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Luca Tomassini

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Ice Cream Man 1 - Zuccherini Arcobaleno, recensione: i gusti del terrore

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Sottogenere di un genere, l’antologia di racconti è un classico della letteratura horror e di quella fantastica. Basti pensare a raccolte come Stagioni Diverse del maestro del brivido Stephen King, o a serie televisive che hanno popolato l’immaginario di diverse generazioni, spaventandole a dovere, come Ai Confini della Realtà o Storie Incredibili. Il discorso potrebbe essere esteso ad una pellicola come Creepshow di George Romero, che era a sua volta un omaggio ai fumetti horror anni ’50 della EC Comics, popolati da sinistri anfitrioni come lo Zio Tibia che introducevano il lettore a storie traboccanti di suspense e terrore da cui traevano poi una morale. È sul solco di questi illustri predecessori che si inserisce Ice Cream Man, serie scritta da W. Maxwell Prince e disegnata da Martin Morazzo per la Image Comics, di cui Panini Comics ha appena pubblicato per il nostro paese il primo volume.

Il gelataio del titolo è un uomo all’apparenza tranquillo e rassicurante, che gira per la piccola cittadina di St. Generous col suo camioncino pieno di prelibatezze. Il tipo è in realtà un parente prossimo di Pennywise, il clown protagonista dell'It di Stephen King, capace di gettare in un abisso di orrore i malcapitati che incrociano i suoi passo, magari ingolositi da un buon gelato.

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Come nelle più classiche delle antologie horror, le storie di Ice Cream Man presentano protagonisti diversi, focalizzandosi di volta in volta su tematiche differenti. Si comincia con la storia di un adolescente problematico e del suo rapporto con un “cucciolo” speciale, un latore di morte in miniatura; si prosegue con la triste storia di una coppia di tossicodipendenti, capaci di spingersi alle estreme conseguenze per amore e per una dose; facciamo poi la conoscenza di una vecchia rockstar dimenticata ormai in pensione, autore di un unico grande successo che non è mai riuscito a replicare. L’ispirazione per un nuovo ed insperato successo potrebbe arrivare da un trip lisergico da incubo indotto dall’uomo dei gelati. Chiude il volume la dolorosa ma macabra vicenda di un uomo che vuole riappacificarsi col figlio abbandonato da bambino: peccato che quest’ultimo sia ormai defunto.

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Ice Cream Man contiene molti degli stereotipi presenti nei modelli sopracitati. C’è una cittadina di provincia, come nei romanzi di King, che sembra tranquilla e rassicurante ad un primo sguardo: in realtà è la culla di indicibili orrori. W. Maxwell Prince è abile nel mettere in scena la quiete della vita suburbana, che scivola improvvisamente verso l’abominio più insostenibile. È un contrasto che costituisce la carta vincente del volume, resa perfettamente dalle soluzioni grafiche ideate da Martin Morazzo. Il cartoonist, considerata la natura dello script di Prince, potrebbe optare per una resa visiva composta da ombre e tratteggi. Al contrario, si affida ad una linea chiara arricchita da colori omogenei che fanno da contrasto alla scene più terrorizzanti ideate dallo scrittore. L’orrore viene sbattuto in faccia al lettore senza troppi fronzoli, illuminato dai colori vivaci di Chris O’Halloran. Una scelta stilistica coraggiosa, inusuale per un horror, che rappresenta una scommessa vinta.

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Il volume si conclude con un twist di sceneggiatura che sembra suggerire un ruolo di maggior spessore del sinistro gelataio rispetto a quello di semplice anfitrione: nel corso dei quattro capitoli, Prince lo caratterizza prima come amico e poi come nemico mortale, come entità benevola e come demonio subito dopo. C’è da scommettere che la scoperta della vera natura di questo Ice Cream Man costituirà il piatto forte delle prossime uscite.

