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Black Hammer 2, recensione: Il tempo perduto e ritrovato di Jeff Lemire

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“Quando mi guardo indietro ora
Quell’estate sembrava durare per sempre
E se avessi potuto scegliere
Si, avrei sempre voluto essere là
Quelli erano i giorni più belli della mia vita”

(Bryan Adams, Summer of ’69)

Vi capita mai, in questi tempi così incerti, di provare malinconia per il passato? Un passato che appare dorato e privo di imperfezioni, soprattutto se confrontato con un presente ritenuto largamente insoddisfacente, in confronto ai sogni e alle speranze di gioventù? Non fatevi illusioni: se siete persone dotate di questa sensibilità, siete fuori dal tempo come le audiocassette TDK. Nostalgicamente e orgogliosamente analogici in un mondo digitalizzato. Però potete consolarvi pensando ad una cosa: Jeff Lemire è sicuramente uno di voi. Abbiamo aperto questa recensione con la canzone di un compatriota di Lemire, il canadese Bryan Adams, che ci sembrava tematicamente ed emotivamente affine alla produzione dell’autore di Sweet Tooth e Descender. Lo stesso lirismo malinconico che permea opere come Essex County e Niente da perdere. Ma Jeff Lemire è uno di noi anche e soprattutto per un altro motivo: ama profondamente i supereroi. Una passione che lo ha portato a collaborare con le Big Two del settore, Marvel e DC, ma anche con la piccola Valiant, per la quale ha scritto una notevole sequenza di storie di Bloodshot. Finché la predilezione per gli eroi in costume lo ha portato a creare la propria serie a sfondo supereroistico, Black Hammer, di cui Bao Publishing ha da poco pubblicato il secondo volume.

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Ritroviamo il vecchio Abe e la sua strana “famiglia” esattamente dove li avevamo lasciati, alle prese con  la vita di tutti i giorni a Rockwood, il paesino di provincia dove si sono materializzati dieci anni prima, dopo aver sconfitto il malvagio Anti-Dio e aver salvato Spiral City. Si, perché in realtà Abe è Abraham Slam, flagello dei criminali e primo eroe della città, e la sua famiglia è costituita dagli altri eroi scomparsi sotto mentite spoglie: Golden Gail, nelle cui sembianze di adolescente dotata di superforza e volo è bloccata in realtà una donna ormai matura; il marziano Barbalien, l’esploratore Colonnello Weird e il suo robot, Talky Walky, la misteriosa maga Madame Dragonfly. Manca all’appello solo Black Hammer, il più grande campione della città, la cui scomparsa è avvolta nel mistero. Gli eroi avevano scoperto ben presto di non poter fuggire dalla contea, avvolta da una cupola di energia impossibile da superare. Per non sconvolgere la vita tranquilla di Rockwood con la loro presenza, non avevano avuto altra scelta che appendere al chiodo i loro costumi e mescolarsi agli abitanti della cittadina. Così dieci anni erano trascorsi in un battito di ciglia, anni in cui Abe, stanco della vita da supereroe, si era adattato benissimo alla sua nuova esistenza trovando anche l’amore. Agli altri, però, non era andata così bene a partire da Gail, frustrata per il fatto di dover recitare la parte di una ragazzina pur avendo le necessità di una donna matura. Il volume precedente si era chiuso con l’arrivo inaspettato di Lucy, la figlia di Black Hammer, alla fattoria che ospita la “famiglia disfunzionale”. La ragazza era riuscita a seguire la traccia energetica lasciata a Spiral City dopo la scomparsa degli eroi, riuscendo ad arrivare a Rockwood in cerca del padre. Al vecchio Abe non resta che raccontare alla ragazza la verità: Black Hammer era morto subito dopo che il gruppo si era materializzato davanti la fattoria che sarebbe diventata la loro casa, lanciandosi in volo e infrangendosi contro la misteriosa cupola di energia. Una tragedia che aveva ricondotto a più miti consigli il resto del gruppo, subito rassegnatosi circa le possibilità di poter tornare a casa. Ma Lucy non demorde e, da giornalista d’inchiesta quale è, decide di indagare sulla strana natura del luogo che li ospita. Nel frattempo, la vita rurale e provinciale di Abe e degli altri membri della “famiglia” prosegue, tra la frustrazione per l’impossibilità di adattarsi ad un posto che si odia, come nel caso di Gail, e il ricordo della vita che fu, mostrata da una serie di flashbacks che spezzano la narrazione principale.

