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Davide Giurlando

Davide Giurlando

Battling Boy vol. 1

Per anni, la città di Arcopolis è stata vittima delle incursioni di mostri incappucciati, rapitori di bambini, capitanati dal temibile Sadisto; e per anni, l’eroico Haggard West è stato l’unico baluardo contro gli invasori. Ma quando West muore sul campo, chi raccoglierà la sua eredità? La testarda e vendicativa figlia di Haggard, Aurora? O piuttosto Battling Boy, un semidio adolescente e inesperto, disceso da un reame ultraterreno?

In un eloquente articolo del 2004 intitolato “Kids’ Stuff” (ristampato in Italia come “Roba per ragazzini”, in Mappe e leggende, edito da Indiana), Michael Chabon - l’autore del romanzo premio Pulitzer Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, ispirato alla vita di Siegel e Shuster - riflette sull’attuale stato dell’industria editoriale supereroistica. E arriva alla conclusione che la crisi dei fumetti incentrati su personaggi col costume è in gran parte dovuta a un progressivo allontanamento dal loro pubblico ideale, cioè quello infantile, adottato nel tentativo di guadagnarsi rispetto e credibilità presso lettori più anziani. Chabon si spinge fino a stilare una sorta di lista delle regole che dovrebbero seguire i moderni comics di supereroi per recuperare terreno; e uno dei suggerimenti è quello di creare dei fumetti supereroistici per bambini che siano anche incentrati sui bambini.

Battling Boy sembra essere la risposta diretta all’appello di Chabon (e forse non è un caso che dal 2006 al 2008 Paul Pope sia stato attivamente coinvolto nel progetto di un adattamento cinematografico proprio di Kavalier e Clay, successivamente non realizzato). Frutto di un accurato lavoro durato almeno quattro anni, il primo capitolo della saga del “ragazzo combattente” nasce esplicitamente come opera a sfondo supereroistico diretta a un pubblico giovane; tuttavia - e in questo sta l’intuizione apparentemente banale, ma in realtà profondamente intelligente, di Pope - non è un lavoro bambinesco. Dimostrando un rispetto davvero encomiabile nei confronti dei lettori, l’artista confeziona una storia di una freschezza e una genuinità impressionanti, ponendo contemporaneamente le fondamenta di un intero, complesso universo narrativo. Molti dei temi sollevati sono piuttosto classici, come l’affacciarsi delle prime responsabilità della vita (l’arrivo di Battling Boy sulla terra è apertamente descritto come l’esito di un rito di passaggio) e l’approssimarsi della maturità; tuttavia, Pope riesce a riproporli con passione e onestà, senza lesinare momenti crudeli (la morte di Haggard West nel prologo della storia) ma anche soffermandosi su sequenze ironiche, senza cercare a tutti i costi il facile colpo di scena. Piuttosto che solleticare il lettore, Pope lo prende per mano e lo conduce in un mondo colmo di invenzioni fantastiche ma anche di umanità: Battling Boy potrebbe facilmente essere un soggetto ideale per un film di Miyazaki padre.

Sia detto senza tanti giri di parole: in un mondo perfetto, tutti o quasi i fumetti supereroistici sarebbero come Battling Boy, almeno nell’approccio. Uno dei più gravi problemi dei colossi editoriali di comics statunitensi sta nell’essersi concentrati, nell’ultimo decennio, sul pubblico sbagliato; o meglio, nell’aver assecondato nel modo sbagliato le aspettative di un certo tipo di pubblico. Quando qualche anno fa il boss della DC Comics, Dan DiDio, ricevette una proposta per una serie per ragazzi incentrata sul Kamandi di Jack Kirby, la rifiutò spiegando che la DC non produce fumetti per ragazzi, ma per quarantacinquenni. L’artista che aveva fatto la proposta, guarda caso, era proprio Paul Pope.

Il problema dell’aver adottato una simile filosofia editoriale - che coinvolge in egual misura Marvel e DC, anche se negli anni la Marvel è riuscita marginalmente a costruirsi una credibilità maggiore presso una generazione più giovane - sta, oltre che nell’ovvio restringimento della fascia di pubblico, nell’impoverimento progressivo di trame e storie. Non è che Marvel e DC non abbiano in scuderia bravi autori, o che non pubblichino anche buone storie: ma è l’approccio generale a difettare. Anche perché le serie supereroistiche incentrate su personaggi maggiori non sembrano affatto dirette a un pubblico dai gusti maturi, ma cercano piuttosto di assecondare i gusti infantili di un pubblico anagraficamente maturo: una strategia commerciale che assomiglia un po’ a quella di film in stile "The Expendables" o a quella di moltissimi seguiti o remake cinematografici degli ultimi anni, finalizzata alla gratificazione facile facile di certi spettatori pur risultando in ultima analisi sterile per non dire stantìa. Cosicché oggi, alla fin fine, rispetto a Battling Boy, risulta molto più bambinesco un tipico fumetto DC o Marvel: un fumetto, cioè, che si presenta come un ibrido mal riuscito, perché da un lato è finalizzato alla riproposizione di stilemi estremamente datati ma familiari a un certo tipo di lettore non più giovanissimo (non a caso, il lettore spesso più rigido e impermeabile alle licenze creative), e dall’altro cerca di nascondere le carenze delle storie sotto una patina di superficiale adesione a tematiche cosiddette “adulte”, o peggio sminuisce l’importanza del singolo albo facendolo rientrare nel mare di testate dell’ennesimo eventone o cross-over. Allora, ha perfettamente ragione Alan Moore quando stigmatizza - sia pure con una certa acrimonia e forse un po’ di malafede - lo “sviluppo arrestato” di un certo tipo di appassionati di supereroismo.