Question: Le morti di Vic Sage #1, recensione: Ritorno ad Hub City

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La storia della cultura pop è attraversata da esempi di collaborazioni irripetibili tra creativi geniali che, dopo aver sfornato capolavori, si sono separati in modo traumatico e astioso. L’esempio più celebre è quello della rottura tra Stan Lee e Jack Kirby, responsabili, grazie alla loro alchimia creativa, della nascita dell’universo Marvel. Ma Kirby non fu l’unica figura rilevante della Marvel degli esordi ad entrare in rotta di collisione con Lee: il rapporto del sorridente con Steve Ditko, disegnatore nonché co-creatore di Spider-Man, non fu meno turbolento. Dopo anni di divergenze creative, il punto di non ritorno arrivò nel 1966, quando Ditko lasciò Amazing Spider-Man e la Marvel. A dividerlo da Lee, oltre a scelte non condivise sugli sviluppi narrativi e sul tono da imprimere alla testata, anche una differente visione della vita. Se Stan era un ardente liberale, Ditko al contrario era un convinto sostenitore dell’Oggettivismo, una teoria filosofica di stampo conservatore fondata dalla filosofa e scrittrice russa-statunitense Ayn Rand secondo cui l’uomo deve vivere solo per sé, senza sottostare ad altri e senza costringere altri a sacrificarsi per il bene altrui.

Le convinzioni etico-morali di Ditko ben si riflettevano nelle storie di Mr. A, personaggio di sua proprietà creato dopo aver lasciato la Marvel, nel cui nome veniva sintetizzato il principio di identità postulato dalla Rand. Indossando completo e fedora, come i detective della tradizione noir, Mr. A annunciava il suo arrivo tramite l’uso di carte bianche o nere, suggerendo così che esistono solo il bene ed il male, senza zone di grigio. Il personaggio era troppo violento per le maglie stringenti del Comics Code, così Ditko ne produsse una variante più accettabile per il lettore medio. Fu così che The Question debuttò nel 1967 in appendice a Blue Beetle, testata che l’ex artista di Spider-Man stava realizzando per la Charlton Comics. Con Mr. A, Question condivide completo e fedora, oltre ad una visione della vita manichea che lo porta a combattere il crimine con una dedizione inarrestabile. Al contrario degli eroi Marvel, attraversati da dubbi e tormenti, l’alter-ego del giornalista Vic Sage sa cosa è giusto e agisce di conseguenza. Con il viso coperto da una maschera di pseudo-derma, creazione del suo mentore Prof. Rodor che lo rende un uomo senza volto, Question combatte la corruzione nella decadente Hub City.

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Dopo l’acquisizione dei personaggi Charlton da parte della DC Comics, negli anni ‘80 il personaggio riappare in Crisis on Infinite Earths, ispira il Rorshach di Watchmen e, soprattutto, è protagonista di una collana firmata da Dennis O’Neil e Denys Cowan che diventa rapidamente una hit di quegli anni, attraversati dalla fascinazione dei lettori per i vigilantes dai metodi spicci. O’Neil ripensa il personaggio per il nuovo decennio, cambiandone le motivazioni di base: dall’oggettivismo degli inizi si passa a filosofie di matrice orientale come il pensiero zen. È a questa versione che si rivolge l’omaggio di Jeff Lemire nella nuova miniserie dal titolo Question: Le morti di Vic Sage.

L’etichetta Black Label  in cui è inserita consente agli autori di sfuggire alle maglie strette della continuity, così questa nuova avventura sembra ignorare la morte del personaggio avvenuta nella maxiserie 52 e la versione misticheggiante apparsa nel reboot New 52. Piuttosto, si pone come sequel spirituale della serie originale, di cui conferma ambientazione e cast di supporto, anche se alcune modifiche fanno pensare ad una sorta di soft reboot. Question, che opera ancora nella degradata e violenta Hub City, riesce a smantellare un giro di prostituzione minorile in cui è coinvolto Max Ford, consigliere comunale della giunta presieduta dal corrotto sindaco Fermin. Il potente politico è da tempo nel mirino non solo del vigilante, ma anche del suo alter-ego Vic Sage, che cerca di convincere la sua vecchia fiamma Myra Fermin della natura criminale del fratello. Dopo aver appreso dell’esistenza di una vecchia loggia massonica, a cui potrebbero essere affiliati uomini di fiducia del sindaco, Vic comincia un’indagine che lo porta in una grotta segreta nascosta sotto la città. Qui trova le ossa di un uomo ucciso molto tempo prima, con accanto una maschera di pseudo - derma come quelle da lui indossate, che gli procura visioni di vite passate. Per risolvere il mistero, Sage dovrà ricorrere all’aiuto del suo vecchio mentore zen Richard Dragon, a cui lo lega un rapporto controverso.

