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Emanuele Amato

Emanuele Amato

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Justice League VS Suicide Squad, la recensione di Justice League America 1-2

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Fra le nuove proposte della RW Lion legate al progetto Rinascita della DC Comics troviamo Justice League America. Questo nuovo spillato mensile porta ai lettori la seconda formazione della Justice League, qui ancora non apparsa, dando spazio prima ad un prequel che da solo può essere definito un mini evento: Justice League Vs Suicide Squad. Chi non vorrebbe vedere cosa succede se mettessimo il team di supereroi più forti al mondo contro il più spietato gruppo di supercriminali in circolazione? Oltre alla serie già citata, troviamo gli esordi di un’altra formazione di giovani eroi: i Teen Titans. 

Il primo albo è composto dalle prime due parti di JL vs SS scritte da Joshua Williamson, già autore di The Flash. La storia ha inizio quando la Justice League scopre dell'esistenza della Suicide Squad e Batman decide che la Task Force X di Amanda Waller è inutile in un mondo in cui già esiste la JL. Ma lo scontro tra i gruppi verrà messo in secondo piano quando entrambi combatteranno un misterioso nemico comune. La sceneggiatura è fresca e dinamica e lascia poco spazio, nel primo capitolo, a momenti intimisti e di riflessione per sottolineare il più possibile la scia che ha deciso di intraprendere: l’azione pura. I botta e risposta tra i due team sono tanti e funzionano bene, soprattutto perché evidenziano le differenze morali e caratteriali dei singoli personaggi.
Ai disegni del primo capitolo troviamo Jason Fabok che fa risaltare bene le dinamiche cinematografiche create da Williamson. Tratto muscolare e preciso che dona la giusta espressività emotività e forza alle inquadrature, evidenziando molto la regia dinamica dello sceneggiatore. Il secondo capitolo è affidato a Tony S. Daniel il cui tratto non differisce molto da quello precedente, se non in pulizia di linea, e continua la scia presa da Fabok.
I colori sia della prima che della seconda parte sono di Alex Sinclair che amalgama bene le somiglianze dei due disegnatori e minimizza le differenze del loro tratto in maniera perfetta.

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Il secondo albo vede alla sceneggiatura di JL vs SS sempre Williamson ma con un team di disegnatori differenti. La terza parte della run, cioè il primo capitolo del numero, abbassa l’adrenalina e il ritmo per descrivere al meglio la situazione e fornire maggiori chiarimenti su quanto accade. L’autore introduce in maniera dinamica ed esaustiva personaggi gloriosi della DC pre New 52, non appesantendo la narrazione per chi già conosce questi villain e potrebbe storcere il naso per una qualche ridondanza del racconto. Nel quarto capitolo Williamson rimette il piede sull’acceleratore, regalandoci un’altra epica scazzottata tra un’inedita fazione della JL (questa volta aiutata dalla SS) versus la prima Suicide Squad creata dalla Waller. Tutta questa parte si legge d’un fiato, arrivando alla tavola finale che non può non far presagire guai molto grossi su scala mondiale.

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Anche in questo caso le tavole dei due artisti che si succedono presentano un tratto similare così da non staccare troppo la percezione visiva delle tavole durante la lettura. La prima storia è disegnata da Jesus Merino, già disegnatore di alcuni capitoli della nuova serie su John Constantine, The Hellblazer: rinascita e copertinista di alcuni numeri di Wonder Woman. Fernando Pasarin invece è alle matite della seconda storia. Stesso lavoro fatto in precedenza di amalgamazione è sempre affidato all’ottimo Alex Sinclair che aggiunge ulteriore scorrevolezza alla lettura.

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Passiamo ora ai Giovani Titani, sceneggiati da Benjamin Percy, noto in casa DC per Green Arrow. L’autore dedica una ricca fetta del capitolo all’introduzione dei personaggi e alle loro vite dopo la scomparsa di Tim Drake dal gruppo e, anche nel secondo albo, la narrazione prende un respiro per descrivere la situazione attuale e la futura prospettiva del team. Le matite sono ad opera di Jonboy Meyers, artista che non nasconde influenze orientali. La narrazione è dinamica e molto fluida, pensata per un target più ampio, oltre ai fedelissimi di casa DC, ovvero un pubblico giovane che magari è alle prime armi con i fumetti supereroistici. Il duo creativo è molto in sinergia rendendo questo nuovo progetto di Rinascita, pur essendo una serie ombrello, davvero interessante.

