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Antonio Ausilio

Antonio Ausilio

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La tempesta. La lega degli straordinari gentlemen, recensione: la fine della saga di Alan Moore e Kevin O'Neill

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Chi, come noi, ha sempre ammirato il genio di Alan Moore, che lo ha costantemente appoggiato nei suoi eccessi contro Marvel e DC o nei suoi atteggiamenti un po’ altezzosi verso le major hollywoodiane, che ha accettato come semplici stramberie di un autore fuori dagli schemi la sua misantropia o il suo bizzarro interesse per magia e occultismo, un articolo del genere non avrebbe mai voluto scriverlo. Sapevamo che il momento prima o poi sarebbe arrivato, ma lo sconforto che in questi ultimi due anni ha seguito ogni annuncio di un ulteriore rinvio per l’uscita de La Tempesta (capitolo finale de La Lega degli Straordinari Gentlemen, la serie che può ormai essere considerata – almeno in ambito fumettistico – il testamento artistico dello scrittore inglese), veniva presto sostituito dal sollievo di sapere che sarebbe passato ancora del tempo prima di avere tra le mani il volume che avrebbe segnato l’addio definitivo del bardo di Northampton alla Nona Arte. Non ce ne vogliano i grandi maestri tuttora in attività, ma non possiamo fare a meno di pensare che, senza un gigante come Alan Moore, il nostro amato mondo delle nuvole parlanti non sarà più lo stesso.

Un’amarezza che ha accompagnato anche la lettura di questa saga conclusiva, dato che, fin dalle pagine iniziali, l’intenzione dell’autore britannico di voler tirare le fila alla sua lunga - e spesso travagliata - carriera, di esaltare i temi a lui cari e, soprattutto, di celebrare l’intero immaginario che ha contribuito in maniera determinante a influenzare il suo lavoro è apparsa più che evidente. E chi conosce la cura maniacale per i dettagli con cui Moore ha sempre caratterizzato la sua scrittura, comprenderà facilmente come, con un preambolo di questo tipo e con poche righe a disposizione, pensare di arrivare a un’analisi accurata de La Tempesta sia un’impresa destinata al sicuro fallimento. Siamo altrettanto certi, tuttavia, che pure una semplice descrizione dei suoi tratti essenziali sia perfettamente in grado di fare emergere la grande ricchezza di contenuti del testo. Un’affermazione che trova immediato riscontro nella trama – al solito acuta e raffinata - che riprende esattamente dal punto in cui si era interrotta nel finale di Century, il precedente capitolo della serie. Vediamo, infatti, Mina Murray, Orlando ed Emma Night giungere a Kor, in Uganda, e immergersi nella sorgente di Ayesha, grazie alla quale l’ormai anziana Night recupera la sua giovinezza e acquisisce il dono dell’immortalità, come successo parecchi anni prima alla stessa Murray. La scena si sposta, quindi, a We nel 2996, dove la soldatessa geneticamente modificata Satin Astro riesce a fuggire nel passato, nel tentativo di impedire gli eventi che hanno portato al suo distopico futuro. E mentre a Londra l’autoproclamato M dei servizi segreti si mette sulle tracce della latitante Night, questa assieme alle sue due nuove compagne prova a trovare rifugio presso l’Isola Lincoln, governata dal pirata Jack Dakkar, pronipote del leggendario Capitano Nemo.

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A coloro che conoscono la Lega degli Straordinari Gentlemen per sommi capi, magari solo per aver visto il (brutto) film che la 20th Century Fox le ha dedicato nel 2003 o a chi si è appassionato alla serie televisiva Penny Dreadful, che riprende alcuni meccanismi narrativi del fumetto, questo breve accenno alla storia raccontata nel volume potrebbe far credere di essere di fronte a qualcosa di simile. In effetti, quando la collana fu concepita nel 1999, come parte del progetto America’s Best Comics, per la Wildstorm di Jim Lee, la premessa sembrava essere proprio quella. All’epoca, Moore, ispirandosi nel nome al film inglese The League of Gentlemen del 1960 - conosciuto in Italia con il titolo Un colpo da otto - e nei contenuti alla Wold Newton Family di Philip José Farmer, ideò un brillante mix tra il fumetto supereroistico (non sfuggirà l’utilizzo del termine “league” come probabile riferimento alla Justice League della DC) e la letteratura di fine Ottocento, immaginando che l’Impero Britannico, per recuperare la preziosissima cavorite (fittizia sostanza in grado di far volare le macchine, menzionata per la prima volta nel romanzo I primi uomini sulla Luna di H. G. Wells), avesse deciso di riunire un gruppo di individui dotati di abilità fuori dal comune. Della formazione facevano parte Mina Murray (ex moglie di Jonathan Harker, uno dei protagonisti del Dracula di Bram Stoker), l’esploratore e abilissimo cacciatore Allan Quatermain (un personaggio di Henry Rider Haggard), il Capitano Nemo (il noto comandante del Nautilus, apparso in Ventimila leghe sotto i mari), il mostruoso Edward Hyde (alter-ego del Dott. Henry Jekill, dal racconto di Robert Louis Stevenson) e Hawley Griffin (l’uomo invisibile dell’omonimo romanzo di H.G. Wells). In altre parole, lo scrittore di Watchmen suggeriva che il concetto di superuomo, diventato popolarissimo negli Stati Uniti alla fine degli anni Trenta, ma già intravisto qualche anno prima in alcuni degli eroi dei pulp magazine, discendesse da una naturale tendenza dell’uomo a immaginare esseri eccezionali, che in un’intervista per CBR del 2007, l’autore ha fatto addirittura risalire alla mitologia greca.