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Del prolificissimo Jeff Lemire si dice che i suoi lavori più ispirati siano quelli creator-owned piuttosto che quelli realizzati per le due major del fumetto statunitense. Vero solo in parte: il tema dell’identità personale e della ricerca di se stessi è un leitmotiv che attraverso tanto lavori personali come Essex County, Il Saldatore Subacqueo e Niente da perdere quanto lavori su commissione come il Moon Knight della Marvel. E se il suo splendido Black Hammer era una sorta di sbobinamento terapeutico delle sue letture di infanzia, anche Question: Le morti di Vic Sage non sfugge a quella meta – narrazione che è la cifra stilistica tipica dello scrittore. Si tratta della rilettura di un classico evidentemente molto apprezzato da Lemire, il Question di Dennis O’Neil, di cui lo scrittore rievoca le atmosfere hard boiled richiamando in servizio il team artistico originale: Denys Cowan, autore dei disegni della maggior parte di quei 37 numeri, e il maestro Bill Sienkiewicz, responsabile della prima, iconica cover della serie. L’incipit della storia, in cui Question irrompe nel bordello, ripropone la netta distinzione tra il bene e il male tipica delle storie di Ditko (C’è il bene, c’è il male, e se non sei sicuro da che parte stai allora è probabile che tu sia da quella sbagliata). Una rigidità costruita su certezze destinate a vacillare nelle pagine successive, che sfociano nel cliffhanger finale.

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Lemire gioca abilmente sui contrasti forniti dall’opportunità di poter scrivere il più intransigente dei giustizieri, inserendolo però in un’epoca complessa come la nostra, contraddistinta dalla manipolazione mediatica della realtà (vedere la sequenza in cui il sindaco Fermin distorce a suo vantaggio il caso di cronaca relativo all’omicidio di un uomo di colore, richiamo all’attualità del Black Lives Matter). Il manicheismo del giustiziere diventa così uno strumento obsoleto, un attrezzo anacronistico che non consente più di decifrare il presente, scatenando una crisi d’identità il cui esito sarà chiarito solamente nei prossimi numeri. La stessa scelta di richiamare Cowan alle matite è una dichiarazione d’intenti: le sue matite sporche, caratterizzate da un tratteggio grezzo e ruvido ulteriormente esaltato dalle chine di Sienkiewicz, comunicano come nessun altro il senso di smarrimento del protagonista, le cui certezze traballano pagina dopo pagina. Uno spaesamento provato dallo stesso lettore, a cui sembra inizialmente di leggere una nuova storia del Question di Dennis O’Neil salvo poi trovarsi impelagato in qualcosa di completamente diverso. È su questa dicotomia che si gioca l’ottima riuscita di questo primo numero e su cui, prevedibilmente, Lemire costruirà l’architrave delle prossime uscite.

John Constantine, Hellblazer 1 - I segni del dolore, recensione: il ritorno alle atmosfere originali

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Nell’immaginario di molti, gli anni ’80 made in England sono rappresentati da Simon LeBon che canta Save a Prayer  a bordo di un catamarano, mentre insieme agli altri Duran Duran cammina negli scenari esotici tipici dell’omonimo video e degli altri da loro girati in quegli anni. Luoghi da sogno lontani anni luce dal grigiore del cielo d’Albione, simbolo di un escapismo che durava lo spazio di una canzone. La situazione sociale del Regno Unito, infatti, non era esattamente quella messa in scena dalle fughe spensierate dei Duran o dei loro rivali, gli Spandau Ballet. Sono gli anni dei governi conservatori guidati da Margareth Thatcher, fautori di politiche controverse tanto sul piano estero (guerra delle Falklands in cui determinante è il supporto logistico del Cile del dittatore Pinochet) tanto su quello interno, dove privatizzazioni e una visione spiccatamente liberista dell’economia producono un forte malcontento che si manifesta con violenti scontri tra polizia e manifestanti, basti pensare al famoso sciopero dei minatori del 1984.

