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Sea Dogs - Terrore in alto mare, recensione: Joe Hill, licantropi e orrore per l'indipendenza degli Stati Uniti

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Fra le proposte della Hill House Comics, Sea Dogs si candida ad essere sicuramente fra quelle più singolari. Come noto, Joe Hill - figlio del celebre Stephen King, autore di romanzi e sceneggiatore di acclamate serie come Locke & Key - ha lanciato per la DC Comics/Black Label una propria linea di fumetti, molti dei quali scritti da lui stesso, di cui vi abbiamo parlato in passato qui su Comicus. Chiaro che l'horror sia il principale comune denominatore delle varie proposte, ma sempre applicato con declinazioni differenti. Quello che rende particolare Sea Dogs non è solo la sua ambientazione ma soprattutto la modalità di pubblicazione che, all’apparenza potrebbe farlo apparire quasi come un gioco letterario, un divertissement, ma ci troviamo davanti a tutt'altro. Il fumetto, infatti, è stato serializzato in appendice agli albi della Hill House Comics al ritmo di due tavole (a volte poco più) a episodio. Quest'aspetto conferisce alla storia un ritmo incalzante dal retrogusto retro' che ricorda le avventure delle tavole domenicali pubblicate sui quotidiani tuttavia, a parte questo, la narrazione resta assolutamente contemporanea.

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Le vicende narrate in Sea Dogs si ispirano a fatti storici reali, oltre che poco esplorati (se non negli episodi più salienti), ma soprattutto ben documentati in quanto lo stesso Hill si è fatto una cultura a riguardo, ricercando informazioni e consultandosi con uno storico, e lo stesso volume presenta in appendice un gradito approfondimento sulle vicende affrontate nel racconto.
Siamo nel 1780, nel pieno della Guerra d'Indipendenza Americana, la rivoluzione avvenuta fra il 1776 e il 1783 che vide le tredici colonie britanniche nordamericane contrapposte alla madrepatria - il Regno di Gran Bretagna - terminata con l'indipendenza degli Stati Uniti d'America. La potenza marittima inglese era di gran lunga superiore a quella messa in campo dalla Marina coloniale e l'esito, nonostante il sostegno dell'alleata Francia, non era certo a favore degli indipendentisti. Così, il capo del servizio di spionaggio americano Benjamin Tallmadge, con l'identità di Mr. Bolton, fa arruolare a bordo della HMS Havoc, il più temibile fra i vascelli inglesi coi suoi 74 cannoni, tre lupi mannari, in modo che la tragica sorte che capiterà alla nave, al suo capitano Merlin Wolstencroft e ai suoi uomini, possa incutere terrore in ogni uomo della marina inglese.

Hill mescola, così, abilmente realtà e fiction, storia e horror, mettendo in scena un ricco cast di personaggi ben caratterizzati, celando l'identità di questi temibili mastini di guerra che attaccano di notte l'equipaggio della Havoc, dosando per bene i vari colpi di scena di una trama che va in continuo crescendo. Un mix di elementi, dunque, ben miscelati che rendono appassionante e divertente questa lettura.

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Se del gusto rétro della sceneggiatura, sebbene declinato in chiave moderna, vi abbiamo già parlato, un discorso simile è applicabile anche all'arte di Dan McDaid. Il suo stile è perfetto per il racconto ideato da Hill, in quanto sospeso fra passato e presente, fra classicismo dei grandi maestri del fumetto e sensibilità moderna. Il fumettista scozzese sforna tavole di gran dinamismo capace di inscenare con naturalezza sia le fasi in cui a emergere è l'umanità dei personaggi, sia quelle in cui prende piede il lato oscuro della violenza orrorifica messa in atto dai licantropi. Un’inchiostrazione dinamica e sporca dona carattere al suo segno che, in alternativa, potrebbe risultare troppo classicheggiante.
Per la riuscita delle tavole, va sottolineato il fondamentale apporto ai colori ad opera di John Kalisz delicato e incisivo al tempo stesso, mai fuori registro, capace di esaltare il lavoro di McDaid e le sue tavole con apprezzabili e riuscitissimi passaggi dalle tonalità fredde delle notti marine a quelle calde quando il fuoco e l'orrore entrano in scena.

