di Giuseppe Felici rossointoccabile

 

#2 - Un passo nel buio

 

Numalia è una pessima città per i vagabondi e i mendicanti.

Sono qui, per strada, a chiedere una moneta, un piccolo aiuto per mangiare.

Ma la gente passa senza neppure vedermi.

Ogni tanto un barbaro mi getta qualcosa, mai molto, insultandomi. L’insulto è compensato dalla moneta (o viceversa?)

Dai cittadini, invece, solo indifferenza profonda.

Il popolo di Numalia è troppo preso dal bisogno di costruire profitto. E il cuore prende la forma del maggiore interesse di un uomo.

Non mi vedono, in particolare i ricchi. Passano sulle loro bighe, per lo più condotte da schiavi, per le ampie vie acciottolate, tra ali di palazzi sfarzosi. Spezzo e rovino la loro sensazione di potenza.

Mi notano, però, cinque membri della guardia cittadina.

Corro via, cercando di perdermi tra i vicoli della città. Mi seguono da vicino, con le loro lance. Posso sentire, dietro di me, il tintinnare delle strisce metalliche appese all’elmo del loro pretore.

Perché mai intendano passare il loro tempo appresso a un povero mendicante è fuori dalla portata del mio intelletto. Forse devono riempire il tempo mentre fanno finta di non vedere qualcosa.

In ogni caso si richiedono misure estreme per sfuggire a questo inseguimento. Non ho alcun interesse a finire nelle loro grinfie.

Quando arrivo sul bordo della terrazza panoramica che da sulla stupenda casa delle vestigia, dove sono custodite le antichità di molte terre, tesori che valgono il riscatto di un re, come si suol dire, scavalco il basso muretto e mi acquatto sulla cima di uno dei giganteschi alberi che si trovano al di sotto.

Le guardie tintinnanti passano sopra di me, dall’altra parte del muro, ma nessuna di loro pensa, neppure di sfuggita, a guardare oltre il muro, in direzione del mio nascondiglio. Le sento allontanarsi, ma aspetto, ammirando l’enorme palazzo oltre il fiume. Mi chiedo chi sarà, ora, il suo proprietario.

Potrei rimanere acquattato qui sopra fino al sopraggiungere della notte, scendere lungo i rami dell’albero, attraversare a nuoto il fiume, la cui corrente è impetuosa ma tutt’altro che irresistibile (il ponte di pietra sopra al corso d’acqua è troppo visibile), scivolare tra le guardie semiaddormentate, arrampicarmi lungo i fregi che ricoprono le pareti esterne e penetrare in una delle sale attraverso il tetto.

Troverei certamente qualche tesoro, trasportabile ma di inestimabile valore, che mi trascinerebbe fuori dalla mia condizione di mendicità.

Non è il rischio di una simile impresa a farmi desistere.

Mi scuoto da simili fantasie e risalgo sul muro. Il sole sta per tramontare, devo sbrigarmi.

Sono assorto nei miei cupi pensieri quando qualcuno, alle mie spalle, mi colpisce con forza sulla testa. Chiudo gli occhi e stramazzo a terra.

 

Quando li riapro sono fuori città.

Inequivocabilmente.

Sono legato, con corde spesse e ruvide, ad un blocco di pietra.

Accanto a me un altro altare, vuoto.

Ai lati due monoliti neri, che lanciano, in qualche modo, riflessi sotto la luce della luna, alta tra di loro.

Credo di sapere dove sono. Si racconta, sempre sottovoce e mai di notte, di questi luoghi, sparsi un po’ ovunque, nelle terre conosciute. Pochi sono sopravvissuti a chissà quanti cataclismi, da quando sono stati eretti. Ere ed ere fa, quando diversi erano i poteri sul mondo e altra la sua forma. Ma in ognuno di essi si celebra ancora il rito di sangue di un essere così antico che si è persa anche la memoria del suo nome. Il dio senza nome.

Ci sono certamente delle iscrizioni sul davanti dei monoliti. O tracce di esse.

A stare a sentire quello che raccontano dovrebbero significare, approssimativamente: “Si dice che le cose corrotte degli antichi tempi ancora strisciano in qualche angolo del mondo e i cancelli si aprono ancora in certe notti su un inferno senza uscita.”

