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Intervista a Igort

La Coconino Press ha festeggiato da poco il traguardo delle 100 pubblicazioni. Vuole fare un bilancio generale di questa esperienza?

La situazione del fumetto in Italia era molto differente cinque anni fa, prima che Coconino esistesse. E mi piace pensare che abbiamo, nel nostro piccolo, contribuito a fare conoscere il romanzo grafico e il lavoro di autori che pareva non sarebbero mai arrivati.

Qualche titolo che l’ha stupita positivamente, in termini di risposta del pubblico? E qualche altro che, secondo lei, non è stato capito abbastanza?

Non è bello puntare il dito su un autore o su un altro, per dire che il suo lavoro non è stato capito. Io penso al catalogo Coconino nel suo insieme, sono tessere di un mosaico che mi pare armonioso. Quello che volevo registrare è lo stato di salute del fumetto oggi, che mi sembra un periodo particolarmente fertile. Posso dire che c’è stata una risposta molto forte e positiva. In sintesi, i lettori ci sono, basta fare loro arrivare i volumi. Se il lavoro è un buon lavoro le soddisfazioni arrivano. Basta sapere attendere.

In Italia, lo dicono tutti, si legge poco. In particolare, il fumetto è caratterizzato da grosse cifre (in ribasso) per pochi personaggi e cifre piccolissime per le iniziative nuove e di avanguardia. Dal suo punto di vista, di direttore editoriale e di autore, qual è l’attuale situazione italiana?

Di recente a un festival di fumetti a Bastia un autore francese, Yvan Pommeaux, diceva che lui si sente felice di avere qualche migliaio di lettori e che non comprende né condivide la “febbre del best seller”. Io credo di pensarla come lui. Mi piacerebbe che i miei libri e quelli dei miei amici vendessero milioni di copie ma non sono interessato a modificare il mio lavoro in funzione di questo. Se ho otto, diecimila lettori in Francia, penso che questo sia un ottimo traguardo, non si perdono soldi e tutti fanno il loro lavoro. Qual è il problema? La situazione in Italia riguarda due mercati diversi, quello da edicola e quello da libreria. Io lavoro nel secondo e sto bene. Una ventina di anni fa il fumetto che io rappresento era venduto in edicola, in compenso si vendevano meno “romanzi a fumetti”.
Il mercato si muove, è un organismo vivente, penso che nessuno però si sia più interessato a lavorare in maniera industriale il fumetto d’autore.
La cosa è come se nel cinema ci fossero solo i film d’azione americani. Sai che noia. Un poco va bene ma mangiare sempre la stessa cosa fa male alla salute. Il cinema che si esporta per continuare con l’esempio, non è “Vacanze di Natale” (che pure è campione di incassi in patria) ma Moretti, Giordana e via dicendo.

Su cosa si deve puntare per il futuro? E su cosa invece bisogna lavorare ancora?

Io punterei a fare uscire il fumetto dal ghetto nel quale si è rinchiuso. Portare il fumetto nelle librerie di varia, come un tempo, e fare conoscere i lavori interessanti. Sfondare le barriere. Nel nostro caso lo vediamo, ci sono lettori di manga che poi, man mano si avvicinano agli altri titoli Coconino. La curiosità è contagiosa. (Appare anche l’opposto, lettori di fumetto occidentale che scoprono il manga.)

Facciamo un passo indietro. È il 78: in Usa esce la prima Graphic Novel, A Contract with God di Will Eisner. In Italia, a Bologna, Igort, Mattotti e Carpinteri (cui si aggiungeranno Jori, Kramski e Brolli) si incontrano per costruire quella che poi sarà Valvoline, storica rivista di sperimentazione a fumetti e intorno al fumetto. Cos’è cambiato, secondo lei, da quegli anni a oggi?

Tutto. Il fumetto; la realtà culturale stessa forse era più complessa. C’erano dei fenomeni pop che oggi non arriverebbero. L’arrivo delle tv private ha portato a un appiattimento e una semplificazione linguistica. Per contro oggi si sono sviluppati modelli che all’epoca erano rari. Di romanzi a fumetti, per esempio, c’erano “La ballata del mare salato” di Pratt e “il paese chiuso” di Forest e Tardi. Oggi si sono aperte le frontiere asiatiche e il manga sta cambiando nella percezione della lettura e del disegno. Credo che le barriere tra ciò che è underground e ciò che è popolare si siano spostate.

