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Moving Pictures: intervista a Kathryn e Stuart Immonen

È da qualche mese arrivato anche in Italia, per i tipi della Nicola Pesce Editore, Moving Pictures, la serie online realizzata da Kathryn Immonen (ai testi) insieme al marito Stuart Immonen (alle matite). I due autori, parallelamente alla propria attività per i grandi editori e per la Marvel in particolare, portano avanti da tempo anche una serie di progetti personali, di cui Moving Pictures è esempio perfetto.

Comicus ha contattato i gentilissimi signori Immonen per una chiacchierata su questa serie, approdata in volume dopo la sua pubblicazione online. Per l'occasione, come di consueto, vi proponiamo anche una nostra recensione del volume. Ricordiamo inoltre che Stuart Immonen non è nuovo alle nostre pagine, essendo stato nostro ospite già nel 2007 con un'intervista più incentrata sul suo lavoro in Marvel di allora.

Buona lettura.

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Intervista di Valerio Coppola
Traduzione di Andrea Cassola

Kathryn__Stuart_Immonen_2Ciao Kathryn, ciao Stuart, benvenuti (o bentornati) su Comicus. Iniziamo con la più classica delle domande: come nasce l’idea di Moving Pictures?

Kathryn: Molti anni fa stavo leggendo un libro di Janet Flanner… credo fosse “Paris was Yesterday”. Era la corrispondente da Parigi del New Yorker durante la guerra. Parlava della pulizia del Louvre come conseguenza dello spostamento delle opere d’arte al di fuori della città. Era così strano e divertente. Io, come quasi tutti, conoscevo quelle foto dei tesori artistici che erano stati ritrovati nelle miniere delle Alpi austriache. Ma cominciai davvero a pensare a quei tizi con gli stracci e i secchi di ammoniaca… piccole attività domestiche che erano l’effetto secondario di atti di violenza enormi, globali e, in molti modi, di immaginazione. Non sono per nulla interessata alla grande tematica dei furti d’arte, ma ai piccoli episodi. Ci sono così tanti ricordi del tempo che esiste negli gli spiragli o gli spazi interstiziali [tra i grandi eventi storici, ndt]. “How To Cook A Wolf” di Mary Frances Kennedy Fisher è un'altra opera, nello stesso solco, che amo molto.

Leggendo il libro si ha una certa impressione di “straniamento”. Pur svolgendosi durante l’occupazione nazista della Francia, a differenza di altre opere con la stessa ambientazione qui la drammaticità è molto controllata, la guerra rimane sullo sfondo, anche se ovviamente riecheggia ed è ben presente nel confronto che avviene nei corridoi e nei sotterranei del museo. Qual è il motivo di questa scelta?

K: Ha fornito un solido sfondo sul quale parlare di cose che sono importanti per noi come creatori, non ultima la gerarchia e la valutazione degli oggetti. Ma è anche un momento storico che è stato talmente esplorato, discusso e stradiscusso, che uno scostamento sembra inevitabile. Con questo intendo che i personaggi di finzione, in questo caso, hanno inevitabilmente un tipo di natura radicalmente non individuabile che trovo davvero avvincente. Quindi la natura molto controllata della vicenda va a braccetto con la natura sfocata dei personaggi. Sul corso della storia puoi scrivere ciò che vuoi, ma non sono sicura che finisca per avere molto senso… anche solo come semplice serie di eventi. E certamente non credo di poter aggiungere nulla a tutta la letteratura non di finzione esistente sull’argomento. Non direi neanche che Moving Pictures sia fiction storica… È una vicenda allestita su uno sfondo storico al quale i personaggi, sotto molti aspetti, danno le spalle. Volevo parlare di valore, approfittamento e desiderio, e la guerra ha fornito un contesto in cui farlo.

Un altro paio di domande per Kathryn. La presenza di una protagonista canadese è motivata dalla necessità di un punto di vista in certa misura esterno rispetto agli eventi europei? E si sposa con la scelta di non nominare mai in maniera diretta la guerra, i nazisti, le deportazioni, lasciandole invece trasparire?

