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Una chiacchierata con TITO FARACI di S. Perullo



CUS: Qualche anno fa nelle radio imperversava il primo singolo di successo di uno dei tanti gruppi irlandesi che hanno dato vita alla legenda della verde isola del rock, il titolo del pezzo era Zombie ed il gruppo erano i Cranberries. Attratto dalla voce della cantante e dalla chitarra distorta mi informai un po’ meglio su questi ragazzi e fui molto colpito dal nome della cantante: Dolores. Un nome decisamente atipico per una irlandese purosangue. Tra me e me pensai: “con un nome così, ‘sta ragazza non poteva che essere destinata ad emergere!”. Una considerazione banale? Forse stupida? Sarà … però è la medesima considerazione che mi è rimbalzata in mente quando, qualche tempo dopo, ho letto il nome di un giovane e promettente sceneggiatore della Disney: Tito Faraci. Un nome musicale ed immediatamente simpatico, per uno degli sceneggiatori più apprezzati della nuova generazione … Un nome che, ancora una volta, conferma la mia bislacca teoria. Ciao Tito e benvenuto su ComicUs! Ti va di presentarti ai nostri lettori?

TITO FARACI: Ah, bene, adesso so perché quel gruppo ha successo. Scherzo, scherzo … i fan dei Cramberries non me ne vogliano. Ho ancora l’anima del metallaro, e un vecchio tatuaggio da qualche parte su un braccio. Del nome, però, non mi ha mai chiesto nessuno. Eppure qualcosa da dire ci sarebbe anche. Per esempio, che Tito non è il mio vero nome. Ma un soprannome che mi porto dietro dai tempi dell’università (facoltà di Lettere, indirizzo Storia e Critica del Cinema. Mollata al terzo anno, per cominciare a lavorare). Io, in realtà, mi chiamo Luca Faraci. Sarebbe andata così bene lo stesso, con quel nome? Domanda vagamente angosciosa, dopo quanto mi scrivi. Prima di dedicarmi ai fumetti, sono stato un giornalista musicale. Mi occupavo di metal, punk ed estremismi sonori assortiti. Ho intervistato i Metallica, gli Slayer, i Sepultura, i Beastie Boys … e, per inciso, ogni tanto lì ho trovato dei patiti di fumetti. A un certo punto, per motivi che sarebbe lunghissimo spiegare, ho cominciato a collaborare con un’agenzia di licensing che deteneva i diritti di personaggi a fumetti americani. Così, già che ero lì, mi è capitato di scrivere testi per qualche fumetto. Ma … di questo periodo parlo poco volentieri. Avrò diritto anch’io al mio scheletro nell’armadio, no?

CUS: Ne hai tutto il diritto, ci mancherebbe altro! La tua carriera di sceneggiatore è iniziata in maniera apparentemente casuale. In una recente intervista (da te rilasciata a Scuola di Fumetto) ho appreso che in maniera quasi scherzosa chiedesti a Lorenzo Bartoli di farti scrivere un numero di Arthur King, e lui inaspettatamente acconsentì. Con che spirito ti proponesti a Bartoli? Ti aspettavi da lì a poco di diventare uno scrittore di professione?

TF: Lorenzo ancora si chiede come mai quel giorno mi ha detto sì. Perché proprio a me? Deve avere visto qualcosa, nel mio sguardo. Chissà cosa. C’è da dire che, se non altro, già facevo il giornalista e una certa dimestichezza con la scrittura l’avevo. Ma fare una sceneggiatura è tutta un’altra cosa. Infatti, nel caso di Artuhr King ricordo che mi ero basato sull’unica sceneggiatura di fumetti che avevo visto, non ricordo neanche più dove. Una sceneggiatura di una storia Marvel (o forse era DC … boh), all’americana. Così il povero Giuliano Piccinino, disegnatore delle mie prime e uniche storie di AK, si è ritrovato tavole senza divisione di vignette. In alto una descrizione di tutto ciò che doveva avvenire nella tavola, e sotto le nuvolette da piazzarci dentro. Aaaah … che vergogna!



