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Figli di un'arte minore. Della critica a Maus

maus1I fatti: in occasione della retrospettiva al museo ebraico di New York dedicata a Art Spiegelman, The New Republic pubblica un articolo in cui il critico d’arte Jed Perl si scaglia contro il bisogno di mostre fumettistiche negli spazi museali, contro lo stesso Spiegelman e la sua opera più famosa, Maus, definendolo un Primo Levi dei poveri: la bestemmia non sta tanto nell'ingeneroso paragone quanto nell'accostamento che non tiene conto dei diversi intenti alla base delle due opere.

Un pezzo al vetriolo, risentito e pieno di contraddizioni. “Se il pop è così favoloso” domanda Perl “perché c’è questo disperato bisogno del sigillo d’approvazione museale? Non è abbastanza essere i re del proprio reame?”; una frase che potrebbe sottintendere logiche feudalistiche e che in ogni caso rappresenta il fumetto come il grande pesce nel piccolo stagno. E un’affermazione del genere disinnesca la pur legittima domanda, come a dire che, sì, esiste un mare più grande dove il piccolo pesce fumetto è nulla in confronto a balene letterarie e squali cinematografici, giustificando la sua ricerca di approvazione da parte degli organi deputati a elargirne; esisterebbe un reame superiore, un altro mondo in cui gli adulti possono mangiare al loro tavolo e disquisire di Joyce senza stare a preoccuparsi dei mocciosi urlanti che si lanciano gli spaghetti addosso.
I dubbi e le domande che Perl pone con atteggiamento da bastian contrario si legano a doppio filo al museo come punto di coagulazione delle esperienze artistiche più disparate. Perl sembra avvallare la tesi per cui l’arte è arte solo se sta in un museo, checché ne dicano Banksy e i suoi, e che il fumetto soffre di un complesso d'inferiorità talmente radicato nella sua stessa natura da cercare continui attestati d'approvazione esterni. Perché è il medium visivo più vicino, seppur diverso, all'arte strettamente detta ma anche al fenomeno tutto mentale della letteratura. L' attrazione a due polarità così distanti generano schizofrenia e ineguatezza, portandolo a essere, unico nel suo genere, il fratello minore delle due arti.

Questo spunto iniziale non viene raccolto e si preferisce circoscrivere il discorso a Spiegelman. Le fallacie di Perl da qui in poi abbondano. Il suo atavico attaccamento agli ultimi residuali di forme d’arte tradizionali, testimoniato dai titoli di alcuni suoi pezzi (“Perché l’Impressionismo è ancora importante”, “L’ampiamente sopravvalutato Andy Warhol”, “Il MoMa inscena uno spettacolo sull’Arte Sonora: non è musica!”) è forse la causa del suo inorridire di fronte alla didascalia del Museo ebraico in cui si afferma che l’artista ha abbattuto la barriera tra alta e bassa cultura: “Cosa sulla Terra legittima un museo ad affermare una tale ridicolaggine?” scrive Perl “Non ha notato nessuno che le barriere erano già state abbattute un secolo fa da Picasso, Braque, Léger, Schwitters, Picabia e Duchamp?”.
Vero, Picasso e soci sovvertirono concetti artistici sedimentati nelle menti del pubblico ma non unirono in maniera radicale arte bassa e alta mischiando fumetti e avanguardie novecentesche, e soprattutto non divennero mai comprensibili allo stesso modo da un pubblico colto e da uno senza retroterra vari ed eventuali. L’ipotesi è che Perl veda il fumetto come un prodotto di seconda generazione, di tipo derivativo, una specie di arte figurativa con le parole scritte sopra, quindi esplicita nel rivelare il suo senso, quindi semplice, quindi non degna delle attenzioni dei critici.
Per lo stesso motivo imbufalisce di fronte ai paragoni con i minimalisti Malevich e Reinhardt fatti in occasione della copertina realizzata da Spiegelman per il numero post-11 settembre del New Yorker, un esempio di sincretismo tra linea e spazio che mostra la potenza comunicativa del fumettista (in alcune condizioni di luce, il profilo delle torri non è visibile da tutti i punti prospettici, legando il fumetto alla proprio forma fisica proprio come un pezzo d’arte originale) e che viene invece tacciato di semplicità retorica.
Ha da ridire perfino sulla retrospettiva in sé, rea di spacciare per arte, oltre al fumetto, anche la vita dell’autore, mettendo in mostra i cimeli di famiglia. Perl forse bada poco al fatto che lo scavo, il ritrovamento del reperto, dell’oggetto, del feticcio sono una diretta estensione della poetica spiegelmaniana, intenta a riutilizzare, citare e copiare icone artistiche in un ritorno all’origine che riconsegni i copia-incolla di Lichtenstein alla loro fonte primogenita. La realtà è che il critico sembra prendersela con Spiegelman perché artista minore, anzi, nemmeno artista, solo “figliol prodigo che ha optato per l’arte sul commercio ma che alla fine si è dimostrato essere un successo commerciale, rendendo orgogliosi mamma e papa - un bravo ragazzo ebreo vagamente graffiante”. A poco o nulla servono poi i paragoni in negativo che l’autore elargisce: confrontare Spiegelman con Robert Crumb e Winsor McCay, oltre a essere poco rilevante (di nuovo, i parallelismi andrebbero fatti quando si nota una compatibilità di intenti e mezzi, altrimenti vale tutto) - ha la stessa specificità di un vecchio che rimpiange l’età dell’oro. Vi ricordate quando i biscotti di cioccolato uscivano caldi dal forno e non tutti potevano frequentare i campi da golf? Jed Perl se lo ricorda.