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Black Hammer è stata subito inserita fin dal suo apparire nel filone del fumetto “decostruzionista”, e non a torto: Lemire ci mostra tutta la disillusione e il disincanto di eroi che dovrebbero incarnare il “sogno” per eccellenza, ponendosi sulla scia di classici del genere come Miracleman e Watchmen di Alan Moore. Campioni dell’umanità che dovrebbero guadagnarsi la fiducia della gente, quando neanche loro credono più in se stessi. Allo stesso modo, la serie si può inserire a ragione anche nel filone metatestuale, in cui il fumetto ragiona su se stesso, accanto ad opere come il Supreme dello stesso Moore e buona parte della produzione di Grant Morrison. Eppure, per quanto sia divertente spulciare le pagine di Black Hammer per trovare e catalogare tutte gli innumerevoli omaggi, citazioni e riferimenti a decenni di fumetto supereroistico inseriti da Lemire, non ci sembra questa un’operazione capace di cogliere pienamente il senso profondo dell’opera. Cosa ci raccontano le somiglianze tra Abraham Slam e Capitan America, con una spruzzata del Wildcat della Justice Society of America? O l’origine di Black Hammer, che affonda nella sintesi tra due diverse mitologie create dal “Re” Kirby, quella asgardiana del Thor della Marvel e la Saga del Quarto Mondo realizzata per la DC, con la sua corte di Nuovi Dei perennemente in lotta contro il tiranno Darkseid, modello di riferimento, insieme a Galactus, per il terribile Anti-Dio? Cosa ci suggerisce l’ombra di Shazam, il Capitan Marvel originale, nascosta dietro alla tormentata figura di Golden Gail? Il marziano Barbalien, simulacro più malinconico del Martian Manhunter della DC, o il Colonnello Weird, parente stretto di Adam Strange? Per non parlare della tradizione dei fumetti horror della EC Comics che si nasconde dietro le lugubri sembianze di Madame Dragonfly. Tutto questo ci dice che Jeff Lemire ha riavvolto il nastro della sua memoria di lettore, avviluppandoci tutti in un limbo fatto di ricordi di ore di letture giovanili. Possiamo avere sembianze da adulti, ormai, e condurre vite più o meno soddisfacenti, ma dentro siamo ancora i ragazzi che correvano a casa con un numero degli X-Men per divorarlo, avvitati nel nostro vacuum personale di ricordi che non ci lasciano mai, mentre la vita scorre. Un limbo come quello che imprigiona Abe e i suoi compagni, più o meno rassegnati ad una vita dove le giornate scorrono tutte uguali, mentre dentro vengono consumati dall’eco della gloria che fu. È questo il miracolo che Jeff Lemire compie con Black Hammer: scardinare lo scrigno dei ricordi per riconsegnarne il contenuto ai lettori, offrire la sua personale “Madeleine”, come un novello Proust, per restituire alla luce il tempo perduto ed ora ritrovato delle nostre antiche letture in tutta la sua struggente e malinconica bellezza.

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Nonostante i livelli di lettura che le sue opere sono capaci di offrire, Lemire resta un autore fieramente popolare, tanto da potersi permettere un gustoso omaggio a Dan Jurgens e alla sua iconica copertina realizzata per La Morte di Superman, nonché al sempre deriso e sbeffeggiato Rob Liefeld, col quale condivide un amore sincero e fanciullesco verso il fumetto di supereroi, per quanto declinato in maniera più dozzinale dall’autore di Youngblood.