Questa convinzione ha trovato via via sempre maggiore spazio all’interno della serie, cominciando a concretizzarsi nel Black Dossier, sorta di intermezzo tra la seconda avventura della Lega (quella che si rifà alla Guerra dei mondi di Wells) e Century, in cui Moore, libero dalle restrizioni della DC - dove, nel frattempo, si era accasata la Wildstorm - in seguito all’ennesimo litigio con i suoi vertici, allargò di molto il campo delle sue fonti, iniziando a includere pure il teatro, il cinema, la televisione e il fumetto stesso, attraverso una prosa più cervellotica e una narrazione, a tratti, davvero difficile da seguire. Inoltre, anche la sua caustica irriverenza, tenuta parzialmente a freno nei primi due capitoli, cominciò a manifestarsi con forza, fino a esplodere proprio nel finale di Century, nel quale il campione della cultura pop di allora, il maghetto Harry Potter, veniva trasformato nientemeno che nell’Anticristo, destinato, per giunta, a soccombere per mano di una manifestazione di Dio con le fattezze di Mary Poppins.

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Ed eccoci, infine, a La Tempesta, dove l’inno che l’autore inglese ha scelto di comporre per glorificare la fantasia dell’uomo raggiunge il suo apice. La vicenda è, se possibile, ancora più complessa e stravolge del tutto l’assunto di base della serie, abbattendo definitivamente la già esile barriera che separava realtà e finzione, tanto che, dopo poche pagine cominciamo a vedere le opere di William Shakespeare condividere lo spazio con semplici filastrocche per bambini, i romanzi di Virginia Woolf mescolati alle canzoni dei Beatles, il feuilleton di fine Ottocento trasfigurato nelle avventure di misconosciuti supereroi britannici del secondo dopoguerra, i protagonisti dei viaggi straordinari di Jules Verne confondersi con gli alieni di Star Trek e avanti così fino al deflagrante finale, certi di aver perso chissà quanti altri dettagli o riferimenti nascosti. Ciò nonostante, quello che lascia davvero stupefatti, non è l’enorme numero di personaggi coinvolti o tutti gli scenari messi in campo, ma il fatto che Moore riesca sempre a rimanere saldamente ancorato alla trama, senza dare mai l’impressione di perdersi in divagazioni fini a sé stesse. Ogni rimando, omaggio, allusione mostra costantemente di avere una sua ragion d’essere, pur essendo parte di una fantasmagorica allegoria, dove le tavole liberty di Little Nemo si uniscono alle scenografie in 3D del Mondo Fiammeggiante o dove le patinate immagini dei fotoromanzi arrivano a convivere con l’umorismo scorretto di strip inglesi ormai dimenticate.

E in questa magnificazione della creatività, perfino la crescente disillusione dello scrittore nei confronti del fumetto contemporaneo sembra attenuarsi, relegando il suo livore verso la cupidigia dei grandi editori al ricordo di alcuni cartoonist britannici finiti nell’oblio (ai quali è dedicata una rubrica all’inizio di ogni episodio), mentre il suo sarcasmo e il suo gusto per lo scherno vengono dirottati nell’esilarante finta pagina della posta che chiude ogni albo, in cui Moore prende amabilmente in giro le improbabili missive dei giovani lettori di una volta. L’autore inglese, tuttavia, non resiste alla tentazione di mostrare cosa pensi dell’utilizzo continuo di tematiche strabusate o dell’eterno sfruttamento dei soliti character, così come non esita a evidenziare con enfasi a quali personaggi vadano le sue preferenze, sulla base di quanto aveva già fatto trasparire nel Black Dossier. Esemplare, in proposito, è lo scontro finale tra James Bond (mai chiamato con il suo nome per intero, per ovvi motivi di copyright, ma solo Sir James o Jimmy) ed Emma Night (ovvero la Emma Peel di Agente Speciale), dove è la seconda a prevalere e a cui Moore fa dire: “Jimmy… hai avuto una bella vita, ma è finita da tempo”, lasciando intendere di non gradire affatto il continuo apparire di nuove incarnazioni dell’agente 007, tanto da spingersi a ridicolizzare platealmente i sei attori che finora ne hanno vestito i panni al cinema. Alla fine, però, è il richiamo nostalgico a predominare su tutto, nella consapevolezza che il fumetto che lui ha tanto amato e con il quale è cresciuto non esiste più. Da qui le copertine degli albi che omaggiano alcune storiche testate inglesi (similmente a quello che lo scrittore britannico aveva già fatto con i comic book in Tom Strong – di cui La Tempesta ne raccoglie e ne espande le intenzioni – e ancora prima con la stravagante miniserie 1963) o le schede in stile Who’s Who dedicate ai membri dei Seven Stars, poste nella quarta di copertina di ogni numero. Fino ad arrivare alle battute conclusive, dove, con le nozze tra Capitan Universo ed Electro-Girl, Moore cita apertamente uno dei più noti matrimoni di casa Marvel, quello tra Mr. Fantastic e la Donna Invisibile, riproponendo la celebre gag meta-fumettistica nella quale a Stan Lee e Jack Kirby non veniva permesso di partecipare ai festeggiamenti.