CUS: Di cosa parlava quel primo soggetto di Arthur King? Era qualcosa che già avevi elaborato in precedenza oppure lo sviluppasti ex-novo?

TF: Mmm … c’era di mezzo una chiesa di Elvis Presley, in un remoto futuro. E tutto un pianeta anni Cinquanta. Già, gli anni Cinquanta. Anche adesso sto scrivendo qualcosa ambientato in quell’epoca. Forse mi porta fortuna. E poi ricordo che c’erano le didascalie noir, in prima persona. E l’umorismo più il dramma. Insomma, il DNA era il mio.

CUS: Come è avvenuto il tuo passaggio da Arthur King alla Disney?

TF: Calma, calma. In mezzo c’è stato un periodo un po’ burrascoso. Un cambio di lavoro sfortunato, un licenziamento. E poi l’approdo all’agenzia epierre, di Gianni Bono, come redattore. Gianni sapeva che mi piacevano i fumetti, che un po’ me ne intendevo. Un giorno, alla fine del 1995, mi ha proposto di provare a scrivere un soggetto per ‘Topolino’, visti gli ottimi rapporti di collaborazione fra la Disney e Gianni. Io ho tentato. Il primo soggetto è stato “Topolino e il campione terrestre”, ed è andato bene. Finito nelle mani capacissime di Massimo De Vita. La terza storia è stata “La lunga notte del commissario Manetta”, l’inizio del ciclo finito su “Topolino noir” (il volume Einaudi). E’ l’inizio della mia collaborazione e amicizia con Giorgio Cavazzano. E c’è un’altra persona importante, in questa storia. Uno che mi ha dato fiducia: Ezio Sisto, caporedattore di Topolino. E’ stato un inizio fortunato, ma anche molto duro. Volevo dare il massimo, e in un certo senso l’ho dato davvero. Quelle prime storie disneyane restano fra le cose migliori che ho scritto, credo. Ci lavoravo nei fine settimana, di notte. Anche quando ero già stanchissimo per il lavoro “normale”, trovavo chissà dove altra energia. Poi, per fortuna, dal 1998 quello di sceneggiatore è diventato il mio unico mestiere, a tempo pieno.



CUS: Quali difficoltà hai dovuto affrontare per lavorare professionalmente con i fumetti?

TF: Io sono uno che si fa sempre molti problemi. A volte mi inchiodo su una sola vignetta, continuando farla e disfarla per ore. Più passa il tempo, più questo lavoro mi piace, mi soddisfa e, nello stesso tempo, mi pare più difficile. La mia più grande conquista è che oggi riesco a pensare il fumetto come … fumetto. Non cerco di imitare il cinema, o la letteratura. Non sento sudditanze nei confronti di altri mezzi espressivi. Non scrivo partendo dai dialoghi, o partendo dalle immagini. Ma ragionando sulla tavola nel suo insieme, una fusione di parole e immagini giustapposte. Come ho detto in una recente intervista con Fumo di China (scusa il riciclo), la mia maturità di autore coincide con la piena presa di coscienza dello specifico e della dignità del Fumetto, come mezzo espressivo.

CUS: Come accennavo poc’anzi, tu collabori quasi con tutti gli editori attivi nella nostra penisola. Una situazione davvero anomala qui da noi dove, in genere, l’autore si lega esclusivamente ad un singolo editore (in effetti solo tu e Giuseppe Palumbo, mi sembrate godere di tanta “libertà contrattuale”). Come sei riuscito ad intagliarti tanta libertà e che prezzo ha, se ne ha uno, questa libertà?