Cosa le è rimasto di quel periodo così importante per il fumetto in Italia e nel mondo?

La convinzione che ci sia una scena italiana capace di dire cose importanti su un piano internazionale. La voglia di difendere i nostri autori e di fare tutto il possibile per farli conoscere.

In cosa consisteva il lavoro di sperimentazione del gruppo Valvoline? C’era da parte vostra l’idea di “fare la rivoluzione”, di operare sul linguaggio seguendo delle direttive comuni, oppure semplicemente c’era il piacere di lavorare insieme in modo libero e “anarchico”?

Ho sempre pensato che chi fa cinema non possa vedere solo cinema chi fa romanzi non possa solo leggere romanzi e via dicendo; la premessa era molto semplice. Fare fumetti per me significava lavorare in maniera onesta. Vale a dire usando tutta la palette di strumenti a disposizione, c’erano quindi suggestioni artistiche, letterarie, cinematografiche e via dicendo; oggi forse sarebbe più facile fare passare certe cose che all’epoca sembravano molto azzardate. Non credo che il nostro metodo possa definirsi anarchico, eravamo estremamente organizzati.

In cosa si distingueva la volontà iconoclasta sua e del gruppo Valvoline da quella di Frigidaire (Pazienza, Tamburini, Mattioli, Scozzari, Liberatore, ecc…)? C’erano delle differenze ideologiche, politiche, o altro?

No, c’era una differenza di approccio. Loro erano molto “on the road”, piaceva un senso realistico e coatto. Forse noi eravamo più radicali nel credere a un apporto culturale del linguaggio.
Cultura voleva dire anche gioco, divertimento, non una cosa paludata e pallosa. Ma per noi i futuristi erano fratelli, i costruttivisti zii e la musica new wave era un punto di riferimento stabile. Forse frigidaire era più rock. Ma io e gli altri abbiamo collaborato molto anche con frigidaire, è parte della nostra storia. Si era amici.

Nell’Italia di quegli anni si respirava un certo fermento politico, che però pochi nel mondo dell’arte seppero raccontare in modo diretto (mi viene in mente il Penthotal di Pazienza). Qual è la sua opinione a riguardo?

Anche Scozzari fece delle ottime storie politiche nel ‘77. Sì, penso che la situazione era molto più calda di oggi, fratture sociali e voglia di ribellione molto più accesa. Oggi siamo imbolsiti, anestetizzati, annoiati quasi. La riflessione politica quasi non compare più nel lavoro. Non in maniera diretta direi perché invece la voglia di fare opere politiche è presente nei discorsi comuni; tra me e Tardi per esempio o tra me e Sampayo.

Ritiene che l’arte (e il fumetto in particolare) debba dedicarsi con maggiore attenzione ai problemi della realtà, dell’attualità, della politica, ecc…?

Non so se il fumetto è arte; nel senso che la domanda mi pare strana. A me una cosa che piace del fumetto è proprio la parte dell’artigianato mediale. La dimensione di controllo totale, del “fatto in casa”. Domestica. Ecco forse mi piacerebbe definirlo come un artigianato domestico volto all’espressione. Si comincia ed è un lavoro sequenziale, mattoncino dopo mattoncino; Comunque credo di sì, credo che sia necessario parlare di cose su livelli diversi. Resta da capire quale è la verità. La verità profonda di un lavoro non ha nulla a che vedere con la cronaca. Un libro è buono se contiene delle riflessioni esistenziali che ci parlano nel profondo. Io perlomeno credo di cercare questo.

E come mai, secondo lei, in Italia questo si fa così poco?

Ha presente dove è il fumetto oggi? Ha presente molte delle critiche che vengono pubblicate sul fumetto? Il livello di lettura è molto basso, oggi voliamo basso. Sarebbe necessario riprendersi, dire le cose con coraggio. C’è troppa approssimazione. E chi cerca di avere una voce spesso usa la critica come una clava, per linciare questo o quello. Così, purtroppo, penso che ci vorranno ancora molti anni per giungere a un livello di maturità sufficiente.

Ho letto in alcune sue interviste che ritiene il fumetto una delle forme (o LA forma) del Romanzo Contemporaneo. Pensa che l’elemento narrativo debba prevalere sull’elemento meramente grafico, illustrativo, che ancora oggi sembra caratterizzare il fumetto in larga parte?

