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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Joker, recensione: Fare arte finché qualcuno muore

L’ambizione autoriale che si muove dietro a Joker, il film diretto da Todd Phillips vincitore del Leone d’Oro a Venezia, è evidente fin dai titoli di testa, dove il logo della Warner Bros., casa produttrice, non è quello attuale ma il corrispettivo usato negli anni ’70. Il legame che Phillips vuole creare con quel periodo, l’ultimo veramente innovativo del cinema americano, è evidente e dichiarato fin dal concepimento del progetto.

Nel 2016 il regista propone alla Warner una origin story sul principe pagliaccio del crimine, scollegata dal resto delle pellicole dell’universo condiviso DC che peraltro, dopo il flop di critica di Batman V Superman e il disastro creativo e commerciale di Justice League, sta subendo un ripensamento. Messo da parte per il momento il progetto di rincorrere i Marvel Studios sul loro consolidato e remunerativo terreno, la dirigenza dà il semaforo verde a Phillips. L’aspirazione del regista è quella di allontanarsi dai cinecomics che vanno per la maggiore, e di realizzare un dramma urbano sulla triste storia di un comico fallito, afflitto da un disturbo neurologico che gli procura un disagio psichico, che vive ai margini di una metropoli disumana dei giorni nostri, sporca ed opprimente, rifiutato e respinto da una società crudele verso gli ultimi. Il progetto acquista prestigio quando viene coinvolto come produttore Martin Scorsese, che dovrà però ben presto abbandonare in favore di progetti personali, vedi The Irishman di prossima uscita. Lo spirito guida del regista italoamericano però rimane anche in sua assenza, e Joker è prima di tutto un omaggio alla sua cinematografia, con chiari riferimenti a Taxi Driver, e, soprattutto, Re per una notte, seppur tragga ispirazione da tutto il giovane cinema americano di rottura degli anni ’70, vedi i Francis Ford Coppola, Paul Schrader e Brian De Palma, quest’ultimo omaggiato in una scena in cui la pellicola, del tutto desaturata da elementi pop, si aggancia in modo inaspettato e sorprendente al mito batmaniano. Il collegamento spirituale all’opera di Scorsese è simboleggiato dalla presenza di Robert DeNiro, protagonista tanto di Taxi Driver quanto di Re per una notte, in cui interpretava un altro aspirante comico fallito a cui l’Arthur Fleck interpretato da Joaquin Phoenix si rifà esplicitamente.

Tra le tante polemiche suscitate dal film ancora prima della sua uscita c’era la paura che la pellicola potesse essere indulgente nei confronti del suo protagonista che, al netto dei traumi subiti, resta comunque un assassino. Qui forse c’è l’unica pecca del film di Phillips: i Travis Bickle e i Rupert Pupkin della coppia DeNiro/Scorsese vengono presentati con tutte le loro ossessioni senza giustificazioni ed alibi, proprio per evitare un transfer d’identificazione nello spettatore. L’Artur di Phoenix, invece, fin dai primi minuti attraversa un calvario degno de La Passione di Cristo che in qualche modo potrebbe giustificarne le azioni. Phillips è abile nel disinnescare la costruzione di un messaggio moralmente ambiguo attribuendo la responsabilità dell’esplosione della violenza fin li covata da Artur alla pistola inopinatamente procuratagli da un collega. Il terreno viene quindi spostato su un argomento di dibattito da sempre molto caldo negli USA dove, invece di pretendere una seria regolamentazione del possesso delle armi, si è pensato di assoldare un servizio d’ordine armato in alcune catene delle sale cinematografiche dove Joker verrà programmato. Anche l’accusa di fomentare la rivolta sociale armata cade nel vuoto, perché il film mostra chiaramente come ogni rivoluzione scaturita dall’odio e dalla rabbia e non strutturata nei contenuti è destinata a risolversi in caos e disordine fine a se stesso.

