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Dimentica il mio nome: intervista a Zerocalcare

Al Lucca Comics & Games 2014 abbiamo avuto occasione di scambiare quattro chiacchiere con Zerocalcare: si è parlato della sua ultima fatica, Dimentica il mio nome (che abbiamo recensito all'uscita), e di altro ancora.

Ciao Zero e bentornato su Comicus.
Ciao a voi!

Partiamo dalla struttura narrativa di Dimentica il mio nome, che è forse l’aspetto più saliente della tua opera. L’anno scorso parlammo di Dodici e ci rivelasti che questo era una sorta di allenamento in funzione di una prova futura ben più impegnativa.
Quanto è stato difficile scrivere un libro così stratificato sotto il profilo narrativo e qual è il suo difetto?

Ho avuto delle semplificazioni per questo libro che sono dettate dal fatto che, in verità, la storia non l’ho scritta io, nel senso che mi è stata consegnata dalla vita, dalla mia famiglia. Siccome la storia vera è anch’essa molto rocambolesca e ricca di colpi di scena, questa cosa mi ha aiutato molto nella stesura del libro. La parte in cui mi sono arenato, cosa che mi ha poi portato a prendermi una pausa di alcuni mesi nei quali ho scritto Dodici, è stata la difficoltà di gestire una storia lunga e omogenea, per cui a un certo punto ho deciso di spezzettarla in piccoli capitoli, perché mi sono reso conto che, come linguaggio, mi annoiavo di meno a farlo; e se mi annoiavo di meno a farlo, la gente probabilmente si sarebbe annoiata di meno a leggerla. Nel libro, a voler essere onesti, vedo delle “maldestrità”, nel senso che a volte questi capitoli brevi forse interrompono un po’ lo slancio narrativo. Sono però consapevole che, in questo momento della mia vita, non avrei potuto realizzare una cosa diversa da questa.

Chi o cosa ti ha ispirato per la realizzazione di Dimentica il mio nome? Sappiamo che Portugal di Cyril Pedrosa ti è stato di riferimento: in cosa?
Il lavoro di Pedrosa mi ha ispirato per le tematiche, in quanto raccontava segreti di famiglia e riscoperte: aveva quel "mood" un po’ nostalgico che era un po’ quello che avevo in testa anche io. Poi, in realtà, lui è riuscito a fare una cosa super poetica alla quale io nemmeno mi avvicino. Tra le cose che mi ero letto e mi hanno ispirato c’è anche La breve e favolosa vita di Oscar Wao di Junot Diaz, premio Pulitzer, che narra la storia di intere generazioni di una dinastia di portoricani, fornendo una visione molto accurata della dittatura sull’isola: è una bellissima biografia dei familiari del protagonista, e anche lì ci sono tantissimi elementi che mi hanno ispirato. Ma anche qui parliamo di un capolavoro inarrivabile.

Dei tanti aspetti e tematiche presenti in Dimentica il mio nome, vorremmo focalizzarci su uno: il concetto di armatura, i cui pezzi vengono forgiati dalla perdita e dal dolore. All’interno dell’armatura siamo più protetti, ma allo stesso tempo rimaniamo sempre più distanti e isolati dal mondo fuori. Come si fa a uscire dall’armatura, se si può? E quanto il poter fare ciò che piace come lavoro nella vita, nel tuo caso il fumetto, può aiutare a uscirne?
Ti direi che non se ne esce, nel senso che ci si assuefa in qualche modo al dolore. L’abitudine si cementifica sulla scorza, su quella parte esterna che poi diventa un’armatura che ti blocca le emozioni. Basandomi sulla mia vita, credo sia una delle cose brutte che il crescere comporta. E l’unico modo per non passarci è sperare di avere meno dolori possibili. Lo scrivere fumetti non mi ha aiutato a uscire dall’armatura, ma mi ha aiutato a penetrarla: nello scrivere questo libro e La profezia dell’Armadillo mi sono trovato a dover affrontare un dolore che non ero ancora riuscito a metabolizzare, ad affrontare nel mio quotidiano.

Parliamo di Rebibbia, elemento sempre presente nelle tue opere, e per la quale manifesti un forte senso di appartenenza. Cosa sarebbe Zerocalcare se non fosse nato a Rebibbia?
Non lo so, devo confessare razionalmente che, per quanto io ami Rebibbiba, e la consideri il Paradiso sulla Terra, il posto dal quale non me ne andrei mai nella vita, non è che il quartiere abbia questa caratteristiche peculiari che mi hanno formato. Penso che una qualsiasi borgata romana avrebbe avuto lo stesso effetto su di me. Però a me è toccata Rebibbia, e questa me la porto fino alla morte.

Affrontiamo ora l’aspetto grafico e visivo di Dimentica il mio nome: non si può non evidenziare un netto miglioramento nel disegno. A questo proposito, come si è evoluta la tua tecnica? Che ruolo ha il digitale in tutto questo?
Faccio tutto a matita come da tradizione, anche se, quando il libro era già chiuso, ho provato a specchiare orizzontalmente alcune tavole: in queste i miei personaggi sembravano tutti deformati, con la testa gigante, strabici, un vero orrore grafico! Quindi mi sono messo a ritoccarli uno a uno e questo lavoro ha portato a un conseguente miglioramento nella tecnica.

Stai già pensando al prossimo progetto?
Non lo so, per adesso ho il vuoto cosmico davanti, non so neanche proprio cosa farò nella vita… Boh…

C’è anche il film de La Profezia dell’Armadillo in lavorazione, progetto che un minimo ti coinvolgerà.
Ma chissà quando esce! La sceneggiatura è pronta, ma c’è tutto il discorso della produzione ancora da affrontare.

Esuliamo per un attimo dalle allegre atmosfere lucchesi: pochi giorni fa è giunta la notizia dell’assoluzione in appello degli esponenti delle forze dell’ordine coinvolti nella morte di Stefano Cucchi. Cosa pensi di tutto questo?
In realtà, lo davo per scontato. Nel senso che lo Stato ha sempre assolto se stesso in questi casi, e non avevo alcuna fiducia che questa volta sarebbe andata diversamente. La cosa non mi stupisce, anche se mi fa ribollire il sangue.

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