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Ci sarebbe ancora moltissimo da dire sulla sceneggiatura, ma così facendo, rischieremmo di non dare la giusta importanza ai disegni di Kevin O'Neill, pure lui all’ultimo lavoro importante della sua carriera con La Tempesta (dopo la quale si è limitato a realizzare qualche copertina e a illustrare alcune pagine del libro di magia che, nel frattempo, il buon Alan ha realizzato in coppia con Steve Moore), alla cui riuscita, è bene sottolinearlo, il suo contributo è risultato più che determinante. Se, infatti, nei primi due capitoli, pur continuando a rappresentare i personaggi attraverso le sue tipiche figure oblunghe, distorte e spigolose - con un occhio inevitabilmente rivolto anche all’iconografia vittoriana -, le tavole abbracciavano distintamente le atmosfere steampunk volute da Moore, già nel Black Dossier e ancora di più in Century, avevamo assistito a un progressivo mutamento del suo stile, per adattarlo al nuovo assetto deciso dallo scrittore per la serie. Ne La Tempesta la metamorfosi giunge a compimento e O’Neill recupera del tutto la sua propensione per il grottesco e per la caricatura. Inoltre, le vignette si riempiono di dettagli surreali, improbabili geometrie, effetti a metà tra il cubismo e l’espressionismo (e per quanto riguarda questo aspetto, complimenti ai grafici della Bao Publishing per essere riusciti nel non facile compito di mantenere nell’edizione italiana le suggestioni dell’opera originale), e il tratto del disegnatore di Marshal Law si trasforma spesso in maniera radicale, pur di emulare quello dei numerosissimi autori evocati dal suo partner creativo, preda, come detto, di un furore citazionista senza limiti. Un cambiamento che di frequente diventa così repentino e vorticoso, da rendere inevitabile la presenza di alcune incertezze e semplificazioni nei personaggi, di cui a farne le spese sono soprattutto le tre protagoniste, le quali, a volte, se non fosse per i diversi abiti che indossano, sarebbero quasi indistinguibili. Un’approssimazione che ci sentiamo tranquillamente di perdonargli, anche perché non influenza minimamente la qualità complessiva del suo lavoro, dove, peraltro, è evidente il divertimento con cui l’artista britannico ha assecondato ogni idea balzana passata per la testa di Moore. Anzi, a volte si ha persino l’impressione che O’Neill ci abbia messo molto del suo. Basti vedere, per esempio, la vignetta che mostra l’emergere del Signore di Marte, nella quale si riconoscono tutti i più importanti “marziani” della fiction, compresi quelli delle figurine di Mars Attacks!, riportati in auge da Tim Burton nel film omonimo del 1996.

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E con quest’ultima annotazione è giunto anche per noi il momento di calare il sipario. Inutile dire che sarà difficile, per qualche tempo, non provare un pizzico di malinconia ogni volta che vedremo i fumetti di Moore spuntare dalla nostra libreria, oppure resistere all’impulso di rileggere qualche pagina di V for vendetta all’apparire della maschera di Guy Fawkes dopo l’ennesimo attacco informatico messo a segno da Anonymous. Eppure – lo confessiamo – ancora più arduo sarà, in entrambi i casi, riuscire a trattenerci dal rivolgere gli occhi verso il cielo, sperando di poter arrivare con lo sguardo fino alla Nube di Oort e di scorgere Edward Hyde e Mina Murray impegnati nel loro ballo senza fine.

Dune – Casa degli Atreides 1, recensione: il prequel a fumetti di Dune

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I sei romanzi scritti da Frank Herbert tra il 1965 e il 1985, che costituiscono il corpo principale del ciclo di Dune, sono da parecchi anni un caposaldo della fantascienza letteraria. Fin dal suo esordio, l’opera ha raccolto uno stuolo di appassionati e il plauso di scrittori e registi, affascinati dalla commistione tra misticismo, fervore ecologista e l’insolita visione di un’umanità padrona della galassia, ma regredita in una sorta di neo-feudalesimo, in cui il potere viene spartito tra casate nobiliari, gilde commerciali e sette religiose.