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La riuscita di Black Hammer non potrebbe dirsi completa senza l’apporto di Dean Ormston, che firma le matite anche in questo secondo volume. Autore di scuola “Vertigo” che non aveva mai lavorato prima ad una serie supereroistica pura, Ormston dona alle sue tavole una sensibilità tipicamente indie con uno stile volutamente dimesso, riuscendo a catturare alla perfezione i sentimenti di malinconia e rimpianto che permeano l’opera. Un vero commento per immagini alla sceneggiatura ispirata di Lemire, intervallato solo dalla presenza come guest-star di David Rubín nell’episodio dedicato al Colonnello Weird. Il tratto cartoonistico di Rubín spezza con efficacia l’unità stilistica dell’opera, in una sequenza ambientata nel passato che vuole celebrare l’ingenuità della science-fiction della Silver Age. Da non dimenticare l’apporto prezioso della palette cromatica di Dave Stewart, che oscilla tra i colori spenti del presente rurale e i toni accesi e vivaci di un passato glorioso e sfolgorante.

Bao Publishing prosegue con successo il suo rapporto privilegiato con Jeff Lemire, di cui ha portato in Italia alcuni dei lavori più significativi, proponendo Black Hammer in una serie di pregevoli volumi cartonati che non possono mancare nella libreria di ogni appassionato.

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Niente da perdere di Jeff Lemire, recensione: Il riscatto di una vita

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Ci sono luoghi che ti rimangono appiccicati addosso e, anche se cerchi di liberartene scappando, non ti lasciano più. Luoghi che, se hai la sfortuna di nascerci, li porti impressi nell'anima e segnano il tuo destino. Luoghi come Pimitamon, sperduta cittadina della provincia canadese, dove la neve ha sepolto strade, vite e speranze. Dopo un’infanzia difficile, Derek era riuscito ad andarsene, diventando un giocatore professionista di hockey sul ghiaccio e una star del campionato. Ma nonostante l’affermazione in campo sportivo, il ragazzo è rimasto l’attaccabrighe che risolve tutto con la violenza: così, durante una partita, risponde alla provocazione di un avversario ferendolo gravemente, azione che porterà a una pesante squalifica e alla fine prematura della sua carriera. A Derek non resta che fare ritorno nella sua città natale, anche se ha ben poco da offrirgli.

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Trovato un lavoro da cuoco nella locale tavola calda, Derek si stabilisce abusivamente nello stadio abbandonato di hockey di Pimitamon. Le sue giornate si susseguono una uguale all'altra, tra risse e rimpianti. L’unico amico del giovane è Ray, sceriffo del paese compagno degli anni di gioventù, che cerca di tenerlo al riparo dai guai anche mettendolo dietro le sbarre se serve. Un bel giorno, un giorno come tanti, un evento mette a soqquadro la vita monotona di Derek: il ritorno in città di Beth, sua sorella, che non vede da molto tempo. Anche la ragazza aveva lasciato Pimitamon anni prima, trasferendosi a Toronto. Ma le cose nella grande città non erano andate bene, e la donna si era ritrovata senza un tetto sulla testa, sprofondando oltretutto nell'abisso della tossicodipendenza. Derek scoprirà ben presto il motivo del ritorno di Beth a Pimitamon: la donna è fuggita da una relazione tossica con un uomo violento di nome Wade, che è sulle sue tracce. Come se non bastasse, è anche incinta. Prendersi cura della sorella ritrovata diventa la ragione di vita di Derek, che non esiterà a rischiare tutto pur di proteggerla.