Il fumetto ha un fortissimo impatto visivo. Detto questo credo che una delle novità che il manga sta portando oggi all’attenzione generale è la dimensione privata, quasi dimessa del disegno. Diciamo che il manga sta avvicinando il fumetto europeo alla tradizione popolare del cartoon americano (Dick Tracy, Little Orphan Annie, Popeye). Una considerazione andrebbe comunque fatta. Se trovo un fumetto non estremamente ben disegnato ma ben raccontato lo leggo e mi appassiona. Se trovo un fumetto invece molto ben disegnato ma senza una buona narrazione ho l’impressione di qualcosa di vuoto, che mi delude. Capita così anche a Lei?

Quali sono stati i suoi numi tutelari? Mi riferisco non solo ai maestri in ambito fumettistico, ma anche ad altre personalità che influenzano (o hanno influenzato) più o meno direttamente il suo lavoro.

Quando ero bambino ammiravo moltissimo Eisner, poi Breccia. Ma ho amato moltissime cose anche recentemente, Hernandez bros, Clowes, Seth, Tsuge, Tatsumi, Magnus, Munoz, Crepax, Pratt, Gray, Spiegelman, Tardi. Ogni cosa mi parla per aspetti diversi. Quello che cerco è una narrazione umana e adulta, voglio dire che parli in maniera complessa dell’esistere, che mi intrattenga ma trattandomi da persona non da stupido.

Nei suoi ultimi lavori ha usato molto la bicromia, in cerca di un’essenzialità che arricchisce impoverendo, che lavora sulle atmosfere, sull’evocazione, sul silenzio per suggerire qualcosa più che raffigurarlo. Come è arrivato a questa svolta rispetto alla “ricchezza” del fumetto d’autore da cui proveniva?

Volevo arrivare al cuore. Non è una novità, la musica blues delle origini o certo punk hanno fatto lo stesso. Si riparte da zero. Basta orpelli, basta narcisismi inutili. Sa una cosa? Una trappola è quando con il tempo si diventa abili. Parlo di tecnica. Bisogna sapere rinunciare altrimenti la tecnica ti mangia e tu sei il suo burattino. Non aumenta l’espressione, aumentano i riccioli; terribile. Io ogni anno cerco di spogliarmi. Per questo ammiro Gray e Gould. Due giorni fa parlando con Burns dicevo: “vedi Gould non è certo Picasso” e lui mi ha interrotto: “no, no Gould è Picasso! Perfezione del cartoon.“ Dopotutto a ben pensarci aveva ragione Burns. Se uno mette in piedi una grammatica e riesce a usare quelle parole che conosce per raccontare storie interessanti ha vinto. Da questa prospettiva fare fumetti, esprimersi, è facile.

“Baobab”, la storia su cui sta lavorando attualmente, si svolge tra il Giappone e Parador, lo stato immaginario del Sudamerica da lei inventato nel ’79: ce ne può parlare?

Sono stato a Ottobre a Tokyo, per la quattordicesima volta. Ci ho abitato in quel paese, è come casa mia adesso. Voglio raccontare una storia lunga e articolata. La storia di due uomini le cui esistenze si sfioreranno. La trama, nel suo intreccio base, l’ho creata nel 79, appunto, ma oggi forse dispongo della tecnica necessaria per raccontare le sfumature che ieri solo intuivo.
Ogni personaggio è visto da quando era bambino , storia di iniziazione alla vita dunque. E’ una storia nella quale compare anche un fumettista paradoreno del 1910 che sogna il fumetto americano, lo legge e lo ammira sperando un giorno di farne parte. E’ una riflessione sul fumetto degli albori che era così ricco e ingenuo che ha inventato le regole che ancora oggi utilizziamo. In fondo se guardiamo i fumetti di Windsor Mc Cay, di Feininger o di Outcoult abbiamo una libertà incredibile, di cui oggi forse non siamo più capaci.

Oltre a Baobab ha altri progetti di tipo fumettistico o extrafumettistico?

Sto lavorando a una quantità di cose. Un libro in collaborazione con Massimo Carlotto; una storia che ha scritto per me. Molto bella. Sto procedendo e sono molto contento per il momento; poi cinema, sto scrivendo per alcuni progetti cinematografici. Uno riguarda l’adattamento cinematografico di “5 è il numero perfetto”, il mio romanzo grafico ambientato a Napoli.

