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40 anni di Lupo Alberto: intervista a Piero Lusso

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la-lussoPiero Lusso è una delle colonne portanti di Lupo Alberto. Sceneggiatore, grafio e illustratore, Lusso ha, come gran parte degli sceneggiatori assoldati da Silver, iniziato a scrivere su Cattivik, per poi passare a imbastire le trame del Lupastro, attività che lo tiene occupato tuttora e che gli ha permesso di scrivere alcune delle storie più importanti e apprezzate del mensile McK.

Nella conversazione per i 40 anni del Lupo, Lusso ci ha svelato i meccanismi narrativi che si celano dietro alle storie, il suo rapporto con il personaggio e il futuro del medium fumetto.

Hai iniziato a scrivere per Lupo Alberto per vie traverse, grazie alla serie tv. Che esperienza è stata? E cosa ti ha fatto decidere di restare nel mondo del personaggio?

Galeotta fu certamente la serie tv, ma in un certo senso il mio destino era già segnato. Da tempo Silver insisteva perché in aggiunta a Cattivik, che scrivevo con grande passione da un quinquennio, mi cimentassi anche col più raffinato Lupo Alberto. Credo che in ciò che scrivevo avesse già intravisto un umorismo adatto al mood della fattoria, ma è possibile che invece fosse preoccupato per la deriva dadaista che sembravo aver intrapreso e tentasse di salvarmi da una precoce follia.
Sta di fatto che nel ‘98 avevo da tempo intrapreso uno studio matto e disperatissimo della sua creatura, anche se ancora tardavo a prenderne le redini, forse intimidito da un personaggio tanto leggendario, e tergiversavo in una prolungata fase preparatoria che la medicina definisce ansia da prestazione. Silver ruppe gli indugi e mi fece, come si dice, un’offerta che non potevo rifiutare, quella di entrare a far parte nel team di scrittura della serie tv avviata di recente dalla Rai, alla quale lavorava già Artibani con altri sceneggiatori della produzione. Dopo essermi consultato con le mie personalità multiple, accettai come un sol uomo.
Mi tuffai nella nuova avventura con uno spirito che oggi definiremmo renziano ma allora si chiamava ancora incoscienza, cercando di imparare in fretta come adattare l’universo silveriano dei fumetti alla scrittura cinematografica, a utilizzare con cognizione il linguaggio dei cartoon e a consegnare in tempo, tutte cose alle quali non ero avvezzo. Alla fine di quel periodo vorticoso, paragonabile solo a un addestramento dei marines, ero provato nel fisico ma rafforzato nello spirito, e avevo miracolosamente realizzato oltre venti episodi della serie. Un’esperienza sul campo che si è rivelata preziosa nella serie successiva e in quella di Cattivik di qualche anno dopo. Ricordo sempre volentieri quel periodo eroico e l’atmosfera allegra e frenetica dei ragazzi di Animation Band. Il mondo dei cartoon è divertente e appassionante, spesso mi riprometto di riprendere i contatti e tornare a collaborare in quel settore.
Tra questa prima serie e la successiva - che è stata meno turbolenta e più creativa - nel 2000 ho iniziato a collaborare alla serie regolare a fumetti, e da allora non ho più smesso, perché – forse non l’ho detto – lavorare al Lupo mi piace moltissimo.

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Hai scritto moltissimo per Lupo Alberto e una delle storie più apprezzate, nonché quella con il finale più ambiguo, resta Natale senza te; in precedenza hai raccontato che la storia originale era diversa e più triste. In cosa consisteva?
Toh, e io che credevo che questo oscuro retroscena fosse segreto. L’intelligence di Comicus dev’essere agguerrita...
Non sto a raccontare quanto “Natale senza te” sia stata faticosa emotivamente, perché so che la figura dell’artista dannato e sofferente non fa simpatia. Dico solo che l’ho partorita con dolore e realizzata con sudore.
Quello che ne è scaturito è stata una versione molto simile dalla definitiva. Conteneva gli stessi elementi, lo stesso equilibrio tra dramma e umorismo, i sogni, le disillusioni e i siparietti comici, anche se collocati all’interno di un percorso che attraversava le fasi del lutto di Marta dal ritmo monocromo e terminava con la resa definitiva - la scena commentata dalla canzone di Battiato - che chiudeva la storia. Una what if intimista, senza indulgenze e senza consolazione. Peccato che fosse praticamente impubblicabile.
La serialità impone degli obblighi, e una storia di questo tipo poteva forse funzionare come spin-off all’interno di una collana, o su un albo autonomo, ma collocata come storia unica nel mensile avrebbe suscitato inutile scalpore e inutili domande sul futuro del lupo, tutto il contrario delle mie intenzioni.
Avevo valutato varie ipotesi. Inserire alla fine della storia un disclaimer sulla falsariga di certe vecchie storie di Superman dove il supereroe moriva ma una didascalia finale rassicurava il lettore che “questa storia non è mai avvenuta”? Bocciata. Un disclaimer iniziale? Bocciata. Avvertire il lettore nelle note redazionali? Bocciata.
Senza una soluzione che garantisse l’integrità della storia, ero disposto a rinunciare, per cui l’avevo chiusa in un cassetto a decantare, avevo preso tempo per ragionare a mente fredda, e mi ero dedicato ad altro.
Un po’ di tempo dopo, come se alcuni neuroni avessero trovato improvvisamente il loro posto, l’idea è balenata, generata da uno quei collegamenti mentali misteriosi che non sto a raccontare, perché so che l’immagine dell’autore dannato e ispirato non fa simpatia.
Ho ripreso in mano la storia, l’ho smontata e rimontata, ho riscritto alcune parti, costruito la drammaturgia intorno ai sogni di Marta (ispirata da Apri gli occhi di Alejandro Amenábar) e creato quel finto finale consolatorio a diversi livello di lettura con un’ultima scena che rovescia tutto proiettando la vicenda in una dimensione post mortem ancora più inquietante. Alla faccia di chi critica il fumetto popolare. Aggiungo che questa storia si inserisce perfettamente nella tradizione di storie natalizie deprimenti, cifra stilistica di cui sono molto fiero.