La soluzione alla crisi del genere proposta da Pope è quasi imbarazzante nella sua semplicità. Piuttosto che la rivisitazione omaggiante dei grandi classici (come nel caso del piacevole ma tutto sommato già visto Edison Rex di Chris Roberson), o il decostruzionismo molto sensazionalistico ma sostanzialmente superficiale (si pensi a Mark Millar), con Battling Boy Pope sceglie semplicemente di raccontare una storia. Cioè, propone l’analogo di un fumetto supereroistico classico, naturalmente aggiornato ai gusti e alle abitudini di un lettore nato nel terzo millennio, ma non riscrive lo stesso fumetto, non tenta aggiornamenti posticci, tiene presenti i modelli ma non se ne lascia schiacciare. E nemmeno li omaggia: anche se il padre di Battling Boy e l’eroico Haggard West ricordano rispettivamente Il mitico Thor e Rocketeer, il richiamo è puramente iconografico, e si rifà ad archetipi che esulano dai lavori di Kirby e Stevens. Saggiamente, Pope capisce benissimo che il miglior omaggio che si può fare ai grandi autori è quello di conoscerli procedendo però per la propria strada. Anche dal punto di vista grafico: nel panorama degli artisti statunitensi quasi non esistono disegnatori dall’approccio maggiormente personale di quello di Pope. E, anche se sulla carta può sembrare un controsenso raffigurare una storia per ragazzi con un tratto così insolito, quasi da fumetto underground, tutto funziona benissimo, sia nelle panoramiche piene di sense of wonder della città dei semidei, sia nei dinamicissimi inseguimenti volanti di Haggard West a caccia dei mostri.

Può sembrare un po’ ingeneroso ricondurre quasi interamente un genere fumettistico, il supereroismo appunto, a una fascia di pubblico peculiare, quella compresa tra i 10 e i 14-15 anni. In fondo compresi nel genere ci sono anche lavori assai più sofisticati della media, quelli di autori come Miller e Moore. Tuttavia, titoli come Watchmen, Swamp Thing o Dark Knight Returns (o anche lavori non strettamente supereroistici, ma comunque non privi di legami con il genere, come V for Vendetta o Sandman) non sono forse anch’essi sostanzialmente diretti a lettori adolescenti, che coglieranno con forza e passione le istanze degli autori anche senza capirne pienamente a una prima lettura tutte le implicazioni? Alcuni passaggi sulla rabbia e la vendetta nelle storie di Miller, o le riflessioni sull’amore e sul senso della vita in Gaiman fanno pensare che con grande difficoltà si troverà un lettore più sinceramente appassionato e partecipe di un quindicenne - naturalmente, s’intende un quindicenne in cerca di stimoli intelligenti e non banali. Le riletture che vengono con la maturità anagrafica integreranno solo quel primo approccio, ma è difficile pensare che anche lavori eleganti e complessi non siano confezionati anche per un pubblico adolescenziale. Soprattutto per questo tipo di pubblico. Esiste una tendenza deleteria, adottata da case come Marvel e DC, a sottovalutare l’intelligenza dei lettori più giovani, o quantomeno la loro capacità di cogliere spunti e interessi che esulino dalle proposte più stupidamente commerciali. Per fortuna, storie come Battling Boy costituiscono alternative estremamente valide, e dimostrano come si possa reinventare il supereroismo in modo intelligente e originale, senza scadere per la miliardesima volta nell’eventone/omaggio/provocazione/riproposizione.

Una menzione dovuta per l’edizione italiana della Bao; che propone un volumetto rilegato con sovracoperta, elegantissimo e curato come tutti i lavori di questa casa editrice. Ad maiora.

Il secondo volume non arriverà mai troppo presto.

Asterix e i Pitti

In una fredda giornata invernale del 50 avanti Cristo, sulle coste dell’Armorica, fa la sua comparsa un inatteso visitatore: il giovane Pitto Mac Keron, proveniente dalla Caledonia (l’antica Scozia), che imprigionato in un blocco di ghiaccio ha navigato fino a un certo villaggio abitato da irriducibili Galli. Saranno un piccoletto permaloso ma astuto e un gigantesco (non grosso!) fabbricante di menhir a riportarlo in patria e ad aiutarlo a ricongiungersi con la fidanzata Camomilla, caduta nelle mani del perfido Mac Arogna.

Asterix e i Pitti è un volume storico per più di una ragione. Innanzi tutto, è la prima avventura con protagonisti gli eroi creati da Goscinny e Uderzo dopo 8 anni di pausa (il precedente Albo d’oro del 2009 è in realtà un volume celebrativo e non una storia unica); ma soprattutto è l’albo con il quale l’ormai 86enne Uderzo, unico autore delle avventure di Asterix dopo la prematura scomparsa di Goscinny nel 1977, passa il testimone agli eredi Jean-Yves Ferri (già apprezzato autore di Aimé Lacapelle e Le retour à la terre) e Didier Conrad (valido artista di Les innommables e Le piège malais). Molti fan di oltre trenta storie con protagonisti gli avventurieri Galli, diverse delle quali costituiscono autentici capolavori, tireranno un sospiro di sollievo al pensiero che qualcuno farà sopravvivere editorialmente i loro beniamini anche dopo il pensionamento della seconda metà del duo di creatori originali. Probabilmente l’importanza storica dell’albo rappresenterà un motivo sufficiente per l’acquisto; ma sfortunatamente sarà anche l’unico perché, pur con tutti i buoni propositi, Asterix e i Pitti è brutto.