Lei ha un rapporto molto intenso, non soltanto di tipo lavorativo, con il Giappone. Dalle descrizioni che ho tratto da alcuni suoi scritti in rete, il Giappone figura come una specie di paese dei sogni, severo e sfuggente. Da cosa nasce questa sua passione per la cultura nipponica?

Non lo so precisamente. E’ qualcosa di ancestrale e intimo. Non so darne una ragione logica; mi ci sento a mio agio, ecco; ci arrivo e sono sereno.

Dalla sua esperienza laggiù, ha riscontrato anche lei quei segnali inquietanti che autori come Tatsumi e Maruo ci hanno raccontato?

E’ una civiltà molto disciplinata e in un certo senso compressa. Immagino che la reazione a questa compressione sia facilmente disadattamento e violenza. D’altronde lo sappiamo : il più grande tasso di suicidi infantili è in Giappone.
E’ un paese pieno di contrasti, molto stilizzato, se così si può dire.

Napoli, New York, il Giappone, il Parador: Igort cerca sempre di intrattenere un rapporto speciale con i luoghi che racconta, che sembrano sfuggire dai loro elementi originali e “naturalistici” per acquisire i tratti rarefatti di un’atmosfera, di un umore o un sentimento. Questa caratteristica è figlia di un’intenzione precisa, oppure è semplicemente il suo modo di vedere le cose?

Mi sento un autore di frontiera. Sono stato il secondo occidentale (il primo era il mio amico fraterno Baru) a lavorare, vivere e misurarmi con il mercato giapponese. Ho cercato di imparare un linguaggio (il manga) diverso dal nostro. Parlo diverse lingue, vivo in Francia e viaggio molto; penso che questo ti apra la testa, finisca per porti delle domande. Non sono mai stato troppo interessato all’aspetto esteriore delle cose. Mi piace comprendere, se posso.

Un altro spazio di Igort è il jazz. In Fats Waller, per i testi di Carlos Sampayo, racconta la storia di un musicista di talento soffocato dallo show business; ma la musica è presente anche in Sinatra e in 5 è il numero perfetto. A me pare che lei ultimamente utilizzi la musica (e il silenzio) non soltanto per scandire il ritmo del racconto ma anche per definirne gli ambienti, il clima, il colore; come se fosse più interessato a dare forma a certe situazioni, a certi spazi mentali, piuttosto che costruire l’intreccio narrativo, sbaglio?

Che bella lettura. Lei mi restituisce fiducia nell’umanità. Parlo spesso di musicalità nel definire un ritmo di narrazione; credo che la sua analisi sia molto acuta.

In 5 è il numero perfetto, tra le strade di Napoli, compare il fumetto di un apocrifo Batman. Ne Il Letargo dei Sentimenti si narra la storia di un Batman sovietico in piena guerra fredda; e, nell’introduzione al volume, lei ammette che il suo sogno segreto è sempre stato quello di diventare un supereroe. Come autore, cosa ha ricavato da questo genere di fumetti?

Sì ma lo scritto introduttivo del Letargo dei Sentimenti era una cosa quasi antica. Adesso sono troppo pigro per sognare di fare il supereroe. (e troppo grasso pure).

E in generale, cosa pensa dei racconti di eroi e superuomini offerti dalla narrativa popolare, in un momento storico come quello che stiamo vivendo?

Abbiamo bisogno di sognare e i primi Batman o Superman hanno quell’aspetto ingenuo e giocoso, apprezzabile. Ma anche un aspetto tetro e oscuro assai pericoloso. Un esempio? Batman, nella sua prima storia butta i nemici nell’acido, dicendo “ una fine giusta per un tipo come lui! ” e tutto questo è decisamente fascista. Fa parte di una visione di giustizia = vendetta da cui bisognerebbe prendere la distanza. Basti vedere come Bush ha gestito questa insulsa guerra e come gli italiani hanno subito interpretato il ruolo di Fido, scodinzolando e inviando i nostri giovani a farsi ammazzare.
Probabilmente il mito del super eroe ha poco a che vedere con una visione della vita complessa e articolata. A me piacerebbe raccontare storie di persone, non di personaggi. Non mi interessano troppo i “fenomeni” le persone che si posizionano al di sopra delle altre. E la vita sopra le righe.

C’è qualcosa che le fa paura di questo mondo? Qualcosa che vorrebbe – o che non riesce – a raccontare?