Niente da perdere è il nuovo lavoro di Jeff Lemire, il ritorno dell’autore canadese alle atmosfere intimiste che avevano caratterizzato le opere degli esordi come il premiatissimo Essex County. C’è un malinconico filo rosso che attraversa tutta la produzione di Lemire, una poetica comune tanto a lavori di spiccata tendenza neorealista come questo Roughneck (titolo originale e appellativo di “attaccabrighe” conferito a Derek) quanto ad opere di genere come Descender o Black Hammer. Temi come l’importanza della memoria e del ricordo, strumenti necessari per decifrare la complessità del presente. Scandagliare il passato per trovarvi le ragioni d’essere del proprio stato attuale, condizione che accomuna tutti i personaggi dello scrittore, tanto nei lavori personali quanto nelle opere su commissione (si pensi a questo proposito alla sua straordinaria gestione del Bloodshot della Valiant).
Ritroviamo qui anche altre tematiche tipiche dell’autore canadese, come il rimpianto per un’età dell’oro perduta (che sia reale o percepita come tale) colma di occasioni mai colte, e il peso del vissuto famigliare sul destino di ciascun individuo. Quello di Derek e di sua sorella, in particolare, era già segnato dall'infanzia, crescendo all'ombra di un padre violento e frustrato dalla sua condizione sociale disagiata.

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A livello stilistico, è da segnalare una netta maturazione del Lemire disegnatore. Se in opere come Essex County, Sweet Tooth e Il Saldatore Subacqueo il suo tratto era estremamente stilizzato, Niente da perdere segna una crescita evidente dell’artista. Il tratto è quello espressivo degli esordi ma nel frattempo si è fatto più minuzioso e meno incerto. Efficace è il ricorso all'acquarello e a una colorazione monocorde blu ceruleo che ben trasmette, oltre alla sensazione del gelo della provincia canadese, anche la profonda malinconia di cui è permeata l’opera. Il colore bagna le pagine del volume solo in occasione dei pochi flashback rievocati da Derek e Beth, quasi a voler sottolineare che la memoria è più viva di un presente deludente ed incerto.

La narrazione è scandita da una sapiente alternanza di splash-page e vignette orizzontali, che donano alle tavole una dimensione quasi cinematografica. A dimostrazione della sua crescita come narratore per immagini, Lemire ci regala anche alcune chicche come la sequenza in cui gli alberi che circondano Derek durante una passeggiata nel bosco innevato si sovrappongono alle sbarre di quando il ragazzo era in galera: una trovata graficamente superba per rendere la condizione di sofferenza mentale di cui è affetto il protagonista. Niente da perdere non sfugge a certi cliché tipici dei racconti dei losers d’oltreoceano ben rappresentati, ad esempio, dai giovani e sfortunati innamorati cantati da Bruce Springsteen in The River o dall'indimenticabile Wrestler di Darren Aronofsky interpretato da Mickey Rourke: ma ben pochi autori hanno saputo mettere in scena con la stessa sensibilità di Jeff Lemire l’umana aspirazione a trovare il proprio posto nel mondo.

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Nota di merito per l’edizione italiana curata da Bao Publishing, che è ormai l’editore di riferimento nel nostro Paese per l’opera dell’artista canadese, un volume cartonato di pregevole fattura che presenta al meglio l’ultimo lavoro di uno dei migliori autori del momento.

 

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DC Comics lancia Inferior Five di Jeff Lemire e Keith Giffen

  • Pubblicato in News

Lo scrittore e disegnatore Jeff Lemire ha annunciato su Twitter la realizzazione di una nuova serie su Inferior Five per la DC Comics da lui scritta assieme a Keith Giffen, che disegnerà anche la storia. Lo stesso Lemire scriverà e disegnerà inoltre delle brevi backup stories di 5 tavole con protagonista Peacemaker in ogni numero della testata.

Gli Inferior Five sono Merryman, Dumb Bunny, The Blimp, White Feather e Awkwardman, 5 figli della squadra di supereroi Freedom Brigade, introdotti nel 1966 sulle pagine di Showcase #62, che sebbene cerchino di seguire le orme dei genitori, non riescono a dimostrarsi dei validi eroi. Una serie parodistica che finì presto nel dimenticatoio. Peacemaker invece è un personaggio originariamente creato per la Charlton Comics e acquisito dalla DC assieme a Blue Beetle, Captain Atom, the Question e Nightshade, tutti introdotti nel DCU con Crisis on Infinite Earths.