Il pesante clima sociale dell’epoca si riflette anche nel mondo della cultura, declinato secondo le diverse sensibilità di artisti diversi tra loro. La critica alla situazione politica ed economica è presente tanto nel rock – punk iconoclasta dei Clash quanto nel pop malinconico degli Smiths di Morrissey. I film di Ken Loach mostrano senza filtri la difficile situazione dei lavoratori inglesi, inaugurando una lunga stagione di pellicole attente ad uno stato sociale sempre più precario. Il mondo del fumetto targato Union Jack non assiste affatto in disparte, e, per bocca dei suoi maggiori esponenti, non la manda di certo a dire. Il caso più celebre è certamente quello di Alan Moore, che con V For Vendetta racconta le vicende di un terrorista anarchico che si oppone con ogni mezzo ad un governo tirannico e oppressivo. Anche nella saga distopica Jaspers’ Warp, scritta per il suo ciclo di Captain Britain, è difficile non leggere una critica di Moore alla soffocante stagione politica thatcheriana.

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Ma un’insofferenza forse ancora maggiore per la realtà sociale dell’epoca è quella che traspare dalle pagine di Hellblazer, serie dedicata ad una creazione dello scrittore di Northampton, John Costantine, ma scritta da Jamie Delano. Delano è un conterraneo di Moore, e riesce a descrivere meglio di lui l’atmosfera grigia e plumbea che permea la società britannica di quel decennio. Il mago inglese, cinico e anticonformista, diventa il mezzo attraverso il quale lo scrittore denuncia gli aspetti più spregevoli del mondo conservatore rappresentato dalla Thatcher. Memorabile il numero tre della serie, in cui Costantine affronta la divinità pagana Mammona, personificazione del profitto, rinvigorito dalla concomitante ed ennesima vittoria della Lady di Ferro alle urne e servito da demoni travestiti da yuppies. Uno bello schiaffo all’edonismo e all’avidità di denaro tipici degli anni ’80. Il mago col trench affronterà orrori di ogni sorta in ben 300 uscite che renderanno Hellblazer la serie più longeva dell’etichetta Vertigo, sotto la quale la DC riunisce tutte le collane dedicate ad un pubblico adulto scritte da alcuni tra gli autori più prestigiosi della storia del fumetto.

Nel 2011, nell’ambito del rilancio denominato The New52, John Costantine lascia le atmosfere adulte della sua collana per fare il suo ingresso nell’universo DC principale, incrociando i passi con le principali icone dell’editore, tanto da diventare membro della Justice League Dark. Il tentativo di far convivere stabilmente John con i supereroi DC si rivela però un esperimento non riuscito, che svuota oltretutto il personaggio dell’alone di mistero e di ambiguità morale che lo avevano sempre contraddistinto. Così, alla fine del 2019, Costantine ritorna alle atmosfere che più gli competono con l’uscita di una nuova Hellblazer targata Black Label, erede spirituale della ormai defunta Vertigo. Al timone della collana viene chiamato Simon “Si” Spurrier, erede della tradizione britannica a fumetti, che dopo il consueto apprendistato sulla mitica rivista 2000 A.D., era sbarcato in USA scrivendo collane molto apprezzate dalla critica come Legion.

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Spurrier fa piazza pulita della poco riuscita parentesi supereroistica targata New 52, restituendo Costantine alle brumose atmosfere londinesi che più gli competono. Una Londra grigia e piovosa in cui John ritorna dopo una lunga e non meglio specificata assenza, scoprendo che le cose tutto sommato non sono poi cambiate di molto. Lo stregone col trench si troverà subito coinvolto, tra una sigaretta e una pinta di birra, in un guaio dopo l’altro. Prima accetterà, o sarebbe meglio dire sarà costretto ad accettare, di aiutare una gang a scoprire chi o cosa sta uccidendo i propri affiliati nel parco di Peckam Rye, teatro delle visioni misticheggianti di William Blake che, secoli dopo, sembrano ripetersi.
Nelle storie successive, contenute nel primo tomo con cui Panini Comics presenta la collana in Italia, John dovrà fare i conti con l’esuberanza di un indesiderato apprendista. Chiude il sommario Silenzio, la gemma del volume, che vede il mago inglese alle prese con una misteriosa catena di delitti avvenuti in un ospedale.