Ma i caratteri con cui sarebbero incise queste parole sono antichi ed alieni. E nessuno sa veramente se questo è ciò che significano le iscrizioni sui monoliti. Io non inciderei un avvertimento contro il mio culto nel luogo in cui lo pratico.

Non dubito, però, legato su questo altare, che improvvisamente mi paiono credibili.

Un sacerdote e un soldato, che non indossa la divisa della guardia cittadina, compaiono nel mio campo visivo. Apparentemente non c’è nessun altro.

Il sacerdote inizia. – Sono gli dei più antichi che noi dobbiamo pregare. E stanotte faremo sacrifici agli dei. – Fa un passo indietro ed alza la braccia. – Ascoltatemi, o signori con gli artigli che abitate in luoghi senza nome. Ora che siamo alla vigilia dell’estate, nella notte in cui potete passare dal vostro mondo al nostro, viaggiate attraverso fiumi di rosso, il sangue di un uomo appena ucciso. – Così dicendo pugnala il soldato alle spalle. L’uomo cade sull’altare accanto al mio. Mi sembrava mancasse colui che apre la via.

- Ora vieni, signore, vieni. –

E qualcosa brilla, come in risposta alle parole del prete, sopra la mia testa, tra i due monoliti, qualcosa che copre la luna e le stelle.

E una cosa mostruosa, simile a un rospo, sembra coagularsi come il sangue sull’altare accanto a me.

Una cosa enorme che si accovaccia sopra i monoliti.

Dopo un istante in cui tutto sembra immobile, silenziosamente, il mostro guarda giù, verso di me. Istintivamente i miei muscoli si tendono, forzando le corde. Non serve a nulla, questo corpo non ha la forza per spezzarle, non in così poco tempo, per lo meno.

Il mostro striscia, lentamente, lungo il monolite e il prete leva ancora le sue mani, pronunciando parole dimenticate.

Ora, più chiaramente, vedo i lineamenti ripugnanti del mostro nella luce lunare. Vedo i suoi occhi, che riflettono tutta la crudeltà e il male senza nome che sono entrati nei cuori degli uomini fin dall’alba dei tempi. Segreti malvagi che dormono nelle città sommerse e che fuggono alla luce nelle caverne più profonde. E il mostro si dirige verso di me. Mi giunge vicinissimo, spalanca le sue fauci deformi… e a quel punto, forse, mi riconosce.

Con le fauci ancora aperte, si gira, come per fuggire, ma non c’è alcun vortice di fumo sceso dai monoliti, il passaggio necessita di sacrifici per essere aperto. Guarda il prete, ma prima che possa muoversi anch’io spalanco le mie fauci, non certo una bocca materiale. Il prete, mentre mi vede scivolare fuori dalle corde, non può vedere altro che il mostro, gigantesco, che sparisce dentro la mia bocca umana. Un assurdo prospettico, dal suo punto di vista. Ma il suo cervello umano non può razionalizzare in alcun modo quello che ha visto.

Questo non è sufficiente ad ucciderlo, o a devastare la sua mente malvagia. Ma, dopo essermi nutrito dell’essenza della creatura infernale, prima di riascendere al mio alto trono, riassumo il mio vero aspetto, davanti al quale nessun essere vivente può sperare di resistere. Poi cammino, per vie che l’uomo non può conoscere, fino alla cima della mia alta montagna e mi siedo.

Nessuno racconterà ciò che è successo un quella radura, non è per simili azioni che voglio essere adorato, da coloro che mi sono fedeli. Tutto ciò che pretendo da loro è che apprendano il segreto dell’acciaio.

 

 

Nota.

Brevissimo racconto, ma le cronache sono per lo più così. Un altro tassello nell’affresco del mondo tra la caduta di Atlantide e le migrazioni dei figli di Aryas. I più accorti avranno riconosciuto dei riferimenti alle prime avventure di un certo re cimiero. Gli altri, spero, si divertiranno lo stesso. Ho cercato, infatti, di tenermi il più discosto possibile, nel concepire questa serie, dalle avventure dell’eroe dei pulp.

Essendo un’antologica è aperta ai contributi di chiunque. Per proposte o commenti c’è la lista, il forum oppure l’indirizzo in cima alla storia.

A presto.