Moltissime cose, credo. Sa, io non ricordo neppure i miei sogni. Le cose che voglio dire si palesano poco a poco nelle mie storie. Io stesso capisco su cosa sto realmente lavorando dopo anni. Per questo ho un metodo di sedimentazione lenta.

Oltre ai titoli già citati, lei ha realizzato opere più ironiche e fantasiose (come Brillo, Yuri, gli Sdentati, ecc…) caratterizzati da una leggerezza a tratti amara che ricorda per certi versi i fumetti delle origini, Little Nemo di McCay, Krazy Kat di Herriman, le cose di Feininger... Che cosa pensa di questi autori? Ritiene che abbiano ancora qualcosa da dire ai lettori di oggi?

Come dicevo prima, questi autori sono i fondatori del nostro linguaggio, i pionieri. Io ammiro moltissimo il senso di libertà che si trova nelle loro tavole e nei loro personaggi;
Credo che senza loro un autore geniale come Chris Ware non sarebbe potuto esistere. Per me, a ogni modo, sono autori importantissimi.

La sua idea di fumetto è sempre stata aperta alle sperimentazioni, alle contaminazioni, alle novità provenienti dagli altre culture, da altri linguaggi, ecc… un’idea assolutamente opposta al fumetto-fumetto di stampo popolare. Ora che anche quel tipo di fumetto sembra aver intrapreso la strada del citazionismo e dell’ibridazione, ora che tutto viene buttato nel grande calderone del “postmoderno”, vale ancora la pena di osare una “rivoluzione” linguistica o tematica?

Non mi interessa molto la citazione fine a sé stessa, non mi ha mai interessato. Io credo profondamente a quello che faccio; le mie storie sono storie in cui il protagonista o la situazione non sono vissuti in maniera ironica, post-modernamente distante. Raccontare significa, per me, creare delle premesse per un viaggio. E viaggiare significa conoscere. Il fumetto-fumetto, come lei lo definisce, ha creato delle cose memorabili. In Italia Magnus ha commosso intere platee con “Lo Sconosciuto” e il ciclo di Mefisto di Tex lo rileggo con grande piacere.

Cosa significa oggi sperimentare?

Sperimentare per me significa non accontentarsi di ricette pre-confezionate. Per un motivo molto semplice, la noia. Se qualcuno ci ripete sempre le stesse cose cosa diciamo? “Ho capito, basta”. E perché? Perché ci prendono per stupidi. La cosa che voglio dire è semplicemente questa, trattiamoci bene, il cervello ha bisogno di ossigeno, di essere messo alla prova per capire. Non siamo pigri e vivremo in maniera più sana. Leggere le cose nuove o scoprire un nuovo autore ci da entusiasmo. Io cerco questo. Sperimentare per fare cose incomprensibili non serve a nulla. Ma oggi viviamo in un universo pieno di segnali che si ripetono tutti, l’uno con l’altro.

Lei gode di una notevole fama internazionale. Ha vinto numerosi premi, ha esposto alla Biennale di Venezia, è stimato tra i suoi colleghi e tra gli addetti ai lavori in Italia come in Europa o in Giappone. Ritiene che questa sua posizione possa aver contribuito al successo della Coconino Press?

Non lo so. La Coconino Press ha certamente contribuito anche a espandere il mio lavoro in paesi cui al momento non era arrivato. Io credo moltissimo nel lavoro di squadra. Sono un animale sociale.

Oltre a Igort, Coconino ha nel suo catalogo autori come David Mazzucchelli, Munoz & Sampayo, Daniel Clowes, Charles Burns, David B.… Una casa editrice che lavora sugli autori più che sui titoli, che sa valorizzare tutti i suoi nomi noti o meno noti, in un’ottica più vicina all’editoria libraria che al modello tradizionale della casa di fumetti. Questo metodo di lavoro deriva dalle sue passate esperienze all’estero, in particolare in Giappone, o è dovuto ad altre considerazioni?

Gli autori che lei cita, come quasi tutti gli autori di Coconino Press sono tutti miei grandi amici; io amo il lavoro degli altri, mi piace commuovermi quando mi imbatto in talento, cuore, intelligenza e coraggio. Quindi ho pensato che forse c’era lo spazio per una casa editrice di medio cabotaggio che potesse difendere una scrupolosa dimensione del lavoro. In quanto agli autori Lei ha ragione, ci interessa la “politique des auteurs” come si diceva in Francia negli anni settanta. Un autore è un universo che parla una sua lingua, cosa c’è di più esaltante?