I primi due albi di Justice League America quindi lasciano solo intravedere il potenziale della testata, ma risultando godibili e ben strutturati. Essendo un progetto ambizioso devono ancora superare la prova del nove, non avendo ancora introdotto quella che sarà la reale core story della serie, ovvero vedere la seconda Lega della Giustizia in azione.

La fantascienza retro' dei Blasteroid Brothers, la recensione di The Shadow Planet

Non dovevamo atterrare su questo maledetto pianeta, questo è sicuro. (Brett)
(AlienRidely Scott, 1979)

Nato in sordina, The Shadow Planet, titolo dei Blasteroid Brothers, è un’avventura fantascientifica dal retrogusto horror che travalica il medium fumetto, per divenire presto anche una pellicola cinematografica. L’idea nasce dalla mente di Johnny Blasteroid, aka Gianluca Pagliarani e James Blasteroid, aka Giovanni Barbieri a quali si aggiunge, poco dopo, Alan D’amico aka Junior. Poco dopo aver creato la pagina Facebook e aver mostrato i primi disegni e trailer, Matteo Casali e Alessandro Apreda di Radium intraprendono l’avventura spaziale dando vita al crowfunding del progetto nell’aprile del 2016. The Shadow Planet finisce di conseguenza sotto l’ala protettrice della Saldapress che pubblica le opere della Radium (Quebrada, Rim City, etc.).

La storia è semplice e a un primo sguardo potrebbe anche sembrare banale se non fosse che il richiamo voluto a un certo cinema horror fantascientifico è forte e dichiarato. Si sente l’eco di Alien così come Il Pianeta Proibito fino a capolavori d’altri tempi come Solaris.
Il tutto parte da una richiesta di aiuto da parte di una navicella, E/Rico, su di un pianeta disabitato chiamato Gliese667. La navicella risulta distrutta 30 anni prima ma bypassare la richiesta di soccorso è considerato reato. Il comandate della nave spaziale, Jenna Scott, decide di atterrare con l’equipaggio e verificare il segnale di SOS. Da lì iniziano una serie di eventi che porteranno il lettore a sobbalzare più volte fino al finale, aperto, che lascia presagire un futuro sequel (o almeno si spera).

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Il ritmo è dinamico e la scrittura pulita e lineare. Giovanni Barbieri (James) alterna sequenze ritmate a momenti di respiro che durano il giusto necessario prima di catapultare il lettore nella prossima sequenza perdifiato. La prima parte può essere definita più lenta o preparatoria, con un ritmo che tende a salire, facendo presagire un cambio di registro nella seconda. Infatti. quando Vargo inizia a comprendere la situazione, la narrazione acquista velocità con le scene d'azione che prendono sopravvento rispetto a quelle più introspettive. La caratterizzazione dei personaggi è solida, alcuni hanno una luce diversa dagli altri, come il sergente John Vargo, il comandante Jenna e il tenente Nikke Larsson che vengono ispezionati in maniera più profonda rispetto agli altri che fanno da contorno. La scelta è funzionale al tipo di narrazione utilizzata rendendo più smilza la struttura della storia. Tutti gli attori in campo hanno in comune un certo immaginario che per alcuni è definito archetipico ma in realtà è solo associativo di una cinematografia ormai consolidata del genere fantascientifico.

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I disegni affidati a Gianluca Pagliarani (Johnny) si avvalgono di un tratto dinamico e preciso che gioca molto sugli ambienti. Le parti splatter richiamano alla mente alcune produzioni di Shintaro Kago o più in generale il genere “Ero Guro”. Lo storyboard è ricostruito tridimensionalmente per dare la giusta dose di realismo ambientale. Molti attrezzi utilizzati sulla navicella sono stati progettati insieme ad un team chiamato “Ingegneri Spaziali”, proprio per non dare nulla per scontato.
Ai colori abbiamo Alan D’Amico che fa un ottimo lavoro con le sue tonalità pastello. La particolarità dell’illuminazione di Gliese667 da parte dei due soli è impressionante. Le ombre sono messe al minimo risaltando l’estraneità del pianeta.

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The Shadow Planet è un prodotto dichiaratamente retro' che però trova un suo spazio narrativo fertile e incolto in Italia. Attinge da H.P. Lovecraft e Ridley Scott e ne crea qualcosa di unico e prezioso con una regia che sembra uscita da maestri come Mario Bava e John Carpenter.
La Saldapress per l’opera ha creato tre tipi di formato: uno brossurato da 96 pagine, uno cartonato con extra (sceneggiatura e illustrazioni di vari autori) da 128 pagine e un ultimo cartonato esclusivo numerato e firmato di gran pregio. Tutte e tre le edizioni sono molto ben curate e per le tasche di ogni lettore.

