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Speciale Sin City

a cura di Giorgio Venturati

La guida turistica

Se state leggendo queste righe, è probabile che conosciate già piuttosto bene i vicoli di Sin City.
Vi siete già nascosti nelle sue ombre, il sangue di qualche teppista sfigato è già schizzato sul vostro viso ed avete già respirato il profumo seducente delle donne di Old Town.
Se invece questa è la vostra prima visita qui, ci sono soltanto alcune cose che dovete sapere, prima di mettervi in viaggio. Il resto è giusto che lo scopriate da voi, sfogliando sullo schermo le storie dicrome della Città del Peccato e prestando ascolto alle voci roche dei loro protagonisti.
Un killer senza nome, che uccide semplicemente perché una donna l’ha pagato per farlo e, come recita il titolo italiano dell’episodio ispiratore, “Il cliente ha sempre ragione”.
Un bestione dal cervello in pappa ed il grugno stilizzato, che uccide perché l’unica donna che abbia mai dato un senso alla sua vita viene assassinata mentre dorme accanto a lui.
Un ex-fotografo ricercato che dovrebbe star lontano dai guai e che invece uccide perché le prostitute di Sin City possano continuare ad esercitare il mestiere più vecchio del mondo senza essere massacrate in un bagno di sangue.
Un poliziotto dal cuore a pezzi (in tutti i sensi), che uccide perché una bambina possa crescere senza essere stuprata ed uccisa da un intoccabile bastardo.
A Sin City, gli uomini (i duri) uccidono per le donne (le pupe).
E’ romanticamente maschilista, o forse grossolanamente femminista, fate voi. E’, in ogni caso, molto semplice, almeno quanto il contrasto tra il bianco e il nero.


La messa in scena
Dal punto di vista prettamente visivo, il film si conferma un capolavoro.
Rodriguez pianta la sua bandiera un miglio più in là rispetto agli standard di regia attuali e aspetta che il mondo del cinema lo raggiunga, lo studi ed infine lo replichi.
In Sin City, il computer assolve la stessa funzione svolta, nei film di cinquant’anni fa, dai fondali disegnati e dalle vecchie scenografie di cartone. Gli attori sono posti al centro di un palcoscenico vuoto, costretti a fare esclusivo ricorso alla propria capacità di finzione e d’immedesimazione, obbligati ad offrire (e a mettere a nudo) ogni dote recitativa e direttamente coinvolti nel quotidiano processo di pura creazione. Un riferimento (una porta, una finestra, un volante), e nulla più. Nessuno degli spazi bianchi e neri in cui entrano ed escono i protagonisti è reale (se si eccettua l’interno del Kadie’s) e, nonostante tutto, la coordinazione dei movimenti risulta semplicemente perfetta.
Il ruolo della tecnica digitale è ormai sovvertito: non le si chiede più di inserire elementi fittizi in un contesto reale, ma di creare, al contrario, un contesto (reale e fittizio al tempo stesso) al quale sovrapporre gli attori quali unici elementi materiali indispensabili.
Non è sbagliato sostenere che ci si trovi al cospetto di una vera e propria evoluzione in codice binario dell’espressionismo. Forse il cerchio si sta chiudendo ed è ora che il cinema ricominci da dove è partito, risorgendo da nuove ceneri fatte di pixel.


La fedeltà al fumetto

L’aderenza all’opera originale di Frank Miller è assoluta, nel bene e nel male.
Le inquadrature riprendono nel minimo dettaglio la composizione delle vignette, per il sublime appagamento dei fan del fumetto. Basta pensare alle scorribande di Marv in cerca di informazioni, al volo di Miho sul tetto della macchina di Jackie Boy o alla prima apparizione del Bastardo Giallo.
In alcune circostanze si ha addirittura la sensazione che lo schermo amplifichi la suggestività di certe tavole, come in occasione del lungo primo piano insistito sul viso di Dwight, mentre tiene la testa di Jackie Boy nel water. Quattro pagine che, se possono essere sfogliate distrattamente su carta, riacquistano su schermo tutta la loro silenziosa potenza.
Anche i momenti più crudi trovano la stessa edulcorazione cartoonistica del fumetto: mentre il sangue che schizza da fuori campo all’interno dell’inquadratura (quale mera conseguenza di una violenza che non vediamo) è rosso, liquido e realistico, ogni qualvolta sullo schermo la morte viene inscenata contestualmente alla sua causa, il sangue diviene bianco, denso e grottesco come quello disegnato (si pensi alla mano mozzata di Jackie Boy, o alla canna di pistola che gli si conficca nella fronte), e gli attori vengono trasformati in silhouette bianche, in grado di neutralizzare la brutalità di ciò che mimano (il suicidio di Hartigan).
Gli inserti di colore, sebbene più frequenti rispetto all’originale, sono comunque ispirati dalla medesima poetica del fumetto, portando spesso in evidenza quei dettagli femminili, seducenti e magnetici, che fanno da presagio e da motore alla violenza maschile: gli occhi della donna sul balcone, durante il prologo, si tingono di vita per un istante prima di essere chiusi per sempre; l’azzurro glaciale degli occhi di Becky anticipa l’abbuffata di morte che sta per scatenarsi su Jackie Boy e la sua gang, mentre la luce emanata dai capelli e dalla pelle di Goldie illumina la schermo con un candore celestiale di breve durata, di cui Marv può tornare a godere solo al compimento del suo percorso di vendetta.