L’aspetto grafico è forse il meno carente, anche se a paragone dell’Uderzo dei tempi d’oro Conrad esce comunque perdente. In realtà l’artista di Asterix e i Pitti è un disegnatore abile e anche versatile, in grado altrove di spaziare dalle influenze di Morris e Franquin a una propria strada individuale, ricca di personaggi femminili sensuali e misteriosi. Purtroppo, nel tentativo di imitare la linea dell’Asterix storico a tutti i costi, Conrad perde tantissimo. Certe panoramiche sembrano davvero frettolose e poco dettagliate (si paragoni, per fare un esempio, la battaglia di pagina 43 di Asterix e i Pitti con certe vedute di Roma in Asterix e gli allori di Cesare o Asterix e il paiolo, straripanti di comparse tutte delineate e caratterizzate in modo eccellente). Anche il design dei personaggi è di qualità altalenante: se Asterix e Obelix sono indubbiamente fedeli alla versione storica, i comprimari tradizionalmente rappresentati in modo meno caricaturale, come la moglie di Matusalemix, risultano davvero tirati via. Può darsi che se Conrad avesse avuto mano libera e la possibilità di imporre uno stile maggiormente personale, molti lettori storici si sarebbero infuriati, ma l’albo ne avrebbe giovato. Tuttavia, non è escluso che ‒ se si continuerà su questa strada, con l’attuale duo di autori ‒ in futuro Conrad sia in grado di costruirsi una credibilità presso i fan di vecchia data e tentare delle sperimentazioni grafiche che, al primo albo, erano forse improponibili.

I problemi più seri di Asterix e i Pitti, tuttavia, risiedono nella sceneggiatura. Tradizionalmente, gli albi classici di Asterix (per la chiarezza: quelli scritti da Goscinny) rientrano in generale in tre categorie: storie ambientate all’interno del villaggio, nelle quali i nostri devono difendersi dall’offensiva di qualche nemico (quasi sempre Cesare, attraverso progetti che spesso rappresentano una satira di altrettanti fenomeni della modernità, come il consumismo e la speculazione edilizia: Asterix e il regalo di Cesare, Asterix e il regno degli dei e il meraviglioso Asterix e la zizzania); storie ambientate a Roma o Lutezia, con i nostri che devono portare a termine missioni più o meno assurde trovandosi immersi in un contesto metropolitano a loro ostile (Asterix e gli allori di Cesare, Asterix e il paiolo); e storie ambientate all’estero, di solito le più leggere, nelle quali Asterix e Obelix sono inviati con un pretesto in un paese straniero, delineato in maniera tale da costituire una caricatura bonaria degli stereotipi normalmente associati a quella nazione (Asterix e gli Elvezi, Asterix in Iberia). Quando Uderzo ereditò il personaggio da Goscinny, pur tentando inizialmente di proseguire sulla medesima strada dello scrittore scomparso (Asterix e il grande fossato, L’odissea di Asterix), tentò successivamente di sopperire all’assenza di una vis comica efficace come quella dell’autore de Il piccolo Nicolas ripiegando su altri dettagli. Per esempio, sulla riproposizione di personaggi classici come Falbalà nel cosmo degli eroi Galli o anche rispondendo ad alcuni interrogativi storici (cosa succede quando Obelix beve la pozione magica? In Asterix e la galera di Obelix) o addirittura facendo del metafumetto a buon mercato (Quando il cielo gli cadde sulla testa). La tendenza di Uderzo a bilanciare l’esilità delle trame con riferimenti a una più ampia continuity è probabilmente uno dei sintomi della decadenza qualitativa del personaggio, unitamente alla sempre maggior evidente difficoltà nel rintracciare spunti originali.

Ferri, l’inauguratore di questa terza fase della vita editoriale di Asterix, tenta di ritornare alla visione di Goscinny, eliminando quasi completamente i riferimenti a storie passate e optando per una classica, semplice trasferta di Asterix in Scozia. E senza dubbio il nuovo autore si deve essere studiato con il microscopio gli albi precedenti, dato che ripropone molto fedelmente tutte le caratteristiche dell’Asterix storico, dalle liti tra Ordinalfabetix e Automatix, alle assurde raccomandazioni di Obelix per la dieta di Idefix, all’aderenza fisica di alcuni comprimari a personaggi del mondo dello spettacolo (Mac Arogna e il bardo Mac Orrid sono caricature rispettivamente di Vincent Cassel e Johnny Hallyday). Il problema però è che l’albo non fa ridere quasi mai. Tutti gli stereotipi sulla Scozia sono molto generici (dal lancio dei tronchi, al kilt, al mostro di Loch Ness) e manca completamente quella malizia irriverente che aveva fatto la fortuna dei volumi scritti da Goscinny: qualcuno ricorda la propensione dei Britanni per i manicaretti disgustosi in Asterix legionario e Asterix e i Britanni? O le demenziali faide famigliari in Asterix in Corsica? Inoltre, il Pitto Mac Keron (una parodia ‒ pare ‒ di un’altra storica creazione di Goscinny e Uderzo, l’indiano Oumpah-Pah), è un personaggio abbastanza monocorde, la cui unica gag ricorrente è quella, non troppo riuscita, di un’afonia che lo obbliga a parlare attraverso i testi di canzoni moderne.