TF: È successo in modo naturale, senza un progetto. Francamente, mi chiedo perché non lo facciano anche gli altri. C’è una tale fame di scrittura, da parte degli editori. Forse mi ha influenzato il mio amore per il fumetto americano. Io leggo storie di sceneggiatori che seguono più di un a testata alla volta, spesso cambiando anche modalità narrative fra l’una e l’altra. Ma riuscendo a mantenere la propria cifra stilistica, pur passando dalla commedia al dramma. Faceva così Stan Lee, e fa così Mark Millar. Il prezzo di questa libertà si paga in anticipo. È l’ansia di dovere sempre fare qualcosa di nuovo, la paura di stancarsi … e di stancare. Oggi però devo dire che molto del mio lavoro è assorbito dalla Bonelli, e ne sono fiero e felice. Non mi sento imbrigliato, anzi. Forse sono un vecchio playboy che finalmente ha trovato la donna giusta (ma qualche scappatella ogni tanto …).



CUS: Cosa significa per te scrivere? Un modo per mettere a nudo la tua anima? Una possibilità per comunicare le proprie opinioni?

TF: Le mie storie non significano nulla. Cioè, no … non è esattamente così. Il loro significato, la loro forza nascono dal loro interno, e dal loro contesto nel flusso delle serie a cui appartengono. Per esempio, rileggendo le mie vecchie storie Disney, mi sembra che comunichino un messaggio di libertà, perfino di trasgressione. Che nasce da come sono scritte, da ciò che hanno di nuovo rispetto a una certa tradizione, che credo di essere riuscito a rinnovare pur rispettandola. Ma non ho mai coscientemente usato una storia per esprimere, per esempio, le mie idee politiche. Benché io ne abbia di precise e di molto sentite. Chiedimele e te le dirò. Non con un fumetto. (Anche se poi è inevitabile che qualcosa passi…)

CUS: Potresti spiegarci chi sono, secondo te, i principali personaggi su cui hai lavorato o su cui lavori? Cominciamo da

DYLAN DOG:


TF: Mi piace la sua natura di (contro)eroe noir, anche un po’ marlowiano, in un contesto non noir. Mi ci trovo bene, perché mi consente di passare dalla commedia al dramma nel giro di due vignette. E poi c’è Groucho … ah, se potessi fare un altro albetto!

DIABOLIK:

TF: Ciò che mi affascina e assieme mi inquieta è la sua mancanza di empatia. Come i replicanti di Philip Dick. Non è crudele, mai. Semplicemente non sente pena per le sue vittime. Lui collega due punti con una linea retta. Se c’è di mezzo un poliziotto, lo uccide.

L’UOMO RAGNO:

TF: Ma davvero ho scritto una storia dell’Uomo Ragno? Dammi un pizzicotto e svegliami! L’Uomo Ragno è uno dei fumetti che leggo da sempre, e da cui ho più imparato. Imparato a raccontare i personaggi dall’interno. Con forza e con ironia.

NICK RAIDER:

TF: Grazie al curatore, Renato Queirolo (grande sceneggiatore!) mi sono forgiato a una dura scuola, mettendo a punto i miei strumenti di autore. Di Nick Raider mi piace la concretezza, il realismo come punto di partenza narrativo. E poi sono storie di poliziotti: un genere che mi piace da sempre.


TOPOLINO:

TF: Oh, cielo! Non so che dire. È come un amico. Non ci frequentiamo più, per questioni di vita e lavoro, ma so che è sempre lì. Gli voglio bene. Con lui sono riuscito fare grandi cose. Mi piacerebbe riuscire a essere tanto disinvolto con ogni personaggio che scrivo. Alla fine, era come se Topolino lo avessi inventato io. Ne conoscevo le regole segrete, non scritte.



CUS: Tanto per ripetermi … fino ad ora hai lavorato principalmente su grandi personaggi, in alcuni casi si trattava di vere e proprie icone dell’immaginario fumettistico. Un lavoro molto duro secondo me, perché sempre soggetto a confronti con i tuoi predecessori e, soprattutto, con i creatori dei personaggi. In genere come è stata l’accoglienza dei lettori ai tuoi interventi su questi personaggi?