Spurrier recupera tutti gli ingredienti che avevano reso un cult l’Hellblazer originale: Costantine è di nuovo il cinico baro e manipolatore che rischia sempre di fare qualcosa di sbagliato anche quando cerca di combinare qualcosa di buono, mettendo a rischio chi gli sta intorno. Il cast di supporto della vecchia serie viene sostituito da una serie di personaggi azzeccati, più in linea con i tempi, come l’ispettore di origine indiana Davinder Dole e il nuovo “autista” Noah, ragazzo sottratto all’influenza di una gang che, come lo scomparso Chas prima di lui, supplisce all’idiosincrasia di John per la guida. Tutto cambia però, per rimanere esattamente come prima. Spurrier si inserisce nel solco di Delano, usando le vicende soprannaturali di John per denunciare le aberrazioni dei nostri tempi: l’atmosfera sociale claustrofobica dell’era Thatcher lascia il posto allo squallore del razzismo, piaga della nostra società, e alle miserie della nostra epoca, figlie di una società incattivita.  I demoni che abitano le pagine di Hellblazer, ieri come oggi, sono orrori ancestrali che trovano nuovo vigore nel trionfo dell’odio e dell’egoismo che va in scena continuamente nelle nostre comunità. A questo proposito Spurrier riserva non poche stilettate alla politica inglese recente, come la controversa Brexit, e a nazionalismi e sovranismi vari. Il monologo che chiude la bellissima Silenzio è un manifesto politico, in cui John afferma che il vero orgoglio nazionale nasce dai risultati raggiunti da una comunità nel suo insieme, come il conseguimento di un sistema sanitario, mentre un nazionalismo fine a se stesso è privo di senso come lo è sentirsi fieri “del colorito delle palle di Gollum”. John Costantine è tornato, senza dubbio.

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Le atmosfere plumbee descritte dai testi di Spurrier trovano una realizzazione ideale nel tratto sporco ed evocativo di Aaron Campbell, talento già visto all’opera anni fa su The Shadow per Dynamite che qui trova la definitiva consacrazione. Tavole in cui l’artista, aiutato dai colori lividi di Jordie Bellaire, si pone sullo stesso solco artistico di mostri sacri come John Paul Leon (copertinista attuale della serie), Tim Bradstreet e Dave McKean, bandiere del passato glorioso della collana. Una piacevole variazione sul tema è invece lo stile cartoony di Matias Bergara, al lavoro sul dittico dedicato all’apprendista stregone che tormenta John, storia dai toni comici che testimonia la capacità di Spurrier di saper cambiare con facilità il registro del suo lavoro.

Interessante la formula scelta da Panini Comics, un brossurato di grande foliazione a prezzo contenuto che include anche lo speciale introduttivo The Sandman Universe Presents: The Hellblazer, che fa da prologo alle vicende raccontate nella collana principale, e un crossover con Books of Magic, in cui Costantine incrocia nuovamente la strada del maghetto Tim Hunter. Una delle migliori proposte editoriali dell’anno appena trascorso, che ci sentiamo di raccomandare vivamente.

Fire Power 1 - Preludio, recensione: il "Pitch Perfect" di Robert Kirkman e Chris Samnee

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Le opportunità offerte dallo sfruttamento commerciale di proprietà intellettuali ha radicalmente cambiato, negli ultimi vent’anni, la scena fumettistica a stelle e strisce. L’esperienza pionieristica dei sette fondatori della Image, che avevano scelto di abbandonare la Marvel all’apice della loro carriera per mantenere il copyright delle loro creazioni, ha influenzato le scelte professionali della generazione successiva di autori. Così, se prima la maggiore ambizione di un giovane autore era quella di poter scrivere Spider-Man, ora l’obiettivo diventava quello di crearlo, il nuovo Spider-Man.