L'ironia oscura di Pablo Cammello, la recensione di Tumorama

“Le parodie e le caricature sono le critiche più acute”.
(Aldous Huxley)

Il mondo è diventato così serio che l’umorismo è una professione rischiosa.
(berlich, #charliehebdo)

Tumorama di Pablo Cammello è un altro esempio di opera nata in versione digitale, sulle pagine de Lo Spazio Bianco, che è migrata poi sulla carta, prima sotto forma di autoproduzione per poi passare a Shockdom. Il fumetto in questione è un progetto molto particolare e dall’ironia oscura che ti strappa spesso un sorriso, ma allo stesso tempo ti getta in situazioni dove non puoi che porti domande esistenziali.

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Il volume segue le vicende di Tumorboy, l’amico Rubens e il loro cane plurilaureato Plutarco (che ha però un po’ di problemi con l’italiano) fra droghe, apatia e situazioni grottesche e surreali. Strutturato in 12 capitoli autoconclusivi, l’opera ha un fil-rouge che sembra inesistente ma che man mano che la narrazione avanza sembra palesarsi quasi impercettibilmente, grazie a una trama orizzontale ben orchestrata e nascosta che a una seconda lettura si rivela essere chiara, fino alla conclusione dell’ultimo capitolo spiazzante. Perché spiazzante?
Dopo capitoli metanarrativi in cui l’autore stesso è presente, divenendo una comic-star grazie alla storia del suo vicino Tumorboy, scene in cui aleggia una presenza misteriosa che si rivolge a Cammello, l’ultimo para ne raccoglie gli indizi e sparge una nuova visione dell’opera. Una visione in cui tutto è collegato ed è meno divertente di ciò che sembra. Quel divertimento è stato un diversivo per nasconderci la triste verità celata.
L’influenza di Rick and Morty, serie animata statunitense creata da Justin Roiland e Dan Harmon si sente, soprattutto per stile narrativo: episodi che nascondono un’orizzontalità di trama in cui gli elementi ai lettori non erano ancora sufficienti per comprenderli. Il dodicesimo capitolo diviene un punto di rottura e di scoperta. Stesso meccanismo utilizzando anche dal famosissimo Adventure Time. Cammello insomma tesse una trappola narrativa, un’intelaiatura apparentemente semplice che apre una verità finale: cosa mi sono perso? Cosa non ho visto? Così che una rilettura “post scoperta” cambia considerevolmente la chiave di interpretazione.

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Anche l’apparato illustrativo rispecchia l’evoluzione narrativa dell’autore. Un tratto volutamente grottesco e surreale che man mano acquista lucidità con il passare dei capitoli. Si parte da un approccio molto cartoonesco e dal tratto sporco per arrivare ad uno stile completamente personale e più maturo e anticonvenzionale che pochi autori nel panorama italiano hanno. Meno crudo e pulsionale di AkaB, Cammello ricerca  in questo viaggio il suo linguaggio personale.

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Tumorama non è un fumetto per tutti, ciò non significa che non può essere apprezzato, tuttavia il titolo potrebbe trarre in inganno dando l’impressione di un contenuto più leggero, nascondendo invece un'opera più complessa di quella che appare. Ma forse non era ciò che l’autore cercava?
Shockdom insomma riesce nuovamente a prendere nel suo bouquet di titoli un fenomeno web dall’alto contenuto simbolico/stilistico, facendo constatare che c’è una forte presenza di autori degni di nota che si nascondono nel web. Autori che hanno molto da dire.

Memorie dal sottosuolo, la recensione di Plume di AkaB

Ci sono… cose che un uomo ha paura di dire anche a se stesso, ed ogni uomo decente ha un certo numero di queste cose nascoste nella sua mente.
(Fëdor Dostoevskij)

Porto in me un individuo irrivelato. Mi conosce, ma non so niente di lui, eccetto che la mia persona è la sua ombra con i suoi appetiti inconfessabili e il suo bisogno di segreto.
(Joë Bousquet)

Durante Napoli Comicon 2017 la Douglas edizioni ha presentato un’antologia di racconti brevi del visionario AkaB dal titolo Plume che raccoglie lavori già noti e due inediti: "Niente da bruciare” e “Se”.
I lavori di AkaB sono sempre di matrice introspettiva e questa opera non è da meno. Le tematiche affrontate dall’artista sono introdotte in maniera egregia da Marco Taddei in una splendida prefazione. La celebrazione della vita avviene attraverso quella della morte, così come la bestemmia è essa stessa una preghiera disperata di chi cerca aiuto nel divino, non sapendo più a chi affidarsi. Un velo di disillusione e tristezza copre una forte rabbia che viene ritrovata in maniere più o meno manifesta in ogni storia. Dalla religione alla violenza, dal sesso alla solitudine, ogni storia ha in se i semi rabbiosi che faticano ad esprimersi se non in maniera sublimata dell’arte. Akab è un modellatore di pathos grazie ad uno storytelling non lineare perlopiù, con dialoghi criptici in alcune storie e immagini ermetiche, che creano una sensazione di angoscia che punta dritta alle emozioni più nascoste.