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Il solito evento, la recensione di Inumani VS X-Men 1

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In principio era Infinity. Dal nome stesso della maxi saga scritta da Jonathan Hickman nel 2013, si potevano intuire che, degli eventi narrati, ci sarebbero stati riverberi nel futuro delle pubblicazioni targate Marvel: il rilascio sul nostro pianeta, delle nebbie terrigenee, capaci di risvegliare il gene inumano sopito in alcuni individui. La stessa Civil War 2 partiva proprio dalla saga che vedeva coinvolto l’intero pantheon eroico della casa editrice ed, in particolare, il supergruppo di rinnovato successo degli Inumani.
Il nuovo evento Marvel, dunque, vede coinvolta la famiglia reale di Attilan e la nuova formazione degli X-Men, dopo la recente scomparsa di Ciclope. Scott Summers, ha perso la vita in uno scontro con il leader degli Inumani, Freccia Nera, nel tentativo di distruggere una delle due nubi terrigenee che si è scoperto essere nocive per ogni mutante. I due gruppi, dopo le numerose perdite, hanno deciso per una tregua e, insieme, trovare una soluzione.

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Il numero 1 di Inumani vs X-Men, che raccoglie i primi due americani, inizia proprio nel momento più buio di questa tregua: non c’è soluzione. O le nebbie vengono distrutte permettendo ai mutanti di vivere ancora sulla terra ma interrompendo la mutazione inumana, oppure i “figli dell’atomo” saranno costretti ad abbandonare il loro pianeta. Come si può immaginare, lo scontro è inevitabile.
Charles Soule e Jeff Lemire sono ai testi di quello che sembra essere un maxi dejavù, piuttosto che un maxi evento. Nonostante l’evidente sapienza narrativa dei due sceneggiatori, attraverso una costruzione impeccabile del racconto, la lettura è sempre velata dalla sensazione del già visto. Lo schema è quello assodato delle saghe crossover Marvel: esposizione del problema, apparente quiete, climax narrativo irrisolto a fine primo numero. Il numero seguente è dedicato agli scontri.
Lo sforzo dei due sceneggiatori è evidente, specie nel numero di apertura: nel posizionare i propri eroi nella scacchiera della saga, Hickman e Soule mettono sullo stesso piano della lettura due temporalità diverse che incastrano presente ed immediato futuro come in un thriller dal sapore di spy story. Purtroppo non basta: come per un compito in classe, tutte le richieste di casa Marvel sono state esperite costruendo un racconto tecnicamente perfetto ma ben lontano dalla ricerca dell’emozionalità del lettore. I protagonisti sono mossi dal naturale bisogno basilare della “conservazione della specie” e, per ora, agiscono solo in funzione di una dicotomica affermazione genetica, senza dubbi o ripensamenti, e lo “scontro ideologico” per adesso rimane poco sotto la superficie narrativa.

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Simile appunto lo si potrebbe fare al disegno di Leinil Francis Yu: il fumettista filippino fa il proprio dovere, caricando le figure di eroica possanza fisica attraverso il suo tratto “sporco”, ombroso, e dalla straordinaria forza espressiva. Ma, anche qui, non basta: layout, composizione della tavola, messa in scena, di grande impatto visivo e ineccepibili nella loro resa, ma tutto facilmente identificabile in un “canone” fin troppo assodato e, spesso, abusato.

Nonostante l’ottimo ritmo narrativo e lo straordinario tratto, Inumani vs X-Men inizia la propria corsa nella maniera più “sicura” possibile, offrendo al lettore una formula che funziona e che, comunque, incuriosisce gli aficionados degli scontro di casa Marvel. Ma, se da un lato funziona la volontà di legare non solo i maxi eventi alle storie singole ma anche le diverse saghe tra di loro, il meccanismo narrativo si è fin troppo sclerotizzato e la “rivoluzione” che ogni nuovo evento reclama non è poi così tanto rivoluzionaria.

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