La concomitante evoluzione dell’industria dell’intrattenimento forniva il terreno ideale alle aspirazioni dei creativi. Studios cinematografici, network televisivi e piattaforme di streaming cercavano nei fumetti idee fresche da traslare in film e serie tv. È in questo contesto che sceneggiatori come Mark Millar, che nel primo decennio degli anni 2000 aveva dato un contributo fondamentale al rinnovamento dei comics con opere come The Authority, The Ultimates e Civil War, decidono di diradare la loro collaborazione con le major del fumetto e mettersi in proprio. Millar, lo scrittore che volle farsi azienda, fonda Millarworld, etichetta personale con cui lancia miniserie a raffica, illustrate da alcuni tra i migliori talenti del settore. La consistenza qualitativa della maggior parte di questi progetti, però, non va oltre quella di un avvincente soggetto concepito per colpire l’interesse di un produttore esecutivo di qualche network.

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La parabola professionale di Robert Kirkman è per certi versi simile a quella di Millar. Dopo una collaborazione con la Marvel a metà degli 2000, che lo lascia profondamente insoddisfatto, Kirkman si concentra esclusivamente sul lavoro creator-owned. Fonda uno studio per poter pubblicare i suoi progetti personali, Skybound Entertainment, il primo ad entrare nel consorzio Image dai tempi della sua fondazione. L’inizio è col botto: The Walking Dead, primo progetto targato Skybound, una serie in b/n a tema morti viventi sulla quale nessuno voleva scommettere, diventa a sorpresa la testata più venduta della Image e viene trasposta sul piccolo schermo con una serie tv enormemente popolare che dura ben 10 stagioni e diversi spin-off. Invincible, uno dei suoi primi successi, è in procinto di debuttare come serie animata per Amazon. In entrambi i casi, parliamo di serie che hanno avuto bisogno di qualche numero di rodaggio prima di fare breccia nel pubblico.

Il nuovo lavoro di Kirkman, Fire Power, il cui primo volume è uscito da poco per Saldapress, sembra essere invece la quintessenza del "pitch" perfetto: trama, caratterizzazioni e topoi provenienti dalla grande tradizione del racconto d’avventura, unite ad una velocità d’esecuzione scoppiettante che vede l’arte della supestar Chris Samnee prendersi le luci della ribalta. Le prime pagine del volume ci catapultano immediatamente nel pieno dell’azione, seguendo le peripezie dell’americano Owen Johnson che, rischiando la vita tra le montagne cinesi innevate, cerca il tempio shaolin del Maestro Wei Lun. Il giovane è stato già allievo tra alcuni tra i più stimati sensei del pianeta e vuole completare il suo addestramento con un ultimo tassello di grande valore. Nel tempio di Wei Lun, infatti, si cerca di recuperare la tecnica del Pugno di Fuoco, arte ormai perduta che neanche il Maestro sembra in grado di padroneggiare. L’allenamento di Owen procede giorno dopo giorno tra la diffidenza dei compagni, che lo ritengono un intruso in virtù del suo essere straniero, e l’amicizia con Ling Zan, unica ragazza tra gli allievi del tempio che potrebbe costituire un interesse sentimentale per il giovane, se non fosse che le relazioni tra studenti sono proibite. Ma quando Wei Lun comincia ad intuire qualcosa sul mistero delle origini di Owen e sulla scomparsa dei suoi genitori, il tempio viene improvvisamente attaccato dal Clan della Terra Bruciata, setta rivale che vuole carpirne i segreti. L’intervento di Owen a difesa della sua nuova casa sarà decisivo ma di più non sveleremo per non rovinare il gusto di un’eventuale lettura.