K: Nei termini in cui la nostra “cultura” o almeno la cultura di internet sta evolvendosi, direi che sta accadendo l’esatto contrario. Ognuno ha una vita pubblica, ognuno è un artista, uno scrittore, un autore pubblicato, un unico e irripetibile fiocco di neve, ecc. Non credo che l’esperienza del singolo sia mai stata così sotto i riflettori come ora. Personalmente, sia Stuart che io consideriamo ridicolo il desiderio di preservare (digitalmente) ogni singola fotografia, e-mail, cosa abbiamo mangiato. Parlare di fare un archivio di Twitter mi dà la nausea. Tuttavia, detto questo, penso che ci sia molto di importante che è andato perso. Mi basta solo vedere quello che nostro figlio diciottenne sa della Prima Guerra Mondiale per capire che è così. Ci sono lezioni che non abbiamo ancora imparato e se le abbiamo imparate, le stiamo dimenticando.
Ma sto divagando. Riguardo Ila (il personaggio canadese),la sua presenza è ciò che rende fiction l’intero lavoro. Sono abbastanza sicura che non ci fossero persone del genere celate nei sotterranei del Louvre. Quindi, mentre lei è una outsider sul piano nazionale, come lo sono io  su quello temporale, è anche il mio ideale platonico di personaggio. Quello che è stato descritto come la sua “indifferenza cosmica” non deve essere preso come apatia, perché è più una reazione a una situazione che sfugge a ogni descrizione.

Queste figure che vengono spostate nelle sale del museo nella narrazione sono trattate alla stregua di esseri umani. Al di là dell’ambientazione bellica, c’è in questo una critica alla tendenza che la nostra società ha di classificare, spostare, rimuovere tutto, dimenticando o annullando le storie personali, le passioni e l’unicità di ognuno?

K: In termini di cancellazione visiva e verbale nella storia, all’inizio l’iconografia [del periodo, ndt] era là sulle bandiere e ce ne siamo sbarazzati perché ci sembrava troppo ovvio. Ma mentre continuavamo a cancellare i segni, la cosa ha cominciato a funzionare in una serie di nuovi modi. Come metafora per i punti ciechi (voluta o meno), come riferimento alla letterale cancellazione delle indicazioni durante la guerra, per impedire qualsiasi tipo di orientamento.

Rispetto a questo, Stuart, il fatto che tu abbia adottato un’impostazione grafica stilizzata, ma che diventa molto più dettagliata quando riproduci opere d’arte, ha anche la funzione di richiamare la storia, la ricchezza e la “personalità” di questi quadri?
Perché la scelta di questo stile minimalista, giocato su luci e ombre nette? Serviva anche questo a comunicare una sensazione di tranquillità in contrasto con l’ambientazione bellica e caotica dell’Europa fuori dal museo? O le tue valutazioni sono state altre?


Stuart: Il grosso della storia doveva essere disegnato in modo che ci potessi tornar su a intervalli, dopo aver passato molti giorni a disegnare in un modo diverso. Sono stato influenzato in particolare dal lavoro dei cartoonist europei Ulf K e Stanislas, e la storia molto quieta che Katryn ha scritto mi sembrava richiedesse uno stile con molta immobilità. Ci sono stati all’inizio un certo numero di tentativi di rendere la storia con un tratto più realistico, ma ogni stile sembrava inappropriato. Ho scoperto che c’era più potenza, anche nelle vignette mute, quando l’illustrazione era stilizzata, quasi astratta.
Allo stesso tempo volevamo che ci fosse un elemento di realtà interiore (la realtà dei personaggi) che consentisse al lettore di vedere le cose come le vedevano loro… e mi ha dato l’occasione per sperimentare e mettermi un po’ in mostra. Spero che la lunga sequenza alla fine, che pone in contrasto le esperienze di Ila e Marc, produca questo effetto.

Come lavorate insieme, di solito? Costruite insieme la struttura della storia e poi vi dedicate ognuno alla sua parte del lavoro, oppure collaborate lungo tutte le fasi del processo creativo?


K: Dipende dal progetto. Il nostro primo lavoro insieme (Playground, originariamente auto-pubblicato e poi opzionato da Caliber Press) era uno script molto convenzionale, se ben ricordo, ma da allora sono passati regni e cresciute foreste. Per la storia beve di Patsy Walker in Marvel Comics Presents, Stuart ha disegnati direttamente da una descrizione in prosa di ogni sezione e successivamente io ho scritto i dialoghi… fu una cosa piuttosto strana per me. Ma evidentemente ha funzionato.