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Il tipo di narrazione utilizzato dall’autore, come detto poco più su, differisce da storia a storia. L'esempio più forte è "Aquarietto", con tavole prettamente visive, con assenza di didascalie e senza nessun dialogo. Solo tramite le immagini di una vaschetta con un pesciolino che nuota avanti e indietro, racconta lo scorrere del tempo e della vita in stato di reclusione. La monotonia, la ripetizione e la solitudine sono una delle chiavi interpretative, dove si aggiungono forti e spietate quelle della vita e della morte.

Il linguaggio però è un tema importante per AkaB. Il racconto "Abaddon", in cui si parla della fine del mondo e di pulsioni sessuali, è ambientato in uno studio psicologico. Il protagonista non ama le frasi fatte ma nel linguaggio comune ormai quasi tutto quello che diciamo lo sembra. Molte volte capita che dobbiamo sottolineare che è il nostro reale pensiero, al di là dell’espressione linguistica di uso comune. L’autore quindi crea un meta discorso sulla linguistica in poche battute, lasciando il lettore in pieno flusso di coscienza.

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AkaB parla di pulsioni  e si rivolge direttamente ad esse. Pulsioni sessuali, pulsioni di morte, pulsioni di vita ma le mescola in una narrazione sempre nuova, dai toni angoscianti. Il linguaggio è ricercato ma sempre diretto. L’uso di metafore è utilizzato in alcuni casi in modo opposto alle immagini associate così da creare un’allegoria visivo/linguistica che in alcuni casi risulta una nera ironia sul tema. Esempio lampante è la storia “Era de Maggio”, dove il suo tratto angosciante e distorto rappresenta una realtà completamente opposta al testo della poesia di Salvatore di Giacomo, resa nota dall’adattamento musicale di Mario Pasquale Costa.

Non manca la religione tra gli argomenti trattati. Due in particolare hanno come focus il credo e l’istituzione religiosa con i suoi paradossi. “Plume – Untitled” e “Il Cristo di Carne” sono due storie opposte per tematica e per concettualizzazione. La prima è un discorso sulla contrapposizione tra la razionalità e la fede che si evolve in una riflessione sul viaggio verso noi stessi. L’ultima vignetta riassume la volontà di scelta con il bambino che mangia la mela (simbolo del peccato originale ma fondamentalmente della volontà di libero arbitrio). La seconda invece riflette lo sfruttamento della religione sia in senso commerciale che ideologico/interpretativo. La figura del cristo in croce come simbolo/icona/gadget potente che piace alle persone e che rappresenta la sofferenza verso di noi per noi. Mentre a noi cosa importa realmente?

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Altro filo conduttore di alcune storie è la solitudine. Stesso discorso di “Era de maggio”, Akab crea come un moodbord di un videoclip della famosa canzone “Are you lonesome Tonight” di Roy Turk. Il senso di isolamento si evolve vignetta dopo vignetta e tavola dopo tavola fino ad un epilogo spiazzante dove il verso finale “Dimmi cara, ti senti sola stasera?” anche in questo caso è in netta contrapposizione con l’apparato visivo e visionario. “Apocalypse pending” è una solitudine oscura di un uomo che vuole andar via. In attesa del treno che non arriva, riflette sul viaggio e sulla sua vita. Dove andare? Forse l’ultima vignetta è illuminante ma si scenderebbe in questo caso forse in una forma interpretativa che il maestro Umberto Eco definirebbe “Intentio Lectoris” aprendo quindi mondi interi su cui disquisire.

L’apparato visivo è diverso da storia a storia, ricoprendo infatti quasi 17 anni di lavori. Resta inconfondibile lo stile decadente che persiste al tempo.
Un titolo da avere assolutamente per profondità e per stile. Personale e diretto, a volte da qualcuno criticato, ma che non è mai sceso a compromessi perché rispecchia l’espressione e la creatività dell’autore pura e cruda.

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