In generale, sono proprio Asterix e Obelix i personaggi maggiormente fuori posto. Manca una vera e propria interazione con il contesto nel quale l’avventura è ambientata, e più che dei protagonisti caratterizzati in maniera semplice ma efficace come negli albi storici, i nostri sembrano dei turisti poco coinvolti, o meglio dei tramiti attraverso i quali portare avanti la storia fino a una prevedibile conclusione. Cosicché alla fine, piuttosto che le sequenze dei guerrieri Galli alle prese con salmoni al cartoccio e tiro dei tronchi, risultano molto più divertenti le brevissime scenette del malcapitato burocrate romano Numerochiusus, impegnato in un improbabile censimento del villaggio in Armorica.

Funzionale la traduzione di Michele Foschini, anche se incappa in almeno un riferimento di scarsa comprensibilità per gli italiani (nella sequenza in cui i Galli ricordano che le ostriche vanno mangiate nei mesi con la “R”, come recita un tradizionale detto d’Oltralpe). Purtroppo, anche se il traduttore riesce a rendere praticamente tutti i giochi di parole del testo francese, nessuno di essi è all’origine particolarmente arguto o divertente.

Forse continuare a paragonare Asterix e i Pitti all’Asterix storico non può che risultare impietoso nei confronti della nuova versione. Purtroppo, è proprio l’albo a stimolare questo tipo di confronto, con il suo tentativo, sia a livello grafico che narrativo, di riprendere pedissequamente i volumi di Goscinny e Uderzo. Ai posteri, cioè ai lettori degli albi futuri, l’ardua sentenza: spetterà a loro scoprire se Ferri e Conrad (o chiunque se ne assuma il compito) saranno in grado di allontanarsi dall’ombra degli ingombranti predecessori e proporre ‒ ammesso che sia concepibile ‒  un Asterix davvero nuovo; o se piuttosto, tutto sommato, non sarebbe stato meglio chiudere il gioco tempo fa.

Marvel Comics. Una storia di eroi e supereroi

Versione breve: questo libro è magnifico. Va assolutamente comprato.

Seguirà versione lunga. Che però tocca corde talmente personali da richiedere un prologo autobiografico.

Fino ai 20 anni, sono stato un estimatore dei fumetti DC. Fan è una parola troppo grossa: da adolescente, non avevo quasi mai letto fumetti seriali di supereroi, con qualche eccezione come il Batman della Glénat e della Play Press, e quasi sempre con interesse moderato. Fino ai 16 anni, le mie uniche escursioni nel mondo degli eroi in calzamaglia erano state  Watchmen, Il ritorno del Cavaliere Oscuro (nella mitica traduzione di Enzo Baldoni, tanto disinvolta quanto affascinante) e The Killing Joke. Il che forse spiega perché, nell’accostarmi a pubblicazioni seriali, quest’ultime risultassero invariabilmente perdenti nei confronti di quelle che erano - ma io ancora non lo sapevo - irraggiungibili pietre miliari.

Finché in un giorno del 2000, quasi per caso, incappai nelle collezioni Comic Art dei Grandi eroi Marvel: volumoni rossi che ristampavano in italiano i Marvel Masterworks. Non conoscevo la Marvel: sapevo solo che era la casa editrice dell’Uomo Ragno (di cui a suo tempo avevo comprato qualche albo, più che altro perché mi piacevano i disegni di Erik Larsen) e che era la principale rivale della DC. Ma andavo in cerca di nuove letture, e così comprai un volume.

E dopo ne comprai un altro. E un altro. E un altro ancora.

Gesù. Che roba. Mai letto niente di simile. Erano storie avventurose, erano mozzafiato, erano divertentissime. Davvero molto lontane dai corretti, raffinati, ma così normali Superman e Batman storici, che avevo conosciuto grazie alle antologie Dagli anni ’30 agli anni ‘70 della Milano Libri. E altrettanto dissimili dalle cupe e labirintiche elucubrazioni di Alan Moore e Frank Miller. Non capivo, ma vagamente intuivo, che le storie di Capitan America e Hulk, pur avendo una loro statura artistica, miravano soprattutto alla pancia e al cuore del lettore. Lo spirito di chi le aveva confezionate non era quello di un poeta, ma di un bravissimo imbonitore da circo. E che diavolo erano quei motivi di cerchi e linee a zig zag che Jack Kirby piazzava dappertutto? Circuiti? Bottoni? Comunque sia, li adoravo.

Caso volle che la mia scoperta della Marvel storica coincidesse con l’arrivo di Bill Jemas e Joe Quesada alla direzione della Marvel moderna, e quindi con la rivoluzione che avrebbe portato la Casa delle Idee ad assumere un nuovo volto fatto non solo di periodici cartacei, ma anche di innumerevoli blockbuster cinematografici. Inoltre, sempre nello stesso periodo, cominciai ad allargare il mio interesse ad altre serie DC: Superman, Wonder Woman e poi tutta la DC storica.

Il risultato: un’abbuffata di supereroi che durò anni. Scoprivo nello stesso momento il Superman di Byrne, gli X-Men di Claremont e gli Ultimates di Mark Millar. E mi ritrovavo coinvolto in discussioni con altri appassionati - discussioni a volte rispettose e pacate, ma molto più spesso esagitate e portate avanti fino all’oltranzismo - su continuity, trame e significato di personaggi principali e secondari. Onestamente non era poi così infrequente azzannarsi per partito preso. Però alcune discussioni sono state anche stimolanti, per quanto viziate più o meno tutte da un problema di fondo: erano quasi sempre scontri di opinioni soggettive, sostenute dal fanatismo, ma raramente fondate su basi concrete e obiettive.