S: In realtà, per Patsy ho fatto una serie di schizzi dettagliati dopo la prima bozza e poi sono passato alle matite complete, cosa che è stata anch’essa strana, visto che non lo facevo dal mio primo lavoro per DC Showcase ’93.

K: Moving Pictures è stato ancora diverso. Virtualmente era solo il dialogo con pochissime indicazioni che Stuart ha messo sulla tavola, e poi abbiamo discusso sui passaggi visuali e i leitmotiv che sono diventati gli aggangi metaforici ricorrenti (che poi è la definizione di leitmotiv, ma vabbè…).

S: Inoltre, è stato un vero progetto vivente che abbiamo serializzato online, con le decisioni prese praticamente pagina per pagina e poi di nuovo prima della pubblicazione. È stato più come un processo organico di quando si gira un film, dove le scene possono essere riscritte o rigirate o espanse o tagliate ben dopo che lo script è concluso. I collegamenti visivi ricorrenti sono venuti fuori come un ripensamento, ma hanno funzionato bene, servendo il doppio fine di supportare i temi della storia così come gli elementi interstiziali. Non erano sceneggiati, ma abbiamo discusso di cosa si sarebbe visto e di quante pagine avrebbe occupato prima di disegnarli e hanno stabilito un ritmo per tutto il volume.

Ormai da qualche anno siete entrambi legati a un rapporto professionale con la Marvel. Kathryn, tu hai spesso scritto storie di personaggi femminili. Si dice spesso che le supereroine abbiano meno appeal dei loro colleghi maschi (soprattutto al cinema). Qual è nel processo di scrittura, secondo te, il segreto per ribaltare questo assunto?


K: Beh, il paradosso è che farebbero un film su Wonder Woman se sapessero come metterci un altro personaggio come star. Non ho una risposta per questo e penso che ci si potrebbe impazzire a pensarci troppo. Per quanto mi riguarda, prendo qualsiasi personaggio mi diano e li scrivo in un modo coerente con quello che deve essere, ma anche in modo che sia interessante per me. Una volta chiesero a Lawrence Block quanto autobiografico fosse un suo personaggio e la sua risposta fu qualcosa come “Non sono io nei panni di quel personaggio, ma quel personaggio nei miei”. È così quando scrivo Hellcat o Wolverine. È inevitabile. Detto questo, non mi sento obbligata a scrivere per forza contro gli stereotipi. Non ho urgenza di dimostrare quanto sono brava con la violenza estrema o quant’altro solo perché la gente possa dire “scrive come un uomo”. Penso che ogni personaggio possa essere buono quanto lo è la persona che lo scrive. Ma penso anche che se puoi sostituire qualsiasi personaggio maschile della tua storia con uno femminile, c’è qualcosa che non va.

Stuart, tu sei forse uno degli artisti che dimostra una delle più ampie gamme stilistiche. C’è, in particolare, uno stile che adotti per produrre storie mainstream e un altro che impieghi in progetti più personali? Sulla base di quali criteri operi queste scelte?


S: Non è una questione di uno o l’altro: anche nei miei lavori mainstream preferisco utilizzare lo stile che penso possa rappresentare meglio la storia o il progetto in questione. Alcuni sono più linea chiara, altri più animati, o più realistici o più elaborati. La storia è l’elemento chiave che determina l’aspetto finale. È anche una questione di cosa gli altri collaboratori – specificatamente l’inchiostratore e il colorista – preferiscono. Ogni situazione è unica, quindi è vantaggioso affrontare il fumetto con questo bene in mente.

Quali sono i vostri progetti futuri? Avete in programma anche altri lavori insieme?


K: Lavorare con la Marvel ci riempie le giornate, ma nei ritagli di tempo stiamo cominciando a lavorare su qualcosa chiamato Russian Olive To Red King. Sono due linee narrative parallele che descrivono i giorni finali di una relazione. Red King è l’uomo rimasto a casa a lottare senza successo, fuori tempo massimo e con l’inspiegabile sparizione della sua partner, Russian Olive, che può essere o meno sopravvissuta a un disastro aereo nel nord del Canada. Comprende anche petroglifi e [lo scrittore russo Anton] Čhekhov. Sembra tosto, vero?