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Un'opera, Sea Dogs, che potrebbe sfuggire nel mare di proposte Panini Comics e apparire minore nonostante il risonante nome di Joe Hill in copertina, ma che risulta non solo un altro centro per l'autore, ma anche un fumetto estremante interessante dove ogni singolo aspetto funziona a dovere.

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Daphne Byrne: La prescelta, recensione: gli incubi vittoriani firmati Marks e Jones

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Tra tutte le decisioni prese a seguito della ristrutturazione aziendale che ha coinvolto negli ultimi anni la DC Comics, sicuramente quella più controversa e dolorosa per i lettori è stata la chiusura dell’etichetta Vertigo. Diretta per quasi trent’anni da Karen Berger, la Vertigo ha avuto il merito di rinnovare profondamente il fumetto americano, pubblicando i lavori di esponenti della British Invasion come Neil Gaiman, Jamie Delano, Garth Ennis e Peter Milligan e facendo uscire il fumetto di qualità dai confini angusti della dimensione “indie” per proporlo ad un pubblico più ampio. Il testimone dell’indimenticabile linea editoriale è stato raccolto dall’etichetta Black Label, che propone al suo interno tanto nuove iterazioni delle collane storiche Vertigo come Hellblazer quanto proposte di tipo supereroistico dal taglio più autoriale rispetto alle testate regolari del DC Universe. Un mix interessante a cui mancava un ingrediente importante, il fumetto horror, che in DC vanta una tradizione significativa fin dai tempi di classici anni ’70 come House of Secrets e House of Mistery. A colmare la lacuna è arrivata la creazione di una sotto-etichetta della Black Label, la Hill House, coordinata da Joe Hill, figlio del leggendario Stephen King e creatore della serie di successo Locke & Key, ispiratrice dell’omonimo serial Netflix.

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La linea diretta dal figlio d’arte ha già dato alle stampe una serie di prodotti varia ed interessante, che va dallo slasher di Basketful of Heads all’horror gotico di Daphne Byrne, miniserie di sei numeri scritta dalla drammaturga ed autrice televisiva Laura Marks e disegnata da un rinomato illustratore di incubi come Kelley Jones. La Marks ha al suo attivo episodi di serie tv come The Exorcist e Ray Donovan oltre che premiate pieces teatrali, mentre Jones è un’istituzione del fumetto horror, erede del maestro Bernie Wrightson, celebre per le sua versione di personaggi DC classici come Deadman e Batman, di cui ha sottolineato gli aspetti più gotici. Non si poteva scegliere team creativo migliore per raccontare questa vicenda che affonda le sue radici nella tradizione delle novelle horror di epoca vittoriana.

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Ci troviamo nella New York di fine ‘800 e Daphne Byrne è un’adolescente introversa, segnata dal trauma della scomparsa del padre, a cui era molto legata. La ragazza ha un animo solitario e inquieto, ed è bersaglio delle prese in giro delle compagne di classe, da cui è costantemente derisa. Anche la situazione economica della famiglia non è delle migliori: il padre le ha lasciate piene di debiti e la madre non vede altra soluzione che quella di risposarsi. Le due donne vivono un rapporto conflittuale: la Sig.ra Byrne si rivolge ad una medium per tentare di contattare il marito defunto (il misticismo era molto in voga in quel periodo storico) ma Daphne è contraria e, senza successo, cerca di far capire alla madre che si sta facendo raggirare da una ciarlatana. In seguito ad una seduta spiritica a cui partecipa su insistenza della madre, Daphne comincia a sperimentare visioni orrorifiche ed angoscianti, oltre ad accorgersi della presenza di un ragazzo misterioso che sembra seguirla ovunque, e di cui avverte i pensieri nella sua mente. Da questo in momento in poi, la situazione di Daphne si complica ulteriormente, e realtà e sogno si intrecciano. Quello che i suoi occhi vedono esiste realmente? La vecchia medium ha risvegliato qualcosa di oscuro sopito dentro di lei? O si tratta di allucinazioni dovute al difficile periodo che sta attraversando, tra i cambiamenti – anche fisici – dovuti alla crescita e il dolore mai superato per la perdita del padre?