Proprio riguardo ai registi, complice l’arrivo su grande schermo del nuovo adattamento cinematografico del primo libro della serie – oltre alla fugace distribuzione in sala del documentario Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich – di recente si è tornati a parlare di quando, a metà degli anni Settanta, Alejandro Jodorowsky tentò – senza riuscirci – una monumentale trasposizione su celluloide dei romanzi di Herbert. I veri cultori della Nona Arte, però, ricordano che l’autore cileno, nonostante il film non venne mai girato, rielaborò le idee sviluppate per il cinema in una sorta di versione apocrifa di Dune e, in coppia con Moebius (già chiamato a collaborare allo storyboard della pellicola), diede vita al celebre ciclo a fumetti de L’Incal. Cionondimeno, per stessa ammissione dell’interessato, più nota è l’influenza che la saga degli Atreides ha avuto su George Lucas nel concepire l’universo di Star Wars, tanto che proprio lo stratosferico successo di Luke Skywalker e compagni - e la conseguente invasione di prodotti multimediali ad essi legati - deve essere stata la molla che ha convinto Brian Herbert (figlio di Frank e scrittore anch’egli) a tentare qualcosa di simile con l’opera paterna, quantomeno in ambito letterario. Rivendicando, infatti, il presunto ritrovamento degli appunti del genitore per possibili nuovi romanzi e scorgendo in Kevin J. Anderson (prolifico autore di spin-off e tie-in ispirati a noti franchise come X-Files o lo stesso Star Wars) il profilo perfetto con cui portare avanti il suo progetto, il buon Brian si è dedicato negli ultimi vent’anni a espandere l’universo di Dune con tutta una serie di prequel e sequel che, pur se in maniera minore rispetto all’opera capostipite, hanno in qualche modo intercettato la richiesta dei fan di vedere i loro beniamini ancora in azione.

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Eppure, se non fosse arrivato il film della Warner Bros. - sempre alla ricerca di “brand” da utilizzare per contrastare lo strapotere della Disney – tutto sarebbe rimasto confinato al solo circuito librario. Invece, il buon successo commerciale del nuovo Dune cinematografico di Denis Villeneuve ha generato l’interesse di altri media, in particolare del fumetto. I primi editori a farsi avanti sono stati la Abrams ComicArts e i Boom! Studios, ma entrambi prima di avventurarsi in produzioni originali (come fanno da anni la Dark Horse e la Marvel con Alien, Predator e l’immancabile Star Wars o, in passato, la Dell/Gold Key con le star della TV dell’epoca) hanno preferito sondare il mercato attraverso un semplice adattamento dei romanzi già noti agli appassionati. La Abrams si è assicurata i diritti di sfruttamento del ciclo storico, esordendo con Dune-The Graphic Novel, Book 1 (disponibile in Italia nella collana Oscar Ink della Mondadori), l’agguerrita casa editrice californiana, viceversa, ha deciso di puntare sulle opere di Herbert junior e Anderson. Gli stessi che, oltretutto, ritroviamo come autori dei testi sia del graphic novel che degli albi dei Boom! Studios. Di questi ultimi, in particolare, è da poco iniziata la pubblicazione anche qui da noi grazie alla Panini Comics (che contemporaneamente ha pure dato alle stampe lo splendido artbook del film della Warner), la quale sta raccogliendo la prima maxiserie Dune: Casa degli Atreides in agili volumetti cartonati.

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La trama del fumetto segue fedelmente quella dell’omonimo romanzo da cui è tratta, raccontando le vicende parallele di vari personaggi in un’epoca che si colloca cronologicamente circa trentacinque anni prima degli eventi di Dune, dalle cui pagine, comunque, provengono gran parte dei protagonisti, che qui vediamo nelle loro versioni giovanili. Abbiamo, per esempio, un Vladimir Harkonnen nel fiore degli anni sostituire l’inetto fratello Abulurd alla guida dell’estrazione della spezia sul pianeta Arrakis. Ma anche un Leto Atreides appena quindicenne inviato a completare la sua educazione su Ix, sede delle tecnologie più avanzate della galassia. Assistiamo, quindi, all’annuncio della reverenda madre Anirul delle Bene Gesserit dell’imminente compimento del secolare piano di riproduzione per dare alla luce il Kwisatz Haderach delle profezie, mentre, al contempo, apprendiamo del torbido piano del principe Shaddam per assassinare il padre e prenderne il posto sul trono dell’impero. Infine, facciamo la conoscenza di un giovanissimo Duncan Idaho, schiavo degli Harkonnen e del planetologo Pardot Kynes che - di nuovo su Arrakis – riesce a entrare in contatto con i Fremen.

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Al di là dello scontato – e legittimo - obiettivo commerciale da parte della Panini e, prima ancora, dei Boom! Studios, non nascondiamo di aver nutrito la speranza che la serie potesse offrire qualcosa di più. Bisogna purtroppo dire, invece, che tolti i nomi altisonanti di Arrakis e dei personaggi principali, o la presenza dei giganteschi vermi delle sabbie, l’immaginario di Frank Herbert nel fumetto viene appena sfiorato. I protagonisti delle varie sottotrame sono raffigurati in maniera piatta e banale e i loro comportamenti, benché coerenti con la caratterizzazione originale, sono scontati e privi di qualsiasi motivazione che vada oltre il semplice stereotipo. Anche i dialoghi non brillano per brio e arguzia, senza considerare che la narrazione si concentra solo sugli aspetti più immediati e appariscenti di Dune, ignorando quasi del tutto la chiara metafora socio-politica e il sottotesto filosofico dei primi libri.