Gli interpreti

Nonostante la strumentalità dei loro volti e delle loro performances, gli attori di Sin City riescono ad infondere un’anima ai propri personaggi, regalando (globalmente) prove di ottima recitazione.
C’era il rischio concreto che l’entusiasmante operazione di casting potesse risolversi in una vacua ricerca dell’impersonificazione fine a sé stessa, destinata a soddisfare soltanto il piacere estetico della rassomiglianza e a precludere ogni prospettiva di reale interpretazione.
Il risultato finale, al contrario, appare particolarmente apprezzabile: pur nella totale aderenza visiva e letterale alle caratterizzazioni del fumetto originale, è possibile cogliere il sottile contributo di ogni attore alla materializzazione del proprio personaggio.
Mickey Rourke è Marv, letteralmente. I suoi occhi, l’unica cosa che veramente gli appartiene in quel muso deforme, tradiscono la spontaneità di chi sembra semplicemente recitare se stesso.
Clive Owen è, probabilmente, la sorpresa più piacevole: senza tradire l’essenza estetica di Dwight, riesce a corredare il proprio character di una espressività nuova ed ulteriore rispetto all’intrinseca staticità del fumetto. E ciò vale a renderlo uno dei personaggi del film più accattivanti in assoluto. I suoi sguardi e la sua mimica accompagnano il fluire dei suoi monologhi con perfetta complementarietà, seducendo lo spettatore grazie ad alcune sequenze indimenticabili (una per tutte, la conversazione surreale in auto in compagnia di Benicio Del Toro).
Un altro plauso speciale lo merita proprio l’interprete dell’odioso Jackie Boy, personaggio non memorabile nel fumetto (almeno sino alla sua morte), trasformato qui in un viscido perdente, reso arrogante solo dal proprio distintivo. Il make up apre gli occhi normalmente fatti ed assonnati di Del Toro, per dare risalto a due pupille nere e imprevedibili come quelle di un squalo disorientato dalla cattività.
Indecifrabile, invece, la prova di Bruce Willis: il suo Hartigan appare monocorde, stanco e privo di vitalità (come richiesto dalla parte), ma a tratti si ha come l’impressione che a soffrire dei medesimi difetti sia la sua stessa recitazione. Si tratta certamente di un’interpretazione meno appariscente delle altre, più contrita ed introflessa, ed è per questo che non deve essere fraintesa, meritando l’approfondimento di una seconda visione in grado di renderle (eventualmente) giustizia.
Tra gli altri interpreti maschili, spicca la breve apparizione di un invecchiatissimo Rutger Hauer, capace di offrire un intenso Cardinale Roark, mentre scorre via senza lasciare particolari tracce l’esibizione di Michael Clarke Duncan nel ruolo dell’armadio Manute.
Colpiscono nel segno i due veri villains del film: Kevin il cannibale, sinuosamente interpretato da Elijah Wood, ma soprattutto il Bastardo Giallo, il cui fisico ripugnante viene perfettamente rimodellato sul corpo e sul viso di Nick Stahl.
Se al primo bastano pochi sguardi per incutere un freddo e sgradevole senso di disagio, grazie al bianco accecante delle sue lenti o all’azzurro asettico dei suoi occhi inumani, il secondo impone la sua presenza aberrante come fosse una massa putrescente, disturbando la vista dello spettatore con un giallo malsano capace di corrompere la purezza ed il rigore del bianco e del nero. Si ha quasi la sensazione che quella pelle e quel sangue denso puzzino davvero di marcio, ammorbando la sala cinematografica.
Sul fronte femminile, l’interpretazione più efficace è sicuramente quella di Rosario Dawson, che si aggira per i vicoli e sui tetti della città come una pantera seducente e pericolosa, con un sorriso bianco e feroce da mettere soggezione.
La bella Brittany Murphy spalanca gli occhioni da cerbiatta e stropiccia le labbra con fare sensuale, aggiungendo interesse e simpatia ad un personaggio (la cameriera Shellie) poco più che comprimario.
Probabilmente un po’ sprecata la bellezza di Jessica Alba, sulla cui esibizioni al Kadie’s ci si sofferma forse troppo poco per permetterle di conquistare la scena e di togliere completamente il fiato al cliente/spettatore.
Perfettamente aderenti ai loro personaggi la Goldie/Wendy di Jaime King e la Lucille di Carla Cugino, mentre stupisce l’interpretazione di Alexis Bledel, che, grazie ai bellissimi occhi blu con cui attira in trappola Benicio Del Toro, riesce ad esaltare l’espressività della Becky fumettistica (si veda, ad esempio, lo sguardo di finta sorpresa e di compassione con la quale guarda Jackie Boy estrarre la propria pistola).