TF: Non so. È difficile dirlo. Alle fiere e agli incontri con il pubblico sento tanto calore. E, talvolta, mi pare che più mi spingo avanti, lontano, più ci siano lettori disposti a seguirmi. Ho bazzicato alcune volte nei forum, “spiando”, ma … poi ho smesso. Non ho il fisico.

CUS: Quando potremmo finalmente leggere un personaggio interamente partorito dalla tua fantasia? Ho sentito dire che presto potremmo leggere una maxi-serie da te creata per la Bonelli, è vero?

TF: Allora, vediamo? Cosa posso dire senza che arrivi a casa mia un killer ninja mandato dalla Bonelli? Per cominciare, sarà una “mini” serie di sedici numeri, con cadenza mensile. Sarà ambientata negli anni Cinquanta. (Ma non sarà un fumetto anni Cinquanta!) Il primo numero lo sta disegnando il grande Bruno Brindisi, e poi c’è al lavoro un team di disegnatori davvero straordinario. E… erano molti anni che non scrivevo storie con tanto vigore e tanta ispirazione. Mi sembra di avere ritrovato tutta l’energia dei primi tempi. Volevi sapere di più, eh? Ma io ci tengo alla vita.

CUS: Mi dispiace, ma non puoi cavartela con così poco … mi devi dire qualcos’altro! Ad esempio ho notato che in giro c’è molta perplessità sul fatto che questa tua fatica sarà di soli sedici numeri; insomma, se questa maxi serie dovesse avere successo si continuerà? Sarà trasformata in serie regolare?

TF: Mi sembra decisamente troppo presto per porsi un problema del genere. Che, fra l’altro, sarebbe di competenza non solo mia, ma anche, soprattutto, dell’editore. La Bonelli mi ha chiesto di studiare una mini serie di sedici numeri. E io ho fatto questo. Esattamente questo. Con entusiasmo per il “format” (si dice così, no?). Quindi ho lavorato su un arco narrativo di sedici storie, che si apre e si chiude e ha una sua circolarità. Certo, posso subito dirti che si è creato un ottimo gruppo di lavoro, sotto la guida di Mauro Marcheselli, editor e amico straordinario. E, con una squadra così, si possono giocare tante partite.

CUS: Cosa ha di così innovativo questa tua opera?

TF: Probabilmente la sua peculiarità è contenuta proprio nel fatto di essere stata ideata e sviluppata come un’operazione con una durata limitata. Con un arco narrativo deciso in partenza. Inoltre, il personaggio della serie è un eroe singolo, senza spalle fisse. Ma non per questo solitario, anzi. Le sue storie sono piene di incontri, e di addii (talvolta dolorosi). E alcuni personaggi potranno durare per più di un numero. Il personaggio avrà una crescita attraverso tale arco narrativo. Cambierà il suo punto di vista sul mondo, e anche su se stesso. Imparerà, crescerà. Alla fine di ogni storia, le cose non tornano mai come all’inizio. I sedici episodi di questa serie, pur essendo perfettamente leggibili a sé stanti, racchiudono un flusso continuo di avvenimenti. Avvenimenti narrati con un ritmo molto serrato. Sapere di avere “solo” sedici numeri davanti mi ha, in qualche modo, spinto a mettere in ogni numero tanto, tutto. A spingere i motori al massimo. È una serie in cui si succedono una molteplicità di avvenimenti e di colpi di scena. Ma della quale, pur avendo saltato qualche numero, è sufficiente leggere poche pagine per capire cosa sta accadendo. Questo ci tengo a precisarlo.



CUS: Non temi che una serie così palesemente differente dallo stile Bonelli possa poi, nel giro di pochi episodi, provocare la perdita di quello zoccolo duro di lettori dei fumetti prodotti proprio dalla Bonelli?