Spiegelman Twin TowersSolo su un aspetto di Maus il critico sembra fare centro: Spiegelman divide acriticamente intere nazioni in maschere di comodo, evitando di affrontare la stratificazione sociale e ideologica di un paese. E così i tedeschi sono tutti gatti, gli ebrei tutti topi e i polacchi tutti porci. “Eh, ma è per ribaltare lo stesso concetto di razza teorizzato dai nazisti. Sovverte le parole di Hilter, che aveva dipinto gli ebrei come ratti portatori di malattie” sarebbe la linea di difesa. In verità Perl apre una ferita già punzecchiata da altri, come Hillel Halkin e R. C. Harvey, evidenziando il corto circuito interno al libro: la distinzione in razze cancella il senso delle atrocità commesse da esseri umani su altri esseri umani e la semplificazione della realtà si trasforma con fin troppa facilità in un gioco allo stereotipo più generalizzante. L’aveva di certo capito anche Ilan Manouach, artista greco che nel 2012 aveva dato alle stampe Katz, una rilettura decostruttivista di Maus dove tutti i personaggi sono gatti. Ebrei e tedeschi non sono più distinguibili.

Nonostante tutto, l’articolo risulta degno di nota per una ragione: è stato scritto da un critico d’arte che ha demolito a sassate un’icona del fumetto. Sarebbe possibile in Italia, dove ogni vicolo è patrimonio dell’umanità, dove ogni cantone pretende la paternità sulla pizza e le lasagne, e l’oggetto artistico è intoccabile oltre ogni misura, fare lo stesso, mettersi a smontare Andrea Pazienza o Hugo Pratt, sbadigliare di fronte alla naturalezza eterea di Leonardo da Vinci, affermare che Italo Calvino non scriveva poi così bene (sì, qualcuno negli anni novanta c’ha pure provato - Montefoschi e De Carlo, quest’ultimo scoperto proprio dallo scrittore ligure - ma ne hanno fatto una questione di gusto, più che di oggettiva importanza o capacità letterarie)?
Un conto è fantozzianamente dire che Maus è “Una cagata pazzesca”, un altro che non meriti di stare in un museo. Sul fatto che un prodotto artistico debba stare in un museo per ottenere prestigio e che quella sia l’unica forma di vidimazione culturale possiamo anche discuterne ma è un dialogo che si muove in parallelo, non vi si sovrappone.
Perl, sul sito della rivista, ha ricevuto più di un insulto - e la stessa sorte toccherebbe all’ipotetico critico nostrano - ma ha avuto l’ardire di proporre degli spunti di dibattito che andrebbero raccolti e sviscerati. Si possono criticare i miti. È possibile, scovando le crepe sulla superficie intonsa di questi pilastri. Tuttavia, più imponente è la struttura, più è difficile farla crollare: vanno trovate prove a sostegno, prospettive che evidenzino punti di rottura; insomma, argomentazioni forti e sostenibili. E dire che Spiegelman non sa disegnare solo perché non imposta le tavole come McCay o perché “non offre nulla di bello da vedere” è tutto fuorché sostenibile.

“Il suo lavoro” prosegue “offre una versione aggiornata della zona di sicurezza middlebrow da club del libro: dove quest’ultima si produceva in un blando inchino ai classici dell’altra cultura, la nuova zona di sicurezza prevede un inchino altrettanto superficiale a un carrozzone di icone pop”. L’idea è che Perl miri ad abbassare la percezione di Maus a marmellata middlebrow (dove highbrow indica l’altamente sofisticato e il lowbrow il rozzo più becero; per intenderci, il prototipo di consumatore di prodotti culturali middlebrow è la cinquantenne di media borghesia che guarda Fazio il sabato sera e il lunedì è in libreria con la lista di libri da comprare) mentre da noi quel livello di sofisticazione è lungi dall’essere raggiunto. Perché per ora l’unica cosa che siamo riusciti a mettere sul tavolo è la sterile demarcazione tra fumetto e graphic novel - con la recente variante del graphic journalism, appiccicato random anche a opere molto poco d’inchiesta come gli ultimi Delisle; una demarcazione che ancora non è chiara. Il graphic novel è un genere, uno stile, una discriminante culturale? O è un’etichetta, un’essenza che i media generalisti spruzzano sul fumetto per rendere sopportabile quel fetore da cartone animato che emana?

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