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Daphne Byrne è un raffinato racconto horror di formazione, pregevole sotto il profilo tanto della scrittura quanto del disegno. Laura Marks delinea un’eroina dall’interessante profilo psicologico, e la mette al centro di un metaforico percorso di crescita che la vede sbocciare come donna, tanto intellettualmente quanto fisicamente. Il senso di colpa dovuto ai primi richiami della sessualità che si manifesta sotto forma di incubi sono un classico di una certa letteratura di stampo vittoriano, come Il Giro di vite di Henry James, dove l’orrore è più suggerito che mostrato grazie ad un sapiente uso della suspense. Anche se in questo caso l’orrore mostrato non manca, grazie allo stile dark di Kelley Jones. Il veterano dell’horror a fumetti trova nello script della Marks del pane molto gradito per i suoi denti, che gli consente di sbizzarrirsi in quello che gli riesce meglio: atmosfere gotiche esaltate da campiture di nero e tratteggio, apparizioni sinistre, corpi deformati e mostruosi, location lugubri come cimiteri e vecchie cantine che sono solo una parte del ricco campionario di un maestro del genere soprannaturale ancora al top della forma. Le tavole di Jones sono il valore aggiunto dell’opera, e conferiscono prestigio alla già validissima sceneggiatura della Marks.

Daphne Byrne viene presentato da Panini Comics in un elegante cartonato, corredato da extra interessanti come le interviste agli autori e i bozzetti di Kelley Jones, che rende ancora più piacevole la lettura di un’opera in cui le suggestioni vittoriane di Henry James sembrano incontrare quelle di classici horror moderni come Rosemary’s Baby.

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Hill House Comics, l'analisi delle serie arrivate in Italia

  • Pubblicato in Focus

Introduzione

Quando nel 2019 la DC ha annunciato di voler chiudere la Vertigo, la linea editoriale che più di tutte ha contribuito a rinnovare il fumetto americano negli ultimi trent’anni, molti lettori hanno accolto la notizia con un misto di rabbia e sconforto. Nella realtà, quella che sembrava una resa ai comics più commerciali, era, invece, una semplice ristrutturazione dei propri titoli. Poco tempo prima, infatti, era nato l’imprint Black Label, destinato a un pubblico più adulto, dove hanno trovato dimora le nuove incarnazioni delle serie gestite in precedenza da Karen Berger, assieme a collane di stampo prettamente supereroistico, ma dal taglio più autoriale, e ad altre opere meno appetibili per il grande pubblico. La casa editrice newyorkese in sostanza, contrariamente ai timori iniziali, ha dimostrato di voler continuare a differenziare le proprie proposte, confermando una vitalità quasi sconosciuta all’altra big del fumetto americano. La Marvel, difatti, tranne rare eccezioni, ha sempre puntato tutto sui suoi variopinti eroi in calzamaglia o, di recente, su qualche serie di ispirazione cinematografica, sulla scorta delle varie acquisizioni fatte nel frattempo dalla Disney.

In appena due anni e mezzo di vita, quindi, la Black Label ha dato prova di avere tutte le carte in regola per ambire a essere un marchio riconosciuto del fumetto di qualità, producendo tante opere meritevoli dell’interesse dei lettori. In più, ha accolto sotto il suo ombrello alcune sotto-etichette, che da sole sarebbero in grado di coprire l’intero parco testate di una piccola casa editrice indipendente. Una di queste è la Hill House Comics, creata e diretta da Joe Hill (alias Joseph Hillström King), figlio d’arte del re dell’horror Stephen King, il quale, oltre ad aver seguito le orme paterne (al suo attivo ha già quattro romanzi, tutti a tema fantasy-horror) può anche vantare qualche exploit in ambito fumettistico, tra cui la serie Locke & Key, già trasposta con successo in versione live da Netflix.