English version


Kathryn__Stuart_Immonen_1Hello Kathryn, and hello Stuart, welcome (or welcome back) on Comicus. Let's start with the most classical question: how did the Moving Pictures idea start?


Kathryn: Many years ago, I was reading Janet Flanner’s... “Paris was Yesterday”, I think it was. She was the Paris correspondent for the New Yorker magazine during the war. And she was talking about the cleaning of the Louvre as a by-product of the shifting of the art out of the city. It was just so strange and funny. I, like just about everybody , was familiar with those incredible photographs of the art hoard that was found in the mine in the Austrian Alps.  But I really started thinking about those guys with the rags and the cans of Pledge and the buckets of ammonia water... small domestic activities that were a side-effect of big global acts of violence and, in a lot of ways, imagination. I’m not really interested at all in the big subject of the art theft but in the really small moment. There are so many personal memoirs from the time that seem to exist in the gaps or interstitial spaces. Mary Frances Kennedy Fisher’s “How to Cook a Wolf” is another work, in the same vein, that I really love.

By reading the book, you get a sort of a-effect. In spite of being set during the nazi occupation of France, differently from other works with the same setting, the drama here is very under control ─ the war stays in the background, although of course it echoes and is quite present during the confrontation happening in the aisles and in the museum vaults. Why this choice?

K: It provided a solid backdrop against which to talk about things which are important to us as creators, not the least of which is the hierarchy and valuation of objects. But also, it’s a historical moment that has been so explored, written and over-written that slippage seems unavoidable. By which I mean that the fictional characters, in this case, inevitably have a kind of fundamentally unlocatable nature which I find really compelling. So, the very controlled nature of the drama goes hand in hand with the opaque nature of the characters. You can write about the history all you want, I’m not sure you can ever make sense of it... even as a collection of events. And certainly, I would not presume to say that I’ve got anything to add to the existing (non-fictional) literature. I wouldn’t even really say that Moving Pictures is historical fiction. It’s a story set against a historical backdrop which the characters, in a lot of ways, really turn their backs on. I wanted to talk about value and commodification and desire and it provided a context within which to do that.

A more couple of questions for Kathryn. Is the presence of the Canadian main character motivated by the necessity of a sort of external point of view as regards the European events? And does it match the choice of never nominating the war, the Nazi, the deportations directly, but just mention them?

K: In terms of the way our “culture” or at least the culture of the internet, is going, I would argue that exactly the opposite is happening in a lot of ways. Everyone’s got a public life, everyone’s an artist, writer, published author, unique snowflake etc. I don’t think the experience of the individual has ever been more focussed on, if only by that individual, than it is now. Personally, both Stuart and I regard the desire to preserve (digitally) every single photograph, e-mail, thing you had for lunch, as ridiculous. Talk of archiving twitter makes me nauseous. Having said that, though, I think there is a lot that is being lost that is really important. I only have to look at what our eighteen year old son knows about WWI to know that this is absolutely true. There are lessons that we still haven’t learned and if we learned them, we’re forgetting or forgetting to pass them on.
But I digress. As far as Ila, (the Canadian main character) goes, her presence is the thing that entirely fictionalizes this work. I’m fairly certain there were no such people lurking in the basement of the Louvre. So, while she is certainly an outsider nationally, as I am temporally, she is also my platonic ideal of a character. What has been described as her “cosmic indifference” should not be taken for apathy because it’s more a reaction to a situation that defies description.

The pictures which are moved around the museum rooms are treated like human beings. Besides the warlike setting, is there in this a critic to our society’s inclination to classify, move, remove everything, forgetting or cancelling personal stories, or everyone's own passion and uniqueness?

K: In terms of the visual and verbal deletions in the story, at the beginning, the imagery was there on the flags and, initially, we got rid of it because it just looked so overwhelmingly obvious, somehow. But as we continued to kind of keep erasing signs, it started to function in a lot of other ways. As a visual metaphor for blind spots (wilful or otherwise), as a literal reference to the actual blacking out of signposts during the war, as an impediment to wayfinding of all kinds.

Stuart, does the fact that you have adopted a stylised graphics - which becomes more detailed when you portray the works of art - also have the function to recall the story, the richness and the personality of these paintings?
Why did you choose this minimalistic style, with clean lights and shadows? Was it essential to convey a sensation of calm, in contrast with the chaotic, warlike setting of Europe outside the museum? Or was it because of something else?