Non sono certamente d’aiuto i disegni del giovane artista indiano Dev Pramanik, che offrono pochi spunti di interesse, mancando soprattutto nella visionarietà delle ambientazioni e nella dinamicità dei personaggi, di frequente troppo legnosi e rigidi. Soltanto l’espressività dei volti di tanto in tanto compensa la staticità delle figure, ma non è sufficiente a nascondere l’assenza di uno stile riconoscibile e ben definito o una costruzione delle tavole poco più che scolastica.

Dune: Casa degli Atreides è, in definitiva, una convenzionale ramificazione della storia principale, senza alcuna ambizione autoriale, che appassionerà forse i fan hardcore o qualche lettore senza pretese, ma di sicuro non coloro che considerano l’opera di Herbert molto più che una semplice epopea fantascientifica.

Le avventure di Blake e Mortimer: L'ultimo Espadon, recensione: il ritorno di Jean Van Hamme

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All’uscita de L’ultimo faraone – l’albo fuoriserie di Blake e Mortimer disegnato da François Schuiten, pubblicato nel 2019 – erano emerse in maniera piuttosto netta le nostre perplessità riguardo al velleitario tentativo degli autori di voler mostrare i personaggi in una veste contemporanea, pensando in questo modo di avvicinarli alle nuove generazioni e finendo, invece, per stravolgerli così tanto, da renderli quasi irriconoscibili persino agli occhi dei fan. Un errore che nessuno degli sceneggiatori chiamati a sostituire Edgar P. Jacobs dopo la sua scomparsa aveva commesso fino a quel momento. Ciononostante, bisogna ammettere che dopo il 2010, anno di pubblicazione de La porta di Orfeo, l’ultimo episodio scritto da Jean Van Hamme, anche la serie “tradizionale” aveva iniziato una lenta ma inesorabile discesa qualitativa, soprattutto per demerito di Jean Dufaux, la cui saga in due parti Septimus è stata giudicata da molti un seguito poco ispirato dello storico Il marchio giallo. Il problema principale, però, è che pure Yves Sante – cioè colui che ha firmato i testi della maggior parte degli albi del nuovo corso - ha cominciato a mostrare negli ultimi episodi evidenti segni di affaticamento, dopo che, al contrario, all’inizio era sembrato l’autore ideale per avviare un progressivo rinnovamento dei personaggi.

L’ingresso di nuovi efficaci comprimari (tra cui diverse donne, quasi un tabù per i benpensanti francesi ai tempi delle prime storie di Jacobs), qualche casto accenno agli interessi amorosi presenti e passati dei due protagonisti e l’introduzione di scenari ancora inesplorati, erano, infatti, tutti elementi che, senza mancare di rispetto al suo creatore, avevano contribuito a ridare vigore alla serie. In tutto questo, un ruolo importante lo avevano svolto anche i disegni di André Juillard (partner artistico di Sente in gran parte degli episodi scritti da lui), che proprio nel tratteggiare le figure femminili aveva indicato come poter far evolvere la ligne claire di Blake e Mortimer verso nuove direzioni. Forse l’autore belga ha pagato il suo eccessivo impegno su titoli di forte richiamo (oltre ai personaggi di Jacobs, in questi anni Sente ha portato avanti le vicende di altri due pesi massimi della bande dessinée come Thorgal e XIII), ma resta il fatto che a risentirne è stata soprattutto la sua creatività, una qualità imprescindibile per una collana che ha fatto del perfetto mix tra archeologia misteriosa, fantascienza e spy-story il suo tratto distintivo.

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Quando eravamo ormai rassegnati a doverci sorbire chissà quanti altri episodi poco più che convenzionali, ecco che la serie ha visto il ritorno ai testi del buon Van Hamme, con la pubblicazione de L’ultimo Espadon, sorta di seguito de Il segreto dell’Espadon, la prima celeberrima avventura di Blake e Mortimer (che Alessandro Editore - in contemporanea all’uscita dell’ultimo albo - ha ristampato in tre volumi, raccolti in un bellissimo cofanetto), che attendevamo con ansia fin dal suo annuncio negli ultimi mesi del 2018. Nel racconto, essendo ormai lontani i tempi in cui i lettori potevano accettare che il cattivo della storia fosse un dittatore da romanzo d’appendice come Basam-Damdu (sebbene proprio l’autore brussellese lo avesse fatto ricomparire ne Lo strano appuntamento, terza avventura post-Jacobs), il nostro Jean, basandosi su fatti realmente accaduti, sostituisce i piani di conquista del fantomatico Impero Giallo con le cospirazioni di nazisti scampati alla cattura e combattenti dell’IRA, pronti a unirsi per compiere un clamoroso attentato avente come obiettivo Buckingham Palace e la famiglia reale britannica. Per riuscire nella folle impresa, i complottisti pianificano di impossessarsi di uno degli Espadon (i formidabili aerei anfibi ideati da Philip Mortimer) custoditi a Makran in Pakistan, approfittando del loro spostamento nella base inglese di Scaw-Fell, deciso dal Supreme Headquarters e dal MI5, ora guidato da Francis Blake.