Giocando con il suo nome d’arte, il trentanovenne scrittore americano ha deciso di chiamare la nuova linea editoriale come la tenebrosa abitazione protagonista di un celebre romanzo di Shirley Jackson, adattato più volte per il cinema e la televisione, dando subito a intendere che il genere principale delle varie collane sarebbe stato l’horror. Finora sono state date alle stampe cinque miniserie (più una sesta, Sea Dogs, pubblicata in appendice a tutte le altre), delle quali tre sono giunte anche da noi, sotto le insegne della Panini Comics. Ognuna di esse meriterebbe un articolo a parte, piuttosto che una recensione in comune, tuttavia crediamo che un’analisi collettiva possa dare un’idea più precisa di quello che i lettori devono aspettarsi da queste nuove uscite.

Basketful of Heads

Basketful of Heads

Per ora, l’ordine di pubblicazione in Italia ha seguito quello americano e il primo titolo ad arrivare in libreria è stato Basketful of Heads, per i testi dello stesso Hill e per i disegni del nostro Massimiliano Leonardo (in arte Leomacs). La miniserie racconta le disavventure della giovane June Branch, che raggiunto il fidanzato sull’Isola di Brody nel Maine, si trova invischiata in una storia da incubo, in cui tutti sembrano nascondere qualcosa o si rivelano molto diversi da come erano apparsi in un primo momento. In balia di alcuni criminali, si difende con un’antica ascia vichinga, che improvvisamente comincia a manifestare degli inaspettati poteri magici.

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Da questa breve descrizione della trama, si intuisce come Hill abbia deciso di esordire in casa DC con un omaggio agli slasher movie degli anni Ottanta (non a caso la vicenda è ambientata nel 1983), dai quali viene subito ripreso uno degli elementi cardine: una giovane protagonista, che cerca di difendersi da chi vuole farle del male, facendo affidamento solo sulle proprie forze. Similmente a quei film, inoltre, il procedere incalzante degli eventi determina una tensione continua per quasi tutte le pagine dell’opera, sebbene – e in maniera un po’ inattesa - gli eccessi sanguinolenti sfocino spesso nel grottesco o, addirittura, nella parodia. Difficile pensare che questa strana deriva non fosse nelle intenzioni dell’autore, che, forse attento a non escludere un pubblico più giovane, ha disseminato qua e là anche piccoli riferimenti ai popolari teen horror che animano i cinema americani durante i mesi estivi. In essi, non è infrequente il ricorso a un umorismo nero un po’ dissacrante, utile a far tirare il fiato agli spettatori, in attesa del colpo di scena successivo.

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In genere, tuttavia, i continui ribaltamenti della trama che caratterizzano quelle pellicole, alla lunga risultano un po’ forzati. Una sensazione che si prova anche nel fumetto, dove, a essere onesti, è la scrittura di Hill nel suo complesso ad apparire di qualità altalenante: a un inizio accattivante e con personaggi ben definiti, infatti, lo scrittore fa presto seguire situazioni abbastanza scontate. Di questo e, in particolare, della strana commistione di stili sembrano risentirne anche i disegni di Leomacs, che, per quanto offra una prova nel complesso discreta, a volte si mostra indeciso sulla direzione da prendere, non riuscendo a essere mai veramente macabro, ma neppure propenso a rappresentare con ironia le situazioni più paradossali. La lettura è, comunque, piacevole, perché Hill sopperisce con molto mestiere alla prevedibilità del racconto. Siamo, però, piuttosto lontani dalle suggestioni di Locke&Key, dove l’autore americano, anche grazie a un Gabriel Rodríguez particolarmente ispirato, era stato in grado di sfruttare nel migliore dei modi le potenzialità della narrazione per immagini, rendendo l’inverosimile quasi reale e mostrandosi capace di saper amalgamare con abilità i generi più disparati.

Piccola curiosità prima di chiudere: come da tradizione di famiglia, Hill introduce nella trama parecchi riferimenti al Nord-Est degli Stati Uniti, arrivando addirittura a evocare l’immaginaria prigione di Shawshank, teatro di un noto racconto di Stephen King e del suo splendido adattamento cinematografico (il film Le ali della libertà di Frank Darabont).