S: The bulk of the story had to be drawn in a way I could come back to at intervals, after having spent several days drawing in a different way. I was particularly influenced by the works of European cartoonists Ulf K and Stanislas, and the very quiet story Kathryn wrote seemed to demand a style with a lot of stillness. There were initially a number of attempts to tackle the story with more naturalistic rendering, but each style seemed inappropriate. I found there was more power, even in silent panels, when the illustration was graphic, almost abstract.
At the same time, we wanted there to be an element of internal reality ─ the characters' reality ─ which allowed the reader to see things as they saw them... and it gave me a chance to experiment and show off a little. The long sequence at the end which contrasts Ila and Marc's experiences hopefully demonstrates this effect.

How do you usually work together? Do you build the structure of the story together and then do your own job, or do you cooperate during all the phases of the creative process?

K: It really depends on the project itself. Our first work together (Playground, originally self-published then picked up by Caliber Press) was very much a conventional script, if I’m remembering correctly, but it was so long ago that kingdoms have fallen and forests have grown in the interim. For the Patsy Walker short in Marvel Comics Presents, Stuart drew directly from a prose description of each section and then it was dialogued after... that was actually pretty weird for me. But it clearly worked out.

S: Actually, for Patsy, I provided detailed thumbnails after the first draft and then went to full pencils, which was also weird, since I haven't done that since my first job for DC's Showcase '93.

K: Moving Pictures was different again in that it was virtually just the dialogue with very little stage direction which Stuart then broke down into pages and then we talked about the visual transitions and the leitmotifs which ended up being the recurring metaphorical hooks (which is basically the definition of a leitmotif but whatever....).

S: Furthermore, it was really a “living” project while we serialized it online, with decisions being made almost page by page, and then again before print publication. It was more like the organic process of filmmaking, where scenes might be rewritten or re-shot or expanded or cut well after the script was considered “done”.
The recurring visual bridges almost happened as an afterthought initially, but they worked well, serving the dual purpose of supporting the story themes as well as being interstitial elements. They weren't scripted, but we would discuss what would be seen and how many pages it would be before they were drawn and they really set up a rhythm for the whole book.

It has been few years now that you are professionally connected to Marvel. Kathryn, you have often written stories about female characters. They often say that the superheroines have less appeal than their male colleagues (especially in the movies). Which is, from your perspective, the secret to overturn this datum in the writing process?

K: Well, the big joke is that they’d make a Wonder Woman movie if they could figure out how to have some other character be the star of it. I really don’t have an answer for this and I think you can go crazy if you think about it too much. For myself, I take every character I’m given and write them in a way that is consistent with what’s been established but also, in a way that’s interesting to me. Lawrence Block was once asked about how autobiographical one of his characters was and his answer was something like, “It’s not me as that character but that character if it was me”. So, that’s true whether I’m writing Hellcat or Wolverine. It’s unavoidable. Having said that, I don’t feel obligated to write against type. I’ve got not urge to prove how good I am at extreme violence or whatever just so that people can say, “She writes like a guy”. I think any character can be as good as the person writing them. But I also think that if you can substitute any male character for any female character in your story, then you’re doing something wrong.

Stuart, you are possibly one of the artists who has the widest style range. Is there, in particular, a style that you adopt to produce mainstream stories and another one which you use for more personal projects? Basing on which criteria do you do these choices?

S: It's not a matter of one or the other; even in my mainstream work, I prefer to use a style I think will most appropriately represent the story or project in question. Some are more clear-line, or more animated, or more naturalistic or more flamboyant. The story is the key element which determines the final look. It's also a matter of what the other collaborators ─ specifically the inker and colourist ─ would prefer. Each situation is unique, so it's advantageous to approach the book with that in mind.

Which are your future projects? Are you planning any other work together?

K: Working for Marvel fills our days but in the cracks, we’re just starting on something called Russian Olive to Red King. It’s two parallel narratives detailing the final days of a relationship. Red King is the man left at home struggling unsuccessfully with an overdue deadline and the unexplained disappearance of his partner, Russian Olive, who may or may not have survived a plane crash in the northern bush. It’s also got petroglyphs and [Russian writer Anton] Čhekhov. Sounds like a scorcher, right?

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