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La lettura di Fire Power ci ha fatto ripensare ad una celebre frase di Umberto Eco, pronunciata a proposito di Casablanca, che troviamo particolarmente calzante anche nei confronti di un prodotto lontano anni luce dal classico cinematografico come il fumetto di Kirkman e Samnee: “Due cliché ci fanno ridere. Cento cliché ci commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento”. Eco vedeva il film di Michael Curtiz come un ensemble di stereotipi preesistenti e facilmente ravvisabili, ma il cui utilizzo e incastro era talmente ben congegnato da renderlo sublime. Lo stesso dicasi di Fire Power: in molti hanno giustamente notato gli echi dell’Iron Fist della Marvel, o di lungometraggi a tema arti marziali come Karate Kid o Kung-Fu Panda. Tutto vero, ma si potrebbe andare ben oltre, trovando nel lavoro di Kirkman lo stessa schema narrativo che è alla base di Star Wars  e di Matrix, del Signore degli Anelli e del mito di Superman, del ciclo della Tavola Rotonda e della storia di Mosé: quello del "viaggio dell’eroe", codificato dallo psicologo Joseph Campbell. Campbell credeva nell’esistenza di archetipi presente nell’inconscio collettivo, che hanno condizionato la struttura della maggior parte dei miti nelle varie culture del mondo. Che lo abbia fatto coscientemente o no, in Fire Power Kirkman ha attinto a piene mani dagli archetipi ancestrali svelati da Campbell. Owen condivide con i suoi predecessori tutti gli elementi e gli stadi più significativi della cosiddetta “vita dell’eroe”, dalle origini misteriose alla relazione complicata con la famiglia d’origine, dal ritiro dalla società per apprendere una lezione (aiutato da un mentore dai grandi poteri), fino al ritorno nella comunità a cui porta in dono i conseguimenti ottenuti durante il suo ritiro, simboleggiati da una potente arma che solo lui sa usare.

L’abuso degli archetipi e degli stereotipi nella cultura pop ci dice che probabilmente tutte le storie sono state già raccontate, e questa affermazione potrebbe trovare in Fire Power una conferma. Ma la bravura di Robert Kirkman consiste proprio nel prendere suggestioni ed echi di modelli del passato e rielaborarli con assoluta originalità, evitando un’imitazione pedissequa dei prototipi di partenza. L’autore di The Walking Dead ha sempre dimostrato una grande abilità nell’imbastire trame avvincenti e nella caratterizzazione dei personaggi, e questo nuovo lavoro non fa eccezione (si pensi al personaggio del Maestro Wei-Lun, irresistibile profilo di monaco shaolin diviso tra la spiritualità e le passioni secolari, prime tra tutte le scarpe da ginnastica griffate Nike).

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L’obiettivo del plot sembra essere principalmente un pretesto per consentire a Chris Samnee di scatenarsi, confezionando uno dei lavori più spettacolari della sua carriera. Dopo un ciclo ormai leggendario di Daredevil in coppia con Mark Waid, Samnee è assurto al ruolo di superstar della matita: mentre si mormorava di un suo passaggio in DC per disegnare Batman, ha spiazzato tutti accettando la proposta di Kirkman. L’artista, che si è fatto amare per il suo tratto rétro che tradisce l’amore per il fumetto classico, inserito però dentro uno storytelling moderno, firma uno dei suoi lavori più incisivi. Abbandonate le atmosfere noir di Daredevil, Samnee si getta in un tour de force di tavole cariche d’azione: sembra di vedere Alex Toth, di cui Samnee è sicuramente tra i discepoli riconosciuti, applicare le tecniche del montaggio di un film di John Woo. La ricerca del movimento è evidente fin dall’organizzazione della tavola, che Samnee alterna tra vignette canoniche ad altre irregolari, dalla forma trapezoidale e volutamente non convenzionale nel momento in cui parte l’azione. Il tutto per trasmetterne il ritmo, aiutandosi anche con linee cinetiche derivanti dai manga. Al piacevolissimo effetto d’insieme concorrono la consueta cura del dettaglio nella caratterizzazione grafica dei personaggi e degli ambienti da parte dell’artista, coadiuvato dall’efficace colorazione di Matt Wilson, bravo nel passare dai toni freddi delle montagne innevate a quelli caldi nelle concitate scene di combattimento.

Fire Power si segnala anche per l’insolita formula con cui ne è stato concepito il debutto: un numero “zero” raccolto in un volume di circa 170 pp che fa preludio al vero numero uno, narrandone l’antefatto. Saldapress lo propone in un cartonato contraddistinto dall’abituale cura editoriale tipica dei prodotti dell’editore, capace di valorizzare al meglio il lavoro di una delle coppie creative più “calde” del momento.

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