Né era così facile risalire alle cosiddette fonti. Di solito, gli unici elementi che facevano testo erano opinioni di fan di antica data o note e rubriche apparse su albi vecchi e nuovi. Ma, personalmente, non mi sentivo sempre incline a guardare con fiducia a queste basi. Certi ricordi, e anche certi articoli, erano resi meno credibili da posizioni parziali e denigratorie o -come avveniva assai più spesso- filoaziendaliste. L’aver scoperto la Marvel relativamente tardi mi ha sempre impedito di provare per i personaggi della Casa delle Idee, che pure ho spesso amato, la stessa passione che ho provato per altri fumetti scoperti quando ero bambino. Ma ho la sensazione che un minor coinvolgimento emotivo abbia anche contribuito a farmi avere un maggior distacco verso voci che - questa era la mia impressione - per un motivo o per un altro, e non sempre premeditatamente, cantavano solamente la mezza messa.

Due anni fa, ho smesso con gli albi seriali di supereroi. Ne avevo abbastanza. E, anche se continuo a tenermi aggiornato sul settore, farei davvero fatica a sentire per i fumetti attuali di eroi in costume lo stesso interesse e la stessa passione che ho provato per dieci anni. Provo un affetto lievemente maggiore per certi personaggi DC, ma questa mia predilezione è puramente personale. E nulla ha a che vedere con l’oggettiva constatazione che, nel corso della sua storia, la Marvel ha conosciuto un numero assai maggiore di storie qualitativamente importanti e interessanti rispetto alla sua più accanita concorrente.

Ma restava sempre quel dubbio. Supereroi con superproblemi, certo. Continuity serrata, chiaro. Ma al di là di tutte queste ovvietà - che ormai sono diventate luoghi comuni - quel era la vera storia? Cosa era, ed era stata, la Marvel?

Ed ecco che Sean Howe, giornalista e appassionato di fumetti, arriva con la risposta. Marvel Comics - Una storia di eroi e supereroi (in originale Marvel Comics: The Untold Story) è una trattazione completa ed esauriente dell’intera storia della Marvel, dai tempi della Timely Comics all’arrivo di Stan Lee, alla bancarotta del 1996, alla rinascita, fino al film sui Vendicatori di Whedon. E ci sono tutti i protagonisti di una vicenda che dura ormai da quasi ottant’anni: da Stan Lee (che, almeno a giudicare dalla vita che ha avuto e continua a fare, potrebbe essere la prova vivente che i miracolati esistono) a Kirby, da Shooter a Quesada, con parti consistenti dedicate a grandi del passato ingiustamente dimenticati:  Gerber, Starlin ed Englehart.

Tutti i nomi che ci si può aspettare, insomma, ma nessuna delle storie che ci si immagina. Perché, anche se ovviamente il libro comprende molte osservazioni sullo stile narrativo Marvel (e non è impossibile che si riesca a scoprire qualche chicca storica finora trascurata, come per me è stata la scoperta della serie di Shang-Chi - Master of Kung Fu), questa è la storia di un’azienda. E dei rapporti, quasi sempre difficili, spesso degenerati, tra i suoi impiegati.

Non che Howe descriva certe situazioni, come gli scontri tra Lee e Kirby o alcune sgradevoli posizioni assunte da Shooter e Jemas, con piglio pruriginoso e gossiparo. Al contrario, il valore del testo sta proprio nell’oggettività con cui racconta la storia della Marvel tenendosi a distanza tanto dall’esaltazione, quanto da critiche parziali e negative, grazie a un’accuratissima documentazione. Ma proprio l’obiettività dell’autore contribuisce a rendere certi capitoli quasi sconvolgenti e a porre sotto una luce completamente nuova storie, personaggi e autori. Alcuni, come John Byrne, ne escono veramente malissimo.

Marvel Comics - Una storia di eroi e supereroi è una vera sberla per chi, della Marvel, ha conosciuto solamente le saghe mutanti e i crossover tra Vendicatori. La possibilità di comprendere finalmente quanto una particolare evoluzione di un personaggio, o una certa bega di continuity, siano semplicemente insignificanti rispetto alle vicende umane che si dipanano dietro le quinte basterebbe da sola a rendere questo libro un acquisto obbligato per tutti gli appassionati. Anche perché quanto succedeva negli uffici della Marvel aveva spesso una ripercussione diretta sulle storie. Perché quel particolare autore riprendeva sempre vecchi personaggi invece di inventarne di nuovi? Perché in quel momento veniva scritta quella particolare saga? La risposta, spesso, non è riconducibile esclusivamente a una libera scelta creativa.

Anche se Howe non manca di raccontare aneddoti divertenti (per esempio sulle modalità lisergiche con cui lo scoppiatissimo Englehart scriveva negli anni ’70) e non si può non apprezzare la vitalità che ha sostenuto la Marvel nel corso di tutta la sua storia, il libro lascia una profonda amarezza. Anche a una prima lettura, è impossibile non pensare a quanto sia incredibilmente ingiusto il sistema che regola le proprietà intellettuali in America, sia alla Marvel che alla DC. Certi trattamenti riservati ad alcuni autori, ridotti sull’orlo dell’indigenza o quasi, dopo aver creato personaggi noti e amati da tutti, fa gridare vendetta al cielo. C’è da chiedersi se con un sistema differente, più umano, un’azienda di questo peso avrebbe potuto sostenersi (e, anche se non ne conosco granché le logiche interne, a vedere la Bonelli sembrerebbe di sì: che Dio ce la conservi). Ma, se così non fosse, mi chiedo quanti accetterebbero di continuare a leggere a cuor leggero le avventure dei loro personaggi preferiti con la consapevolezza delle terribili situazioni che hanno sofferto certi scrittori e disegnatori, sfruttati fino all’osso e poi messi da parte come stracci.
Si potrà obiettare che le storie vanno separate dalle vicende umane che le hanno prodotte: giustissimo, ma visto l’atteggiamento amichevole e familiare che la Marvel ha sempre mantenuto nei confronti dei suoi lettori (una delle caratteristiche storiche che la distingueva maggiormente dalla aziendalista DC), forse un approfondimento come quello del testo di Howe non guasterebbe: equivarrebbe a sentire l’altra campana, per così dire. E in ogni caso, basterebbe la tristissima vicenda delle tavole di Jack Kirby, sottratte e poi restituite al Re solo in minima parte, a far vedere la propria collezione di Marvel Masterworks con occhi diversi.