The Dollhouse Family

The Dollhouse Family

Di tutt’altro spessore sono le due miniserie successive, soprattutto The Dollhouse Family, opera di tre vecchie conoscenze dell’era Vertigo: a occuparsi dei testi, infatti, è Mike Carey (che qui preferisce firmarsi con lo pseudonimo M. R. Carey), mentre i disegni sono della coppia Peter Gross e Vince Locke. Lo scrittore britannico immagina una vicenda che scorre su due piani temporali differenti. In quella principale, che inizia alla fine degli anni Settanta, protagonista è la piccola Alice Dealey, che riceve in eredità un’antica casa delle bambole costruita con estrema dovizia di particolari. Ben presto il bizzarro giocattolo diventa il suo passatempo preferito, soprattutto quando la bambina cerca di estraniarsi dai continui litigi dei genitori. Misteriosamente, però, Alice sembra essere in grado di comunicare con le bambole che si trovano all’interno dell’edificio in miniatura, le quali, dopo un po’, la invitano a unirsi a loro.

In parallelo, facciamo la conoscenza di Joseph Kent, un cartografo dei primi dell’Ottocento, che tornando a casa al termine di una giornata di lavoro, si imbatte in una grotta non segnata sulle mappe. Incautamente, decide di esplorarla, non riuscendo più a ritrovare l’uscita. Dopo tre giorni, ormai stremato, l’uomo precipita in un’ampia cavità sotterranea, dove incontra un essere gigantesco, che giace addormentato, e una donna sconosciuta, la quale, ammaliandolo, lo induce ad avere un rapporto sessuale con lei. È l’inizio di una serie di eventi, che porterà i discendenti di Joseph a incrociare il loro destino con quello di Alice.

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Come detto, Carey è un nome noto ai fan dei fumetti per “mature readers”, avendo portato avanti per molto tempo le avventure di John Constantine ed essendo stato alle redini di celebri serie come Lucifer e Unwritten. Nativo di Liverpool, ha cominciato a lavorare sulle testate DC agli inizi degli anni Duemila e può, quindi, essere considerato uno degli ultimi esponenti della British Invasion. Analogamente ai suoi connazionali sbarcati in terra americana prima di lui, possiede una scrittura elegante e sofisticata e la capacità di concepire trame fantasiose ed elaborate. E benché non abbia disdegnato escursioni, anche alquanto durevoli, su collane più popolari (la sua firma appare, per esempio, su un lungo ciclo degli X-Men) è indubbio che gran parte della sua fama sia legata a opere più raffinate, spesso avvolte da un manto gotico e misticheggiante. Un clima che si respira anche in The Dollhouse Family, dove Carey mette in scena in maniera molto ingegnosa l’ennesimo duello tra bene e male. Tale confronto procede attraverso una successione degli eventi calibrata alla perfezione, che, dopo un inizio più compassato, raggiunge il suo climax nel finale, senza dare mai l’impressione di patire gli stacchi che segnano il continuo avvicendarsi tra presente e passato. L’autore britannico, inoltre, lascia poco spazio all’orrore esplicito (sebbene qualche scena raccapricciante non manchi), preferendo, come di consueto, lavorare sulle suggestioni, sui turbamenti dell’animo umano, e qui, più nello specifico, sul lento palesarsi di una malvagità ancestrale capace di determinare in modo inesorabile la vita delle persone. Ottima la caratterizzazione dei personaggi, così come la qualità dei dialoghi, moderni, ma allo stesso tempo classici, oltreché ricolmi di contaminazioni letterarie, che risulteranno particolarmente gradite a chi si sente ancora orfano della Vertigo o non completamente appagato dai nuovi titoli inclusi nel Sandman Universe (altra sotto-etichetta della Black Label).