TF: Scusa, ma ti contraddico. Non la trovo affatto differente. Credo, anzi, che il mio eroe nasca da una lunga tradizione a cui i lettori bonelliani sono affezionati. E la rinnovi, rispettandola. È un eroe dotato di una grande forza fisica e interiore. In grado di superare le avversità, anche a scapito della sofferenza fisica. Sente le costole rompersi, contandole a una a una, eppure va avanti. È l’”ultimo uomo in piedi”, come il detective senza nome di Hammett. Forgiato dal piombo e dal sangue. Certo, ha influito anche il mio grande amore per il fumetto americano. Ma è un amore che altri condividono, in via Buonarroti.


CUS: Non potresti fornirmi qualche altra indiscrezione riguardo lo staff dei disegnatori?

TF: Ti ho già detto che il primo numero sarà realizzato dal grande Bruno Brindisi. Poi ci saranno Anna Lazzarini, Giancarlo Caracuzzo, Giovanni BruzzoLuca Raimondo, Alessandro Bignamini … penso che possa bastare per accontentare la tua sete di notizie, no?

CUS: Bhè, se mi dicessi almeno il nome del copertinista …

TF: Al momento non è stata presa ancora alcuna decisione. Diciamo che mi farebbe molto piacere, anche in nome dell’amicizia che ci lega, se il grande Fabio Celoni entrasse in qualche modo a far parte dello staff … ma non sto necessariamente parlando delle copertine. Peraltro, Fabio è molto impegnato su Dylan Dog, per il quale è già diventato un disegnatore prezioso. Bah… ho un debole per quel ragazzo.

CUS: dello staff di … ?

TF: Mi vuoi morto … comunque non posso rivelarti il nome della serie … lo renderemo ufficiale solo alla fine …

CUS: Puoi almeno dirmi se avrà le iniziali uguali?

TF: La voglia ci sarebbe… e sarebbe un modo di rendere omaggio a una gloriosa tradizione. Non solo bonelliana: Peter Parker, Reed Richards, Bruce Banner…




CUS: Parliamo dell’argomento che maggiormente fa parlare di te in questo momento: L’Uomo Ragno a Venezia. Come è nato questo progetto?

TF: Un anno fa, a Lucca. Davanti allo stand della Panini. Qualcuno mi ha chiesto se c’era ancora un personaggio che desiderassi scrivere. E io cosa potevo rispondere? Enrico Fornaroli era lì … e il resto è stato una galoppata travolgente.

CUS: Perché avete deciso di ambientare la storia in Italia e, in particolar modo, a Venezia? Non hai mai pensato che sarebbe potuta sembrare una mossa un po’ troppo “piaciona” per vendere la storia in altri paesi in cui i luoghi comuni sul nostro paese la fanno da padrone?

TF: Sì, ma in quella storia i luoghi comuni non ci sono. Anzi, c’è uno scarto fra le attese e ciò che poi accade. Di Venezia non si vedono le solite cose, da cartolina. E non è una scelta opportunistica. Quella storia poteva svolgersi solo lì. Venezia non è sulla cornice, ma nel cuore del racconto. A volte è bello dare al lettore l’impressione di volersi muovere su binari classici, scontati, e poi cominciare a fare degli scarti, delle deviazioni. Disattendere le attese. E poi Giorgio Cavazzano è veneziano. Da tempo voleva ambientare una storia nella sua città … e da cosa è nata cosa.

CUS: Sinceramente ho apprezzato molto “L’UOMO RAGNO E IL MISTERO DEL VETRO” ma altrettanto sinceramente devo confessarti che al termine della lettura mi è rimasto un forte senso di frustrazione, conseguenza della esiguità del numero di pagine e della voglia di voler leggere altre tue (e di Cavazzano) storie ragnesche. C’è una qualche possibilità in futuro di leggere qualche altra tua storia ambientata nel Marvel Universe?