Anche se la Marvel moderna non sembra altrettanto iniqua e draconiana di quella del tempo che fu (ma certe vicende hanno avuto degli strascichi anche recenti, per esempio in occasione della produzione dei film), il testo di Howe è comunque utile anche per orientarsi nel panorama fumettistico contemporaneo. Una vasta sezione è dedicata alla genesi della Image Comics negli anni ’90, anche se l’attuale orientamento della casa creata da Todd McFarlane non è comunque trattato; eppure, nulla come certe storiche vicende legate a progetti creator-owned aiuta indirettamente a capire perché la Image contemporanea sia riuscita a conquistarsi uno spazio così rispettabile nel campo dei fumetti americani. E anche perché i lavori Image siano oggi qualitativamente i migliori, e di gran lunga, di tutto il panorama statunitense (opinione personale, ma generalmente - credo - piuttosto condivisa).

Libro da leggere, rileggere, straleggere. Ottima la traduzione italiana, ma il titolo è davvero fuori luogo: questa non è una storia di eroi né di supereroi, ma solamente di esseri (fin troppo) umani.

Wolverine - L’immortale: recensione

Sono passati ben 13 anni da quando il regista Bryan Singer riuscì, rielaborando una vecchia sceneggiatura scartata per un film dei Fantastici Quattro, e utilizzando fino all’ultimo centesimo un budget decente ma non stratosferico, a realizzare il primo film degli X-Men. 13 anni durante i quali le trasposizioni da comics supereroistici sono diventate uno dei generi dominanti al box office americano, e ogni personaggio, anche di seconda o terza fascia, è ormai un potenziale spunto per un blockbuster.
Da parte loro, i film sui mutanti si sono sviluppati in un sottofilone vero e proprio, che comprende ormai una trilogia compiuta per quanto qualitativamente diseguale (all’apprezzato X-Men 2 è seguito il pessimo X-Men - Conflitto finale, messo insieme alla meglio dal mestierante Brett Ratner), un prequel (X-Men - L’inizio) e una serie “a solo” interamente dedicata a Wolverine: X-Men le origini - Wolverine, e ovviamente Wolverine - L’immortale.

Il tempo non è stato del tutto clemente con i mutanti di Singer, e non solo perché in oltre un decennio il livello tecnico degli effetti speciali è aumentato in modo esponenziale. Quando i primi film su Wolverine e soci furono realizzati, gli unici precedenti importanti in ambito supereroistico erano rappresentati dai Batman di Tim Burton e di Joel Schumacher. Il genere praticamente non esisteva, e oggi molte convenzioni introdotte dallo sceneggiatore David Hayter appaiono piuttosto datate; superate cioè da innumerevoli altri esempi di un filone che, per quanto non riesca ancora a diventare “adulto” (a parte rare eccezioni), ha comunque conosciuto nel frattempo film molto più sofisticati.
Va comunque riconosciuto un importante merito a Singer - regista del resto abbastanza mediocre, a eccezione del suo celebrato esordio I soliti sospetti: se i film sui mutanti non fossero mai stati realizzati, forse oggi l’intero filone supereroistico non esisterebbe, il che conferisce ai primi X-Men un primato per certi versi paragonabile a quello del Superman di Richard Donner (non a caso, anch’esso fondamentale a livello storico benché invecchiato molto male). Anche se l’apripista per i film Marvel fu Blade del 1998, di due anni precedente a X-Men, il film sull’ammazzavampiri creato da Marv Wolfman e Gene Colan non sembra aver generato dei veri e propri epigoni. La vera, geniale intuizione di Singer e soci, motivata probabilmente anche dal budget, fu quella di calare gli eroi resi celebri da Chris Claremont in un contesto realistico e plausibile, eliminando o quantomeno alleggerendo gli elementi fumettistici più pittoreschi e sposando un’efficace estetica “glaciale” che è servita da ispirazione a numerose pellicole successive. L’approccio visivo ideato dal regista de L’allievo, oltre ad essere indubbiamente funzionale, aveva il merito di essere anche facilmente replicabile da altri registi in ulteriori pellicole, il che dava a X-Men un valore esemplare; una componente, cioè, che film qualitativamente migliori, ma esteticamente così elaborati da essere poco emulabili come i primi due Spider-Man di Sam Raimi, non avevano.

In più, un’altra carta vincente dei film originali sugli uomini X era quella di aver scelto con molta cura gli interpreti di molti ruoli chiave della mitologia mutante. Non tutti gli attori erano indovinati, ma a svettare sugli insulsi Ciclope (James Mardsen) e Tempesta (Halle Berry) c’erano un efficace Patrick Stewart come Charles Xavier e, soprattutto, un notevole Wolverine interpretato dall’allora sconosciuto Hugh Jackman, che pareva un’incarnazione perfetta della sua controparte cartacea. L’aderenza dell’attore al suo ungulato personaggio fu tale che a tutt’oggi Jackman ha interpretato Logan in 6 distinte occasioni, e si appresta a rifarlo nell’imminente, quinto capitolo della saga dei mutanti, nuovamente affidato a Bryan Singer. Nel frattempo, ecco Wolverine - L’immortale, ovvero il secondo film (ma gli autori preferiscono considerarlo una pellicola “a solo”) della saga sul mutante canadese.

