Menu

Razzismo, problemi di memoria selettiva

Per tornare allo speciale, clicca qui.

rom

Un popolo sparso in tutta Europa da tempo immemore, secoli. È ovunque pur non avendo una casa propria, la sua è un’invasione subdola e silenziosa. Mai integrato con noi e con le nostre tradizioni, sempre separato e avvinghiato alle proprie usanze malsane. Un popolo di gente infida, portata per natura a truffare le persone per bene e approfittarsi dell’onesto lavoro altrui. Li riconosci al primo sguardo: hanno tutti quell’abbigliamento, tutti quegli stessi tratti somatici.
Per chi sono queste parole? Per i rom? O per gli ebrei? La verità è che sono state dette per gli uni e per gli altri, e non a caso entrambi questi popoli hanno subito lo stesso destino per decisione nazista e per mano europea. Il “problema” ebraico l’abbiamo tutto sommato espulso, mutandolo in buona sostanza in un problema palestinese, anche se l’antisemitismo rimane un abito buono per ogni stagione nel Vecchio Continente. I rom, invece, hanno avuto la discutibile sfortuna di non avere una rappresentanza sufficientemente nutrita nei campi di sterminio, finendo in ombra rispetto alla questione ebraica e dunque non imponendosi mai come una situazione da affrontare, né in ambito internazionale, né tantomeno europeo.

Ora perdonatemi se parlo in prima persona e la prendo larga, ma è necessario. Una cosa che non ho mai sopportato di tutta la discussione sullo sterminio nazista è la saltuaria e sottintesa volontà di risvegliare un senso di colpa. Non so se sia una cosa intenzionale o inconsapevole, ma in molta della retorica (in senso neutro) che circonda il discorso della memoria, il messaggio sottostante sembra spesso essere: “Non puoi odiare gli ebrei perché l’Europa gli ha fatto questo e quest’altro”. Messo in questi termini è un discorso assolutamente stupido. Prima di tutto, trattandosi di un imperativo, è intrinsecamente perfetto per suscitare reazioni uguali e contrarie. In secondo luogo circoscrive il problema antisemita a quei dodici anni di dominazione nazista, o tutt’al più partendo dal famoso “affaire Dreyfus”, elidendo completamente tutto ciò che è venuto prima, i secoli di persecuzioni, stragi e disumanità. Ma terzo, e ancor più grave, è proprio quel meccanismo vagamente ricattatorio che lega il senso di colpa verso gli ebrei a un senso di debito verso gli ebrei. Onestamente ritengo di non avere nessuna colpa nei confronti di tutte le generazioni di ebrei di cui l’Europa ha fatto scempio. Né d’altra parte mi sento in debito con loro, se non per un unico debito morale. Ma è qui il punto. Questo mio debito morale non dice “Non discriminare gli ebrei”: significherebbe non aver capito niente. Invece, il debito morale che sento nei confronti di ogni singolo ebreo marchiato è “Non discriminare nessuno”. Ecco perché il meccanismo del senso di colpa è letteralmente aberrante: perché, per paradosso, riporta tutta la questione a un punto di vista razziale, e in maniera implicita non mi fa vedere ogni singolo ebreo, morto o sopravvissuto, in quanto essere umano al pari di tutti, bensì appunto come un “ebreo” ancora ghettizzato, nuovamente portatore di uno status diverso da quello degli altri per via della sua appartenenza etnica. E questo si chiama razzismo.

Magari è banale, ma ritengo che capire questa cosa sia importante. Se questo discorso entrasse in maniera aperta nella retorica della memoria, forse questa ne uscirebbe davvero consapevole e soprattutto efficace. La lezione terribile che la ferocia nazista dovrebbe trasmettere non è una questione etnica, ma universale: e in fondo, a livello istituzionale la lezione è stata effettivamente incorporata nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti (non a caso universali) del secondo ‘900. Ma il problema di una retorica accomodata nell’abitudine della settorialità etnica è grave, perché infatti continuiamo a vedere come l’uguaglianza “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” sia un principio che cozza con i comportamenti quotidiani reali. A volte sembra che, celebrata la giornata della memoria, ci siamo lavati la coscienza a sufficienza da poter fare del nostro peggio nel resto dell’anno. E la vicenda del popolo rom è la testimonianza più oscena di quanto poco abbiamo imparato dalla nostra memoria.