La regia

Nonostante la compresenza di Frank Miller dietro la camera digitale, e nonostante la dichiarata volontà di Robert Rodriguez di limitarsi a realizzare un’ossequiosa traduzione dell’opera originale, sarebbe ingiusto e limitativo affermare che il regista tex-mex abbia messo da parte per l’occasione ogni traccia del proprio stile, sacrificandola in nome del suo stesso rigore.
Tanto più che si rivela quanto mai difficile ricondurre forzatamente i suoi precedenti lavori ad un unico, ben definito, stile. Ciò che accomuna El Mariachi, C’era una volta in Messico e Spy Kids, infatti, non è tanto un particolare movimento di camera o un determinato uso del montaggio: ciò che li lega è il gusto per la sperimentazione totale, la tensione pionieristica verso la scoperta di nuovi modi di fare cinema, l’uso creativo dei mezzi a propria disposizione.
Benchè Sin City sia senza dubbio la sua opera meno personale, e che meno lo ha impegnato nel processo creativo iniziale, Rodriguez non si lascia imprigionare dalla meccanica della clonazione e riesce ad intridere tutto il film con il proprio talento e la propria versatilità, dimostrando per l’ennesima volta di essere molto di più che un semplice director di attori.
La traduzione cinematografica di Sin City, per come è stata concepita e realizzata, rappresenta, semmai, l’apoteosi di Rodriguez come film maker a tutto tondo. Nessun altro regista al mondo sarebbe stato in grado di produrre questo film. Forse qualcun altro avrebbe tratto dal fumetto di Miller uno script più compatto, ricavandone un ottimo adattamento. Ma non sarebbe giunto a questo risultato. Il Sin City “di Frank Miller” è, in realtà, figlio altrettanto legittimo del genio di Rodriguez, rappresentandone allo stesso tempo la gloriosa coronazione ed il supremo banco di prova. Le conoscenze e le invenzioni accumulate nei dieci anni di una carriera votata alla costante ricerca sono qui integralmente messe al servizio della storia da raccontare; vengono esaltate dalla loro applicazione sempre funzionale e mai gratuita.
Degno di nota il piccolo contributo di Quentin Tarantino, nella scena (incidentalmente tra le migliori) in cui Dwight conversa col cadavere di Jackie Boy. C’è un certo non so che, nelle luci, nelle riprese e in un paio di zoom in primo piano, che lascia trasparire la presenza di un’altra mano esperta sulla camera. Un bel segno di personalità, per cinque minuti fissi su due passeggeri di un’auto.


I difetti

Un’opera sperimentale non può essere esente da imperfezioni e Sin City non fa eccezioni.
Se, dal punto di vista prettamente visivo, i movimenti degli attori all’interno delle inquadrature non sembrano in alcun modo essere ingabbiati dalla riproposizione pedissequa della costruzione delle vignette, è la scansione ritmica delle stesse a riflettersi, a tratti, sul buon andamento del film, imponendogli accelerazioni che possono apparire stonate e disarmoniche.
Un altro elemento che condiziona (forse in maniera più evidente) il ritmo della narrazione è costituito dalla presenza dei lunghi monologhi fuori campo recitati dai quattro protagonisti maschili, nella maggior parte dei casi ripresi in forma integrale dalle pagine dei fumetti. Se quella prosa secca ed evocativa funziona perfettamente alla lettura, vi sono sequenze (benché non frequenti) in cui il film risulta eccessivamente appesantito da un fluire di pensieri ridondante e tedioso, mentre la camera indugia troppo a lungo su certe inquadrature, magari al solo scopo di consentire all’Io narrante di terminare la propria frase.
E’ certo il ritmo, nella sua irregolarità, ad essere il vero punto debole di Sin City (ma non lo è forse in tutti i film di Rodriguez?). Anche il montaggio, che pure avrebbe potuto soccorrere, si rivela inefficace: laddove ci si sarebbe potuti aspettare (anche sulla base delle dichiarazioni degli autori) un più auspicabile intersecarsi delle tre storie, capace di tenere costantemente sollecitato l’interesse dello spettatore, ci si ritrova invece con una costruzione ad episodi assai canonica, in cui la tensione è costretta a seguire una andamento sinusoidale anziché parabolico. Manca, in ogni caso, la circolarità d’insieme di Pulp Fiction, nonostante il tentativo scoperto (e non particolarmente riuscito) di chiudere il film con il ritorno del killer iniziale, nell’unica scena originale scritta appositamente per l’occasione.


Giorgio Venturati


Francesco Farru
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