La Coconino ha un sito ricco di contenuti dal quale è possibile anche fare degli acquisti on line. Lei stesso dialoga con il suo pubblico attraverso un sito personale che viene costantemente aggiornato e offre un utilissimo compendio alle sue opere. In che modo pensa che internet modificherà il rapporto tra il fumetto e il suo pubblico? Pensa che si arriverà mai al livello di altri settori, come quello musicale, con l’annullamento effettivo di ogni intermediario?

Sarebbe molto bello, non so se sia già alla portata. Ma potere leggere le lettere dei lettori da l’impressione di passare dal cinema al teatro; un attore di teatri ha il pubblico davanti, si crea una onda emotiva molto forte. Questo è comunicare. D’altra parte il lavoro dell’autore di fumetti è un lavoro estremamente solitario. Fatto di intimità. Internet permette di avere uno sguardo sul mondo e un contatto con i lettori senza perdere la dimensione intima del lavoro. Impagabile da questo punto di vista; inoltre la struttura è magmatica e aperta; a un libro non puoi aggiungere un capitolo una volta confezionato. La struttura mobile di internet ritengo sia una qualità narrativa ancora da esplorare.

Coconino si è affacciata sul mercato con un formato alquanto singolare, che ha probabilmente comportato alcuni problemi all’inizio, ma che è servito a identificare in modo evidente i suoi prodotti e a dare una veste nuova ed elegante all’oggetto fumetto. Può spiegarci le ragioni di questa scelta?

La visione del libro come oggetto non è staccata dalla narrazione. Io, Seth, Ware e altri ci preoccupiamo di concepire il libro nella sua interezza perché siamo convinti che tutto sia racconto. La carta di Fats Waller in Francia è stata oggetto di analisi. I lettori e i critici hanno notato che influisce sul colore dando un tono nostalgico.
Si aggiunga che il libro è di solito un oggetto industriale. Io volevo allontanarlo dall’idea plasticosa e “cheap” che aveva di solito. Per me un libro è un osservatorio sul mondo. Un oggetto d’affezione. Penso, che forse siamo riusciti a creare una identità precisa alla casa editrice, una riconoscibilità, come Lei dice.

Altre case editrici di grosso calibro si stanno muovendo verso il fumetto seguendo la scia e lo stile della Coconino Press, con una maggiore attenzione al valore della storia narrata rispetto al nome del personaggio. È notizia di pochi giorni fa la pubblicazione da parte della Mondatori del Jimmy Corrigan di Chris Ware: si tratta di una voce senza fondamento oppure c’è qualche verità?

Jimmy Corrigan sarà una co-edizione tra Mondadori e Coconino. Noi da soli non potevamo reggere uno sforzo editoriale di quel calibro (sono quasi 400 pagine a colori). Abbiamo ottime relazioni con diversi editori importanti.

Coconino ha pubblicato e promosso talenti come David B., Seth, Maruo, Adrian Tomine, Rabagliati, Chester Brown, Gipi, Graig Thompson, ecc… che hanno riscosso ampi consensi di critica e di pubblico. Per il futuro, può farci qualche nome che vale la pena prendere in considerazione?

Sammy Harkham , Kevin Huizenga, Anders Nilsen, e molti autori della collana Ignatz. Vi consiglio di tenerli d’occhio.

In che modo si muoverà la Coconino da qui in avanti: con una politica ancora più aggressiva verso il mercato e la concorrenza, cercando magari nuovi sbocchi verso quelle fasce di pubblico tendenzialmente poco avvezze al medium fumetto; o mantenendo un basso profilo, valorizzando pazientemente il proprio spazio e i propri autori, con produzioni mirate?

Non credo nella concorrenza quanto invece nella cooperazione. Per me l’essenziale è la prospettiva, l’obbiettivo che ci si pone. Io vorrei che le opere che meritano una reale audience arrivassero al numero di lettori che meritano. Sino a oggi questo è ancora un miraggio. Altrove (Francia o Giappone, per dire) invece questo si è realizzato. Sarebbe bello uscire da una dimensione provinciale. È possibile.

La ringrazio molto della disponibilità,

Davide Scagni



Francesco Farru

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