I meccanismi dietro la creazione di una storia per personaggi seriali sono spesso radicalmente diversi da quelli una tantum, qual è il tuo processo? Come arrivi a un'idea e come procedi per svilupparla in un prodotto finito?
Ho già risposto nella domanda precedente, quindi eviterò di ripetermi perché so bene che la figura dell’artista dannato e ossessivo-compulsivo-ripetitivo non fa simpatia.
Nel tempo mi sono trasformato in una specie di aspiratutto ruminante che risucchia idee, brandelli di conversazione, situazioni vissute o apprese, dettagli, titoli di giornale, libri, film, musica, e poi incamera, seleziona, mescola e rielabora in una forma narrativa. Dei tanti spunti, so che alcuni abortiranno, altri prenderanno vicoli ciechi, ma qualcuno si legherà ad altri creando ibridi interessanti su cui lavorare. I processi che portano alla storia finita sono tanti a variegati e non hanno una regole precise. Ci sono idee in cui mi tuffo con baldanza e sicurezza e altre che tengo quasi a distanza, edifico a poco a poco e con delicatezza, quasi per timore di sfaldarle. Ci sono state storie nate da una battuta sentita alla radio e altre che sono cresciute per sedimentazione di tante piccole aggiunte, altre che hanno preso forma nel tempo e a un certo punto sono arrivate a maturazione dopo mesi, se non anni. Storie come “La Ballata dei McKenzie”, sono partite con un intento e una direzione stabilita, ma poi, lungo il percorso, hanno cambiato senso, deviate da dettagli che sono diventati risolutivi. Quando ho iniziato a lavorare al soggetto, l’idea iniziale era di scrivere una storia in epoca vittoriana vagamente dickensiana, piena di pathos, sentimento e avventura. Durante la documentazione però alcuni aspetti hanno iniziato a deviare la mia l’attenzione: certe somiglianze tra la selvaggia rivoluzione industriale del tempo e il neoliberismo selvaggio di oggi, l’ipocrisia puritana e l’iniquità sociale, e tanto altro. A quelle suggestioni si sono intersecati gli echi della grottesca situazione politica italiana del momento, e così la saga è declinata in una dimensione metaforica e satirica, cambiando struttura e obiettivi in corso d’opera.
A volte sono le caratteristiche dei personaggi e le loro interazioni a costruire le storie – vedi la saga di Mosè con la barboncina. A volte spunti banali riescono ad adattarsi perfettamente ai personaggi., come in Morto di fama, titolo di un giornale di gossip letto dal barbiere a cui è stato immediato collegare la figura di Alfredo, personaggio McKenzie di secondo piano per eccellenza. Quando sono tornato dal barbiere avevo metà dei capelli e tutta la storia in testa.
Mi rendo conto per potrei scrivere altri 5-60.000 caratteri su questa domanda, e anche se il web è virtualmente infinito, sono conscio che la figura dell’artista multimediale dannato e logorroico non fa simpatia.

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Le storie che hai scritto vanno da cose come L'alta marea, una trasferta in salsa felliniana, ad avventure sperimentali o più convenzionali. Dialoghi con Silver o hai un certo grado di indipendenza nell'ideazione delle trame?
Cerco sempre di mantenere un certo equilibrio tra le tipologie di storie, sapendo che il pubblico di riferimento del lupo è vario e eterogeneo e tengo a bada la mia passione per le architetture narrative complesse e i temi controversi, perché so che non dev’essere una costante, ma in tutte le storie, anche le più mainstream cerco sempre di inserire qualche piccolo valore aggiunto. Credo di conoscere abbastanza bene l’universo silveriano da sapere fino a dove spingermi e in che percentuale osare, nonostante l’indipendenza creativa sul lupo sia massima. Il rapporto con Silver è costante: non c’è sceneggiatura che non venga preventivamente approvata, discussa ed eventualmente aggiustata insieme a lui, e non è raro che un soggetto debole, dopo alle sue osservazioni diventi una storia importante. Come in Estinto di santo o Pace in Terra spesse volte gli spunti arrivano direttamente dal Luccicante, magari all’interno di una chiacchierata informale o a cena, perché negli anni, aumentando la conoscenza e la fiducia, il nostro confronto si è sviluppato in modi anche meno formali.

Hai esordito, sotto pseudonimo, sul Male, poi Totem. Sono tutte esperienze che un giovane fumettista di oggi non può avere. Come credi sia cambiato la modalità di approccio al fumetto, specie quello satirico o umoristico, per gli esordienti e in generale per gli aspiranti autori?
Benché ne sia affezionato, Il Male e Totem non sono state altro che delle piacevoli comparsate che non hanno avuto seguito. Il vero esordio è stato quello del 1993, quando, incoraggiato da Sommacal, presentai a Silver la mia prima sceneggiatura di Cattivik (Yeti, che noia mortale!) e tutto iniziò. Erano anni in cui il fumetto comico era più vivace di oggi - anche grazie alle pubblicazioni targate Silver - ma non era certo ai suoi massimi, e a pensarci credo che noi del Lupo siamo stati anche fortunati. Panini-Disney a parte, credo che oggi ci sia ben poco per un’esordiente nel settore umoristico, a meno di voler tentare la carta autorale, e penso che ormai il web sia imprescindibile, il successo di Makkox e ZeroCalcare, per quanto fuori dall’ordinario, sta a dimostrarlo. Credo eh.

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