Il film ha avuto una lavorazione travagliata. Il precedente X-Men le origini - Wolverine aveva lasciato l’amaro in bocca a parecchi, e per questo secondo episodio era stato pianificato un approccio più autoriale e sofisticato, a cominciare dalla fonte d’ispirazione: la giustamente celebre miniserie di Wolverine ambientata in Giappone, realizzata nel 1982 da Chris Claremont e Frank Miller. La regia era stata inizialmente affidata al talentuoso Darren Aronofsky, che rielaborò una sceneggiatura scritta dal Christopher McQuarrie de I soliti sospetti. Nel 2011 Aronofsky abbandonò il progetto, adducendo come motivazione generici e onestamente non troppo credibili “motivi familiari” (che ricordavano sospettosamente l’analoga scusa con la quale nel 2005 Matthew Vaughn riuscì a sfilarsi dal disastro semi-annunciato di X-Men - Conflitto finale, film che inizialmente era stato chiamato a dirigere). Il maremoto del Giappone nel 2011 rallentò ulteriormente la lavorazione, che alla fine fu affidata a James Mangold, a suo tempo interessante regista di film non eclatanti ma discreti (ma vale la pena di recuperare il suo ottimo esordio da indipendente, Dolly’s Restaurant del 1995). La sceneggiatura fu ulteriormente rielaborata da Mark Bomback, specializzato in film d’azione. E infine, preannunciato da splendidi poster disegnati con uno stile “orientaleggiante”, il film è uscito il 25 luglio.

Seguono SPOILER.

wlimoWolverine - L’immortale si colloca temporalmente dopo X-Men - Conflitto finale. Logan, sconvolto dalla morte di Jean Grey (da lui stesso causata dopo la trasformazione dell’amata nell’onnipotente Fenice), ha lasciato gli X-Men e si è ritirato nelle foreste del Canada. A scuoterlo dalla sua solitudine arriva la spadaccina giapponese, e veggente, Yukio, che chiede a Wolverine di seguirla in Giappone perché il morente uomo d’affari Yashida possa saldare con Logan un vecchio debito d’onore. Una volta a Tokyo, Wolverine è trascinato in un complicato intrigo che vede coinvolti membri della Yakuza, uomini d’affari e la letale mutante Viper; troverà l’amore e scoprirà, finalmente, cosa significhi essere un vulnerabile uomo in carne e ossa.

La miniserie a fumetti su Logan è un lavoro notevole, scritto da un Claremont al suo meglio e disegnato da un Miller non ancora pienamente maturo ma già molto efficace. Il senso dell’onore, la solennità e la solitudine del protagonista e il dramma della sua storia d’amore rendono la saga un piccolo gioiello, che senz’altro ha dato un contributo determinante nel fare di Wolverine l’ultima vera icona supereroistica davvero importante e riconoscibile del mondo occidentale. Ebbene, in questo film, che pure in certi momenti è abbastanza aderente alla sua controparte fumettistica (e in altri se ne discosta completamente), del difficile equilibrio raggiunto dagli autori, del loro impegno e del loro talento, non c’è praticamente traccia.

La prima parte, pur non brillando, risulta abbastanza divertente (anche se non mostra nulla che non si sia già visto - e meglio - in altri film, o addirittura nell’ambito dello stesso filone degli X-Men). C’è una serie di apparizioni “oniriche” di Jean Grey (Famke Janssen), il cui scopo sembra però soprattutto quello di dare a Wolverine - L’immortale una precisa collocazione temporale rispetto agli altri film sui mutanti: ai neofiti, tuttavia, il personaggio non dirà nulla, mentre agli appassionati queste sequenze rischiano di ricordare con quanta mediocrità sia stata resa la morte di Fenice in X-Men - Conflitto finale. Tutto sommato, però, l’inizio della pellicola è scorrevole e si lascia vedere.

I problemi veri, però, iniziano con la trasferta giapponese di Wolverine. Dapprima lentamente, poi in modo sempre più incalzante, il film diventa un concentrato di tutti i più triti e irritanti luoghi comuni sul paese del Sol Levante. Non c’è uno stereotipo che manchi: ninja medievaleggianti, Yakuza, armature cibernetiche, samurai, consumate guerriere che nascondono il loro talento dietro l’apparenza di ragazzine, allusioni a gusti sessuali strampalati, l’onore e il rispetto, perle di saggezza un tanto al chilo, militari che fanno Seppuku; praticamente manca solo Godzilla. In compenso, a inizio film, c’è un’intera sequenza ambientata nei pressi di Nagasaki durante lo scoppio dell’atomica.
È vero, alcuni elementi erano già presenti nella miniserie: ma lo scopo delle trasposizioni - e questo Singer, se non altro, lo aveva capito perfettamente - è proprio quello di adattare il materiale originale, lasciando da parte tutto ciò che in un contesto realistico di attori in carne e ossa non potrebbe funzionare. Invece in Wolverine - L’immortale tutta questa paccottiglia orientaleggiante non solo viene ripresa senza alcuna ombra di ironia, ma anzi calcando ancora di più la mano. La sceneggiatura non sembra affatto scritta da uno scrittore serio e rispettoso che abbia una conoscenza vera della cultura orientale, ma da qualcuno che si è visto troppi anime comprendendone soltanto l’aspetto più superficiale. Con buona pace delle velleità autoriali di McQuarrie, su tutto il film sembra aleggiare un certo razzismo, reso ancora più evidente dal fatto che, a parte Mariko e Yukio (cioè l’amata del protagonista e la sua spalla), tutti i personaggi giapponesi del film sono alternativamente vigliacchi, privi di buon senso o senza alcuna idea di onore - o, in alcuni casi, una mescolanza delle tre cose.