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Passando ai disegni, il duo costituito da Peter Gross e Vince Locke non riserva particolari sorprese rispetto a quanto già visto di loro in passato, benché a prevalere sia soprattutto lo stile del secondo, il quale si manifesta attraverso un tratteggio più attento ai dettagli, che contrasta con la tipica linearità di Gross (si pensi, per citare un paio di esempi, agli ultimi numeri di Unwritten o al nuovo capitolo di American Jesus). Ne deriva un’apparente staticità delle figure, che se da un lato aiuta ad avvicinare le tavole ambientate nell’Ottocento alle illustrazioni dei romanzi dell’epoca, dall’altro permette ai passaggi collocati nei giorni nostri, di far risaltare di più i volti (spesso sproporzionati rispetto al resto del corpo) e gli sfondi, trasferendo al lettore l’angoscia dei personaggi e l’ansia che si genera all’avvicinarsi del male.

The Low, Low Woods

The Low Low Woods

Arriviamo, quindi, alla terza e ultima miniserie, The Low, Low Woods, dove l’autrice dei testi è la giovane scrittrice Carmen Maria Machado, qui alla sua prima prova con i fumetti, ma già nota in ambito fantasy-horror per alcuni racconti pubblicati su diverse riviste letterarie.

Protagoniste della vicenda sono due amiche, Eldora e Octavia, che, nelle prime pagine, si risvegliano in una sala cinematografica, rendendosi conto di essersi addormentate entrambe nello stesso momento, prima ancora che il film iniziasse. Quel sonno appare loro immediatamente innaturale, non solo per il fatto di essere le uniche due persone rimaste in sala, ma anche perché il ragazzo che lavora come inserviente nel cinema dà l’impressione di nascondere qualcosa. Ancora stordite, si dirigono verso casa e durante l’attraversamento del bosco si imbattono in un cervo che sembra avere appendici umane. Un incontro inquietante, che, tuttavia, non le sconvolge più di tanto, quasi come se fossero in qualche modo abituate a dover convivere con avvenimenti fuori dall’ordinario.

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Queste poche righe non sono sicuramente sufficienti a dare un’idea precisa della trama, dato che, a differenza delle altre due miniserie, in The Low, Low Woods l’horror assume presto una forte connotazione metaforica. Già il nome dell’immaginaria cittadina della Pennsylvania che fa da sfondo alla vicenda, Shudder-to-Think (che potrebbe tradursi in “Rabbrividire al pensiero”) suggerisce che qualcosa di sinistro condizioni da sempre la vita della gente locale. All’inizio, la fonte di ogni male parrebbe essere la miniera di carbone, attorno alla quale è sorto il piccolo centro abitato, tanto da intravedere negli eventi una sorta di messaggio ecologista. L’avvelenamento dell’aria provocato dal lavoro dei minatori, infatti, va ben oltre il normale: il nero della fuliggine ricopre ogni cosa e oltre a compromettere inevitabilmente la salute dei tanti uomini impegnati a estrarre il carbone, dà l’impressione di avere un’influenza negativa anche sulle donne, gran parte delle quali soffre di una strana forma di amnesia. Poi, però, l’autrice comincia a svelare una realtà persino peggiore: un incidente avvenuto anni prima, che ha causato la scomparsa di molte persone, sembrerebbe essere il risultato di un’imperdonabile colpa di cui si sono macchiati gli uomini della cittadina. È proprio in questi passaggi che l’orrore assume un’evidente valenza simbolica: per esempio, i mostruosi esseri privi di pelle, capaci di emettere solo suoni gutturali, che sbucano fuori dai profondi crepacci intorno al piccolo centro abitato, sono solo la raccapricciante rappresentazione di individui che hanno perso la loro umanità a causa di quello che hanno commesso, ma di cui non paiono pentirsi affatto. In contrapposizione a essi, ecco donne condannate a mutazioni aberranti, ma parzialmente liberatorie o costrette a corrompere il proprio corpo fino alle estreme conseguenze, pur di punire chi quel corpo vorrebbe profanarlo.

La giovane età delle due protagoniste permette alla Machado di raccontare la storia come una sorta di lugubre teen drama, trasformando i sogni e le speranze di Eldora e Octavia nel grimaldello necessario per portare alla luce una verità scomoda, che l’apatia degli abitanti della cittadina mineraria (dove non è difficile intravedere la provincia americana per intero) ha reso tragicamente accettabile. Un messaggio forte, in parte già presente nella sua produzione letteraria, che la scrittrice di origini cubane porta avanti in maniera molto originale, pur raggiungendo, a volte, picchi di surrealismo difficilmente digeribili da chi ama un horror più materiale, ma che saranno, per contro, apprezzati dai tanti lettori che non gradiscono incasellare un’opera entro un determinato genere.