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Van Hamme, a dispetto della sua non più tenera età (ha da poco spento ottantatré candeline), con L’ultimo Espadon è parso uno scrittore ancora molto ispirato e capace di imbastire una trama non solo ricca di ritmo e colpi di scena, ma anche caratterizzata da diverse scelte narrative piuttosto ardite, tanto da far sembrare le innovazioni di Sente, descritte in precedenza, semplicemente dei timidi tentativi di modernizzazione, appena sufficienti a scalfire i tratti essenziali dell’opera. Ne sono un esempio tutti quei passaggi in cui emerge l’ironia ricca di maliziosi doppi sensi e sarcastiche prese in giro del pensiero perbenista, facilmente rintracciabile in altre sue creazioni, ma praticamente mai vista in precedenza sulla serie. Oppure la messa in scena insolitamente fredda e cruenta degli eventi più drammatici, che fa il paio con l’assenza di filtri nel portare alla luce gli aspetti sgradevoli e cinici dei servizi segreti. Cionondimeno, l’autore belga si guarda bene dall’uscire fuori dai canoni del racconto di avventura di stampo jacobsiano, utilizzando queste novità solo come naturali alleggerimenti della tensione nei momenti più concitati o come necessari adeguamenti al marcato realismo che caratterizza la fiction contemporanea.

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Per quanto riguarda i disegni, invece, il lavoro di Teun Berserik e Peter van Dongen (al ritorno su Blake e Mortimer dopo La valle degli immortali) non mostra un’originalità tale da meritare un’analisi più accurata. I due artisti olandesi si limitano a imitare nel miglior modo possibile la ligne claire di Jacobs, riuscendo perfettamente nel loro intento senza, tuttavia, far intravedere un minimo accenno di personalità nel tratto. Probabilmente sarebbero piaciuti a Hergé (il creatore di Tintin e noto “integralista” dello stile grafico di cui è stato l'esponente più illustre), ma non agli esigenti lettori di oggi.

Ora non resta che augurarsi che Van Hamme non si fermi qui, anche perché non sembra proprio essergli passata la voglia di scrivere (recentemente abbiamo visto la sua firma sul primo volume di una trilogia dedicata agli antenati di Largo Winch), sebbene appaia evidente che le probabilità che questo accada diminuiscono di anno in anno. Oltretutto i prossimi due albi della serie sono già in lavorazione: uno vedrà di nuovo all’opera la coppia Sente-Juillard, mentre il secondo si avvarrà dei testi del duo francese Jean-Luc Fromental/José-Louis Bocquet, per i disegni di Antoine Aubin.
Mai disperare, comunque. Come detto all'inizio, già nel 2010 il maestro belga pareva aver abbandonato i personaggi. Poi, però, abbiamo visto come è andata a finire.

Eterni: Solo la morte è eterna, recensione: Kieron Gillen ed Esad Ribić ridanno vita agli immortali di Jack Kirby

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Nei suoi sessant’anni di storia (più di ottanta, in realtà, se consideriamo anche la Timely e l’Atlas) la Marvel ha dato vita a tantissimi personaggi, pochi dei quali, tuttavia, hanno goduto di una popolarità immediata. Ci sono voluti la Disney e l’abilità di un produttore lungimirante come Kevin Feige per portare all’attenzione del grande pubblico un patrimonio che pareva essere destinato a rimanere confinato nella piccola schiera degli appassionati di fumetti. Oltretutto, il successo del Marvel Cinematic Universe ha portato con sé la possibilità di valorizzare alcuni character che la stessa Casa delle Idee ha sempre considerato marginali o poco appetibili per i propri lettori. Di questo gruppo estremamente eterogeneo fanno parte pure i semidei noti come Eterni, ideati da Jack Kirby a metà degli anni Settanta, al suo rientro alla Marvel, dopo un breve periodo trascorso alla DC, a seguito dei suoi continui dissidi con Stan Lee.

Gli abitanti della città segreta di Olympia rappresentavano per il Re la possibilità di continuare sotto altre vesti i concetti elaborati per il Quarto Mondo, una saga rivoluzionaria in cui, grazie all’autonomia quasi illimitata concessagli dalla casa editrice di Superman e Batman, l’autore di origine ebraica era riuscito a dare libero sfogo alla sua grande passione per mitologia e fantascienza, che solo a tratti aveva trovato spazio sulle collane della Marvel. Malgrado ciò, benché simili nei loro contenuti di base, il Quarto Mondo e gli Eterni hanno avuto una “carriera” fumettistica molto diversa, tanto che, pur non riscuotendo nell’immediato il successo sperato, Darkseid e i Nuovi Dei si sono successivamente imposti come autentici protagonisti dell’Universo DC, mentre Ikaris e compagni, al contrario, non sono mai entrati nel cuore dei fan. Non è un caso, pertanto, che i brevi momenti di popolarità vissuti da questi ultimi siano rimasti essenzialmente legati alla fama degli autori chiamati a raccontarne le gesta dopo il periodo kirbyano (su tutti, la coppia Neil Gaiman e John Romita Jr., che in una miniserie del 2006 hanno adeguato i personaggi al gusto contemporaneo, attraverso un’efficace operazione di restyling), senza dimenticare che nella loro apparizione più recente, sulle pagine degli Avengers di Jason Aaron, gli Eterni sembravano addirittura essersi uccisi tra loro e destinati a un lungo oblio editoriale.