Quella dei rom è una questione rimossa dalla scena pubblica, salvo quando torna utile sotto il profilo della cronaca e dell’emergenza. Ma che emergenza è una situazione che dura da decenni senza vedere mutamenti sostanziali? Sembra più probabile che questo modo di vedere le cose sia volutamente distorto, e che il problema non si voglia risolvere. Il libro di Alain Keler illustra in modo molto lucido questo stato di cose. È evidente che il problema delle comunità rom è prima di tutto sociale ed economico e andrebbe risolto in chiave politica. Non di certo con la repressione e l’ordine pubblico, né tantomeno appellandosi a fattori di matrice etnico-culturale. I rom vivono in condizioni di degrado perché non vogliono lavorare e preferiscono vivere in maniera parassitaria? Certo! E gli ebrei sono usurai. Ecco dove non funziona la memoria: sappiamo tutti che gli ebrei non sono usurai per natura. Ma lo sappiamo perché ce l’hanno insegnato nelle giornate della memoria, oppure perché l’abbiamo capito davvero? Perché se l’avessimo capito, sapremmo anche che i rom, al netto delle mele marce che troviamo ovunque, vogliono lavorare e vivere in condizioni materiali migliori, come tutti.

LePerilJuifDetto questo – ed ecco perché mi esprimo in prima persona – devo fare una confessione: io sono un razzista. Perché anche io, con tutti i bei discorsi che faccio, quando vedo un rom per strada ci penso a mettere le mani sul portafogli. È brutto, e me ne vergogno non poco, ma è così. Credo che il pregiudizio lo respiriamo di continuo, e che il nostro ambiente comunicativo sia intimamente razzista. Per certi versi è addirittura normale, e in un certo senso è anche uno dei meccanismi alla base del fumetto. Lo spiegava magnificamente Will Eisner (che del razzismo si è anche occupato nelle sue opere, vedi Il Complotto) quando descriveva il modo in cui il fumettista immagina, forma e disegna una storia: per essere capiti, bisogna rifarsi a esperienze condivise, cioè a dei comportamenti, delle azioni, delle estetiche tipiche, vale a dire degli stereotipi. Una comunicazione chiara deve insomma semplificare ricorrendo anche a espedienti come la caricatura e l’esagerazione del reale: in questo modo l’estrema complessità è ricondotta a schemi comprensibili a tutti grazie a pochi elementi riconoscibili. Così, se disegno un uomo con una lama tra i denti, i miei lettori sapranno che si tratta di un pirata, e la comunicazione fumettistica grazie a questa icona può dirsi riuscita. Il guaio, però, è che nel mondo concreto questo si chiama pregiudizio: letteralmente pre-giudizio, cioè un giudizio dato prima di conoscere la realtà effettiva dei fatti. Finché quell’uomo non mi dirà di essere un pirata, io potrò tutt’al più supporre che lo sia, ma non posso averne la certezza. Così, quel rom sarà un ladro solo se tenterà di derubarmi. In caso contrario, è più probabile che io sia un idiota, anche perché quel rom non aveva neanche “un coltello tra i denti”, ma si limitava a essere ciò che è: un essere umano.

Il punto, come si dice, è riconoscere di avere un problema, almeno se si intende affrontarlo. Prendiamo solo il più recente dei tanti casi occorsi negli ultimi anni, cioè il rogo contro l’insediamento rom a Torino agli inizi di dicembre. Riguardo quella vicenda, il sindaco Piero Fassino, insieme a un ampio coro, ebbe a dire che Torino non è una città razzista. Ah no? E come si definisce un gruppo di persone che rivolge la propria rabbia contro un intero gruppo solo perché, pare, due tra quelle decine di persone avrebbero fatto violenza “a uno dei loro”? E la facilità con cui hanno creduto all’accusa non è razzista? E la facilità con cui si è scelto di prendere nelle proprie mani la giustizia invece di rivolgersi alle autorità, come se si stesse andando ad ammazzare un branco di cani rabbiosi invece che delle famiglie? E ancor prima, quali concetti deve avere assorbito per anni dal suo ambiente di vita quella ragazza, per formulare come prima falsa accusa quella contro dei rom? Non è che, quasi istintivamente, si rendeva conto che quell’accusa avrebbe trovato un terreno fertilissimo per attecchire, perché “tutti sanno che i rom sono canaglie”? Queste persone vivevano nel vuoto o in quella città?

È evidente che viviamo in un ambiente in cui lo stereotipo razzista è profondamente radicato, tanto da essere assecondato da meccanismi mentali automatici. E il fatto che in quella situazione sia esploso in maniera più violenta e palese, non significa che quello stesso modo di pensare non sia ben più diffuso, anche se poi non è da tutti la demenza di passare all’azione come è accaduto lì.
Ecco perché, magari, sarebbe meglio riconoscere che noi, così come la comunità in cui viviamo, abbiamo un serio problema di razzismo. Ogni giorno. L’autoindulgenza non porta da nessuna parte, e per capirlo basta guardare cosa siamo riusciti a fare a quegli esseri umani incidentalmente chiamati ebrei. E magari metterlo a confronto con ciò che stiamo facendo a quelli chiamati rom. Il buon uso della memoria è tutto lì.

Torna in alto