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Occorre, tuttavia, sottolineare che la Machado in alcuni passaggi tradisce la sua poca dimestichezza con i fumetti, appesantendo la narrazione con l’utilizzo frequente di didascalie, molte delle quali racchiudono i pensieri delle protagoniste, quasi come due voci fuori campo intente a illustrare lo svolgersi degli avvenimenti. Un modo di raccontare tipico dei romanzi veri e propri, in cui l’autrice si rifugia quando non riesce a esprimersi attraverso il tradizionale linguaggio della letteratura disegnata. A ogni modo, si tratta di un peccato veniale che non compromette la lettura, al cui fascino contribuisce anche il segno della giovane disegnatrice greca Dani (al secolo Danai Kilaidoni), molto lontano dalle tendenze fumettistiche del momento. Più concentrata a dare risalto all’espressività dei volti, le figure dei suoi personaggi diventano di frequente solo abbozzate o forzatamente deformate che, assieme a sfondi spesso appena accennati aiutano ad accrescere l’atmosfera vagamente onirica, che si respira lungo tutta l’opera.

In conclusione

Basketful of Heads, The Dollhouse Family e The Low, Low Woods rappresentano tre uscite molto diverse in termini di stile e contenuti che suggeriscono come Joe Hill abbia intelligentemente deciso di non dare un indirizzo preciso alla sua linea, in modo da poter attrarre un pubblico ampio ed eterogeneo. Dal punto di vista qualitativo, ci sentiamo di assegnare la palma dell’opera più riuscita a The Dollhouse Family, sebbene anche le altre due si posizionino oltre il livello medio dei comics odierni e, soprattutto, di tante presunte novità, che sembrano invece inseguire (affannosamente) le mode degli ultimi anni. Il nostro giudizio finale, in ogni caso, deve essere inteso come la valutazione media dei tre titoli.

Da segnalare, infine, le bellissime ed evocative copertine dei vari capitoli che compongono le miniserie. Citare tutti gli artisti coinvolti sarebbe troppo lungo, noi, tuttavia, abbiamo particolarmente apprezzato quelle di Reiko Murakami, Clayton Crain, Igor Kordey, Jessica Dalva e Jenny Frison.

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Il nuovo progetto di Stuart Immonen per la DC Comics

  • Pubblicato in News
Stuart Immonen torna a realizzare un progetto a fumetti per un grosso editore dopo che nel 2018, col suo addio ad Amazing Spider-Man, si era allontanato dall'industria delle grandi per dedicarsi a un progetto proprio su Instagram, ovvero la serie Grass of Parnassus insieme alla moglie Kathryn.

Ora, al NYCC è stata presentata la serie Plunge per l'etichetta Hill House Comics. Immonen realizzerà le matite su testi di Joe Hill.

Hill, parlando di Plunge, ha dichiarato: "è la mia occasione per sfidare uno dei più grandi film horror di tutti i tempi, La Cosa di John Carpenter".

Come il capolavoro di Carpenter, Plunge tratta di eventi soprannaturali nel nord ghiacciato. Negli anni '80, una nave da ricerca altamente avanzata scomparve vicino al circolo polare artico, per poi riapparire all'improvviso 40 anni dopo inviando un segnale di soccorso. Quindi un team di ricercatori americani viene inviato per salvare la nave mentre si avvicina una tempesta invernale.

"C'è olio a bordo con proprietà insolite. Al centro di questa isola ad anello, affondata in acque poco profonde, si trovano le rovine di una civiltà preistorica. La cosa più sconvolgente di tutte è quando gli uomini che si trovavano sulla nave emergono dalle grotte dell'isola. I loro occhi sono stati tutti divorati, non sono invecchiati di un giorno e sono in grado di compiere prodezze assurde. C'è qualcosa di terribilmente sbagliato in loro. E poi la tempesta termina."

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(Via Newsarama e Bleeding Cool)

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