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Nei comics americani, tuttavia, sappiamo che è bene non dare mai nulla per scontato, soprattutto quando arriva il cinema a metterci lo zampino. E così, per non essere da meno della casa madre californiana, che ha garantito ai Marvel Studios tutti i mezzi necessari per rendere il film dedicato ai semidei di Kirby uno dei più importanti della Fase 4 del MCU, anche negli uffici newyorkesi della casa editrice si è pensato di rilanciare i personaggi in maniera importante, affidandoli a un team di autori di alto profilo come Kieron Gillen ed Esad Ribić.

La nuova serie inizia esattamente da dove avevamo lasciato il gruppo nella saga di Aaron e già nelle prime pagine vediamo Ikaris tornare in vita nelle vasche di rigenerazione dell’Esclusione, apprendendo dalla Macchina che lo stesso è accaduto al resto del suo popolo. Su ordine di Zuras, anche Sprite viene ripristinato, ma con fattezze diverse - tra cui un inaspettato cambio di sesso da maschio a femmina) e ricordi di molto precedenti agli eventi che ne avevano determinato la condizione di escluso (proprio quelli raccontati nella miniserie di Gaiman e Romita Jr. -. Dopo un breve intermezzo nelle strade di New York e la lotta contro un deviante, i due fanno ritorno a Olympia dove vengono informati che, nel frattempo, il loro leader è stato ucciso. L’assassino non tarda a mostrare il suo volto: si tratta del redivivo Thanos (apparentemente morto nei primi numeri dei Guardiani della Galassia di Donny Cates), la cui inattesa capacità di spostarsi attraverso la rete di trasferimento della Macchina, genera immediatamente una ridda di sospetti e accuse. Solo un complice tra gli Eterni, infatti, avrebbe potuto garantire al titano un’abilità a lui sempre preclusa.

Già da questo accenno di trama si intuisce come Gillen scelga di accantonare la solennità tecno-mitologica kirbyana - per quanto ancora parzialmente visibile nelle tavole di Ribić -, per immergere la progenie immortale dei Celestiali in una sorta di mistery fantascientifico, utile per chiamare a raccolta un po’ tutti i protagonisti delle saghe precedenti - con un’evidente predilezione per quelli coinvolti nella pellicola di Chloé Zhao - e per cercare, al contempo, di mettere in risalto la personalità e le motivazioni di ognuno di essi, in modo da facilitare la lettura a chi – magari incuriosito dalla visione del film - si sia appena avvicinato al popolo di Olympia. Nel fare questo, tuttavia, forse nel timore di apportare qualche modifica di troppo ai personaggi, l’autore inglese decide stranamente di rinunciare alla sua tipica scrittura spigliata e vivace, preferendo esprimersi attraverso testi eccessivamente sobri e rigidi, che pur se formalmente impeccabili, non riescono a suscitare vere emozioni nel lettore, neppure nei passaggi in cui viene dato spazio a una sotto-trama più “terrena”, nella quale Ikaris si erge a paladino di un giovane essere umano, destinato, in un possibile futuro, a morire per causa sua. Per di più, il mistero che si cela dietro l’identità del traditore è poco accattivante ed è portato avanti in modo lento e macchinoso, privilegiando oltremisura gli aspetti secondari della vicenda, compresi alcuni flash-back, che, benché necessari alla caratterizzazione dei vari personaggi, finiscono per appesantire ulteriormente una narrazione troppo "austera" per risultare davvero appassionante (persino negli scontri con Thanos). Un po’ lo stesso problema che, a tratti, ha afflitto la sua opera creator owned The Wicked + The Divine - pubblicata in Italia da Bao Publishing -, in cui, pur con un approccio più originale e moderno, Gillen si era già confrontato con il tema della divinità.

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A fare le spese di questa discutibile svolta stilistica sono anche alcuni dei protagonisti che, spesso, tendono ad apparire monolitici e freddi, oltreché bloccati in un’immagine stereotipata, che, sebbene lontana dalla staticità kirbyana, riporta i personaggi a una caratterizzazione meno sofisticata rispetto a quella che ne aveva dato Gaiman. Ciò nonostante, la miniserie del 2006 rimane palesemente una delle fonti di ispirazione dello scrittore britannico, soprattutto quando nel finale il buon Kieron decide di incrinare definitivamente l’aura eroica degli Eterni, concludendo in maniera radicale l’opera di revisione iniziata quindici anni prima dal suo illustre connazionale. La stessa soluzione narrativa viene contemporaneamente utilizzata per far risuonare nel fumetto l’eco del recente lungometraggio cinematografico, grazie al parallelismo che si crea tra quello che succede nella seconda parte del film e la “ribellione” dei protagonisti nell’ultimo capitolo del fumetto, una volta appreso il terribile prezzo che l’umanità è costretta a pagare per garantire loro l’immortalità. È questo, certamente, il merito principale di Gillen che, tuttavia, si scontra non solo con il tono algido della sua sceneggiatura, ma soprattutto con la rappresentazione francamente ridicola che viene data dei Devianti e con l’ironia un po’ sbracata che di frequente contraddistingue le esternazioni della Macchina, la quale, utilizzata come voce fuori campo, avrebbe dovuto essere (assieme a varie infografiche, che richiamano apertamente quelle realizzate da Jonathan Hickman per la maggior parte delle sue opere) semplicemente un mezzo per chiarire alcuni passaggi della trama, altrimenti poco comprensibili anche a molti appassionati. Due scelte opinabili e in forte dissonanza con la narrazione principale, forse spiegabili con la difficoltà dell’autore a rinunciare del tutto ai dialoghi briosi e un po’ beffardi dei suoi lavori precedenti.