A farne le spese è soprattutto il povero Jackman, che nonostante sia perfettamente in grado di calarsi nel ruolo con un’abnegazione e un’autorevolezza notevoli, proprio da interprete consumato, nell’ultima mezz’ora di film diventa veramente sgradevole; quando, cioè, il suo personaggio infila uno dietro l’altro una serie di micidiali commenti che sembrano saltare fuori da un film d’azione di serie Z degli anni ’80 (compreso un terribile “Sayonara!” durante lo scontro finale con il cattivo).
Anche la storia d’amore con Mariko non funziona. Al di là dell’indubbia avvenenza dell’attrice, il personaggio è antipaticissimo, sospeso tra un’altezzosità algida e una pretenziosa impressione di saggezza, sintetizzata in una serie di monologhi dal sapore “orientaleggiante” che si vorrebbero profondi e invece sono solo banali. Davvero non si capisce perché Logan dovrebbe innamorarsi di una protagonista così insulsa, e infatti tra i due personaggi non c’è una vera e propria alchimia; molto meglio, a questo punto, il rapporto con Yukio (interpretata dall’attrice Fukushima Rila, o meglio dalla sua voluminosissima scatola cranica), che nonostante sia sottoutilizzata risulta comunque un personaggio abbastanza simpatico e interessante.

Per completare il quadro, la sceneggiatura in certi momenti è davvero confusa, probabilmente a causa delle continue riscritture: che ruolo hanno le visioni di Yukio, che in certi momenti ci azzecca e in altri no? Perché il veleno di Viper, normalmente letale, ha un effetto solo temporaneo sul padre di Mariko, che si riprende giusto in tempo per uno scontro con Yukio e Wolverine? Se gli uomini della Yakuza dovevano semplicemente fare la pelle a Mariko, perché si prendono la briga di riportarla a casa dal padre, dopo averla rapita sotto il naso di un Logan per una volta provvidenzialmente disattento? E in ultima analisi: ha veramente un senso l’inibizione dei poteri di Wolverine da parte di Viper, che così facendo mette seriamente a rischio l’incolumità dell’unico mutante che dovrebbe mantenere in vita per potergli sottrarre l’immortalità? A ben vedere, tutta la sottotrama del prolungamento della vita dell’anziano Yashida fino alla comparsa di Silver Samurai sembra un’aggiunta pleonastica e appiccicaticcia alla trama principale, quella di Mariko e della Yakuza.

Eppure, Mangold non è in generale un pessimo regista, e anzi il suo curriculum è - nell’insieme - superiore a quello di Singer. Ma lo stesso discorso, probabilmente, si poteva fare con il Gavin Hood di X-Men le origini - Wolverine. E allora viene da pensare che, stringi stringi, Wolverine - L’immortale non rappresenti altro che l’ennesima conferma di quanto queste operazioni commerciali non portino ad altro che a un appiattimento, e spesso anche a una mortificazione, del talento e delle aspirazioni artistiche delle persone che vi sono coinvolte. Un fenomeno che, unitamente a certi intricati tòpoi narrativi che ultimamente stanno facendo la loro comparsa anche nei film (resurrezioni improbabili, paradossi temporali, inflazione di personaggi secondari, onnipresenza di Logan), rende la saga cinematografica dei mutanti sinistramente via via più simile ai periodi peggiori della sua controparte fumettistica. E il recentissimo annuncio di un film sulla X-Force non fa sperare bene per il futuro.

Infine, un’osservazione generale. A confronto dei film tratti dai personaggi DC (che alternano picchi qualitativi ancora imbattuti, come i film di Nolan, a orridi abissi tipo Lanterna Verde), e dell’analoga serie dei Vendicatori (che riesce a mantenersi sempre su una media discreta, senza grosse cadute e senza guizzi), il filone mutante della 20th Century Fox sembra essersi ormai adagiato - senza rimpianti e anzi con grande soddisfazione - nell’ampio bacino dei B-Movies (“B” per la qualità, non certo per il budget). Film, cioè, per certi versi simili agli episodi della serie cinematografica di Star Trek fino al reboot di JJ Abrams, o ad alcune saghe di action movie con protagonista Steven Seagal. Detto altrimenti, opere che pur conquistando un apprezzabile riscontro commerciale, sono tenute in considerazione solo dagli appassionati del genere, e non hanno (né, probabilmente, hanno quasi mai avuto) la capacità di dire qualcosa di veramente importante e significativo sul tema dell’accettazione e della diversità. L’improbabile sottotitolo italiano “L’immortale”, in maniera del tutto incidentale, rinforza ancora di più quest’impressione: riporta infatti alla mente certi storici e fantasiosi adattamenti di film americani per il mercato italiano, di solito riservati a pellicole di seconda fascia a cui si sperava di dare maggiore visibilità (La casa 7, Chi è sepolto in quella casa?, ma anche il recente Nickname: Enigmista…).

Immancabile scena a metà dei titoli di coda per annunciare il prossimo episodio: Magneto, Xavier, Bolivar Trask, le Sentinelle, e Giorni di un futuro passato. Ma onestamente, se il livello deve essere quello di Wolverine - L’immortale, chi se ne importa.

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