ora voleva la sua testa. Le sue guardie erano cadute, ed era troppo tardi per richiamare i suoi servi. Inoltre, l’uomo che si stava avvicinando al castello di poppa sporco di sangue, bruciato dal sole e temprato da migliaia di duelli non sarebbe stato certamente preda degli incantamenti di seduzione che conosceva. Doveva fuggire, se voleva potere servire ancora il suo signore. Innalzò più velocemente che poteva una preghiera agli spiriti dell’aria, mentre la distanza tra lei e la sua morte si stava accorciando di secondo in secondo. Ora l’uomo stava salendo i gradini, riusciva a leggere l’odio e la determinazione nei suoi occhi. Poi, l’incantesimo giunse a compimento. Gli spiriti che dimorano nell’aria la sollevarono e la spinsero via sulle ali del vento in un attimo. Era salva.

 

Kane fissava stupefatto il braciere. La strega era scomparsa, in un istante solo, come spazzata via dal vento. Era rimasto soltanto il braciere, che continuava ad ardere emanando un odore nauseabondo. Alle sue spalle la battaglia continuava. Afferrò le gambe del braciere e lo spinse verso la balaustra del castello che dava sul mare, quindi lo rovesciò in mare. Affondò immediatamente, e nello stesso istante i morti viventi smisero di muoversi, cadendo al suolo immobili. Anche la Satyricon iniziò a cedere. Il mare reclamava ciò che era suo. A passi veloci, Kane tornò sulla nave pirata. Si guardò rapidamente in giro. Tutti, musulmani e cristiani, lo fissavano stupiti. Erano sopravissuti abbastanza prigionieri per tentare l’impossibile. Alzò al cielo la sua spada, e gridò:

“Uomini liberi, prigionieri liberati! Avete visto cosa il Cielo ha scagliato contro di voi per esservi lasciati sottomettere da questi senzadio! Ma nella sua infinita bontà, il Signore vi ha concesso di lottare ancora per la vostra vita e la vostra anima! Usate le armi che avete in mano e ricacciamo in mare questi demoni!!! Dio lo vuole!!!”

Ma nessuno si mosse. Provati dalla cattività e dall’inferno nel quale erano stati precipitati, i prigionieri erano rimasti immobili, e avevano fissato Kane con lo sguardo assente. Tale fui la delusione dell’inglese che non si rese conto nemmeno dei due pirati che gli erano scivolati alle spalle. Fu immobilizzato in un attimo, mentre i rematori venivano ricondotti ai loro posti. Venne legato all’albero maestro, mentre Al Kazim faceva innalzare preghiere all’Altissimo dai suoi uomini. Solo per un istante i loro sguardi si incrociarono, e quello dell’uomo che aveva appena scoperto la fede prometteva i tormenti dell’Inferno stesso.

 

(CONTINUA)

 

NOTE:

 

Come si può notare controllando la data, questa storia (doppia!) si svolge un po’ di tempo prima rispetto ai due episodi precedenti. Nell’ambientazione ho cercato, con estrema umiltà, di ricalcare l’ottimo Wood di Dago. Spero che questa volta la lunghezza non sia eccessiva, considerato anche che c’è una seconda parte che temo avrà di nuovo una lunghezza non disprezzabile… Buona lettura! (Dimenticavo: ovviamente, il fatto che i musulmani siano i cattivi è puramente funzionale a quelli che sono gli stereotipi del genere. Di questi tempi mi sembrava corretto specificarlo!)