TF: Era importante fare questa storia, e farla così. Per aprire una strada. Ora sarebbe un peccato chiuderla. Ci siamo trovati tutti bene, alla Panini sono dei grandi, Quesada mi ha chiesto ben poche correzioni. Certo, se dovesse ricapitare, spingerei un po’ più il piede sull’acceleratore…



CUS: Così non fai che alimentare la mia curiosità. Che cosa intendi per “spingere il piede sull’acceleratore?

TF: Con questa prima storia era molto importante dimostrare a tutti che era possibile realizzare in Italia una bella storia dell’uomo ragno. Il nostro obiettivo era proprio questo, dimostrare che degli autori italiani erano in grado di lavorare con bravura su personaggi americani (esigenza che non avevo quando iniziai a scrivere le avventure degli eroi Disney, perché l’abilità, la capacità di scrivere storie dei personaggi Disney da parte di autori italiani era già provata). Insomma, e scusate il paragone, un grande cuoco prima di cucinare un piatto esclusivo, dovrà pur dimostrare di saper cucinare un qualcosa di (apparentemente) elementare come un filetto? Ed è proprio questo che dovevamo dimostrare anche noi…

CUS: Perché hai creato un cattivone ad hoc? Volevi imprimere il tuo marchio nella variegata galleria di nemici di Spider Man?

TF: All’inizio avevo pensato a Kingpin, poi a Morbius. Poi però c’erano problemi di continuity, e già era difficile fare spostare un personaggio a Venezia, con una ragione plausibile. Figuriamoci due.

CUS: se venisse utilizzato in altre storie dell’uomo ragno, ti sentiresti più lusingato o infastidito?

TF: Lusingato! Ci mancherebbe altro!


CUS: A quali modelli di riferimento ti sei ispirato per creare il tuo uomo ragno?

TF: Due. Stan Lee e Straczynski. Un grande maestro, da cui c’è sempre da imparare. E un suo grande erede, con cui trovo molte affinità stilistiche.

CUS: Su quali personaggi del comicdom statunitense ti piacerebbe lavorare?

TF: Il primo fumetto che ho letto, a sette anni, era una storia di Devil. Quindi…

CUS: Sei un lettore di fumetti? Quale genere prediligi?

TF: Sono un grande lettore di fumetti. Continuano a piacermi. Per esempio, leggo tutto ciò che esce della Marvel. E qualunque cosa scriva Alan Moore (sempre sia lodato). E molta Bonelli, non solo per lavoro. E Berserk. E John Doe. E … quante pagine abbiamo, Stefano?



CUS: Giusto le righe per rispondere a quest’ultima domanda … nell’ambito della Marvel, cos’è che attualmente ti appassiona maggiormente?

TF: La mia serie preferita è Ultimates, un vero gioiello, Anche se… non molto tempo fa ho avuto l’occasione di leggere una sceneggiatura di Millar, ed ho scoperto che sono molto vaghe. Mi sono chiesto: come è possibile che da così poche indicazioni possano nascere storie belle come quelle che vengono poi proposte al lettore? Di certo ci sarà un gran lavoro da parte di Brian Hitch, e questo giustifica anche i lunghi tempi di realizzazione di un episodio. Poi adoro tutto quello che scrive Morrison, dunque trovo impedibili i suoi X-men. L’Uomo Ragno di Straczynski. Non riesco a digerire, nonostante il mio amore per Peter David, Capitan Marvel. Trovo deludente il Wolverine di Tieri. Apprezzo moltissimo Ennis … anche se, dal momento che Nick Fury era uno dei miei eroi d’infanzia, leggere le sua gesta nel restyling dell’irlandese mi ha fatto molto male … insomma la Marvel sta attraversando nel complesso un ottimo periodo.

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Napoli, 18 dicembre 2003

Stefano Perullo
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