A ogni modo, è molto probabile che Gillen, di fronte alla necessità di raggiungere un equilibrio tra le versioni storiche dei personaggi e le loro controparti cinematografiche, non abbia ancora deciso quale strada percorrere, pur mostrando di sapersela cavare con astuzia quando si è presentato il problema di giustificare il cambio di sesso di alcuni di essi, per allinearli alla raffigurazione inclusiva imposta da Hollywood (oltre a Sprite, prossimamente compariranno anche le versioni femminili di Ajak e Makkari, assenti in questa prima minisaga). Gli story-arc successivi ci diranno se lo scrittore inglese sarà in grado di trovare un compromesso accettabile, ma sta di fatto che, per il momento, il vero motivo di richiamo della serie è rappresentato dal comparto grafico, dove Ribić si conferma quasi una scelta inevitabile, ogni volta che il soggetto ha a che fare con temi a carattere fantasy o fantascientifico. È lo stesso Gillen ad affermarlo nella breve intervista riportata nei corposi extra della versione absolute del volume e l'artista di Zagabria effettivamente non tradisce le aspettative, soprattutto quando il potere immaginifico dei suoi disegni viene esaltato da mirabolanti scenari abitati da figure femminili bellissime e seducenti, campioni possenti, opachi manipolatori, ma anche da un Thanos colossale, opprimente e inesorabile. Passaggi frequenti all'interno della storia, che garantiscono quel pathos pressoché irrintracciabile nella sceneggiatura.

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Gli sfondi tracciati da Ribić abbracciano poco la maestosità e il gigantismo kirbyano, a favore di forme più morbide, geometrie più lineari e atmosfere più eteree - che guardano maggiormente alle opere di François Schuiten o al Moebius de L’Incal -, anche se le architetture imponenti e gli enormi macchinari presenti nelle pagine del libro mantengono quasi intatta la potenza evocativa del Re. L’unico appunto da fare all’autore croato riguarda il suo continuo andare alla ricerca di un miglioramento estetico puramente formale, che negli anni ha fatto perdere alle sue tavole un po’ di dinamicità e lo ha forzato a raffigurare qualche personaggio con espressioni innaturali o in pose eccessivamente statuarie. Un’evoluzione dello stile più che comprensibile in un pittore - lo stesso Ribić, d’altra parte, cita spesso tra i suoi punti di riferimento i maestri del Rinascimento italiano -, ma molto meno in un "narratore per immagini", che trova, tuttavia, una conferma nelle splendide copertine dei vari numeri della serie, decisamente più vicine a un’illustrazione tout court che a un’anteprima della storia all’interno dell’albo.

È nei colori, infine, che si notano le maggiori differenze rispetto al ciclo kirbyano, dato che Matthew Wilson – probabilmente d’accordo con il disegnatore croato – abbandona gli effetti psichedelici e le gradazioni intense del Re, per virare su tonalità pastello che, tuttavia, non sempre si dimostrano azzeccate. A volte, sono più fredde del dovuto e poco luminose, anche quando a dominare dovrebbe essere il blu elettrico. Inoltre, l’esteso utilizzo di sfumature violacee ci è sembrato troppo invadente e poco coerente con quanto richiesto dalla trama.

Come già annunciato nell’ultima vignetta del capitolo finale e a vedere le preview americane, Gillen, nelle storie a venire, pare voler insistere su un personaggio di peso come Thanos, esplorandone nuovamente le origini e approfondendone il legame con i suoi “cugini” terrestri. L’intenzione sembra essere quella di incastonare definitivamente gli Eterni all’interno della continuity marvelliana, coinvolgendo alcuni di essi anche in mirate operazioni di ret-con. Se l’autore inglese saprà bilanciare meglio l’ironia con i toni dark  - praticamente scontati quando c’è di mezzo il nichilista abitante di Titano -, allora la nuova collana dedicata ai semidei di Kirby potrà davvero ambire a essere un’opera da ricordare.

Chiudiamo con i dati relativi al volume Panini Comics, che raccoglie per intero la saga Solo la morte è eterna. Di esso - come accennato in precedenza - ne sono state realizzate due versioni, entrambe cartonate: una più semplice e con le dimensioni standard di un comic book, l’altra più elegante e in formato gigante. Quest’ultima oltre ai numeri da 1 a 6 delle serie Eternals, include anche lo speciale Never Die, Never Win, una sorta di dietro le quinte dove, tra le altre cose, ci viene offerto un sostanzioso assaggio (di fatto, quasi tutto il numero uno) delle matite originali di Ribić, prima dell’intervento del colorista.

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