Altra accusa rivolta preventivamente al film, questa volta dal popolo di internet e dei social, era quella di una scarsa attinenza col materiale di provenienza. Niente di più sbagliato: la forza dei personaggi dell’universo di Batman, creati da Bob Kane e Bill Finger, è sempre stato quello di parlare ad un pubblico ampio e a varie fasce di età. Joker è un personaggio che può vivere tanto in una serie animata quanto in una pellicola V.M.14 come questa che è, a tutti gli effetti, la versione per lo schermo di un graphic novel per un pubblico adulto, come quelle che la DC pubblicava fino a pochi anni fa nell’etichetta Vertigo e oggi propone con il bollino Black Label. A voler essere pignoli, si potrebbe solo contestare l’insistenza nel voler fornire una genesi precisa ad un personaggio che ha sempre fatto del suo essere un agente naturale del caos e delle sue origini avvolte nel mistero la sua forza e il suo fascino, per quanto un brillante twist di sceneggiatura, determinante per la trasformazione del personaggio, rimescoli parecchio le carte.

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Ma quanto detto finora non rende giustizia alla carica rivoluzionaria di cui Joker è portatore non solo nel sottogenere cinecomics, ma nell’intero panorama dell’attuale cinema a stelle strisce. In un momento storico in cui gli studios si fanno la guerra per il possesso di remunerativi franchise e mettono in listino solo reboot, remake e sequel di saghe sfruttate fino allo sfinimento, mentre un maestro come Scorsese deve rivolgersi a Netflix per produrre non un piccolo film intimista, ma un appetibile gangster movie con due mostri sacri come DeNiro e Al Pacino, il film di Todd Phillips compie il miracolo di mettere la performance di uno straordinario attore e una messa in scena evocativa al centro di un prodotto mainstream. Sorprende la cifra stilistica raggiunta dal regista di Una Notte da Leoni. Prima di Joker, la scena cult della sua filmografia era quella della frittella in Roadtrip, e chi ricorda quel film becero ma divertente sa di cosa parliamo. Scherzi a parte, Phillips ha saputo trasferire la carica eversiva del cinema demenziale dei suoi inizi in un film drammatico, raggiungendo una dimensione autoriale importante, sia formale che di contenuti. Un filmaker che non ha paura di battere la lingua dove il dente duole, vedi il discorso sulle armi a cui facevamo riferimento. Ma non solo: con Joker, propone uno specchio non deformato, ma tristemente veritiero, della società americana del momento. Un riflesso in cui l’opinione pubblica americana ha avuto paura di specchiarsi, come dimostra l’accoglienza nervosa riservata al film in patria. Un’America che taglia i servizi sociali, emargina e abbandona gli ultimi, confinati a sottoproletariato urbano, ed elegge miliardari che hanno costruito ricchezze e imperi sottraendo risorse ai più poveri. Interessante in questo senso è il ribaltamento di prospettiva del classico canone batmaniano dove Thomas Wayne abbandona il ruolo di “vittima” e  diventa l’emblema di questa borghesia snob e arricchita. Scenario di questo disastro sociale è una Gotham City in preda allo squallore e al degrado, a cui presta il volto una New York decadente catturata dalla fotografia livida di Lawrence Sher. Significativa la scelta di girare nella Grande Mela, che nelle intenzioni originali di Kane e Finger, era il modello scelto per Gotham.

Ci sarebbe poi da parlare della colonna sonora, delle scelte perfette nella selezione dei brani, come la struggente Smile di Charlie Chaplin nell’indimenticabile versione di Jimmy Durante, ma ci troviamo di fronte ad un’opera che fornisce innumerevoli spunti di riflessione che un solo articolo non può contenere. Chiudiamo quindi parlando dell’anima del film, un monumentale Joaquin Phoenix alle prese con uno di quei ruoli che definiscono una carriera. Un Phoenix dimagrito di 25 kg che soffre, ride, ma con una risata che nasconde un drammatico disturbo neurologico, si contorce e prende botte, tante, in una prova di recitazione patibolare che scuote e commuove. Qui siamo di fronte ad un attore che non interpreta un personaggio, lo diventa. Il migliore attualmente in circolazione, considerando l’ennesimo ritiro dalle scene di Daniel Day-Lewis e l’inaffidabilità di una ex promessa che ha dissipato molto del suo talento come Edward Norton. Se quelli dell’Academy non si faranno prendere dalla tentazione, come accaduto spesso in passato, di scelte provocatoriamente originali, l’Oscar per la migliore interpretazione è già suo.

Uscito da pochi giorni, Joker ha già suscitato forti consensi e feroci polemiche, ma le implicazioni delle sua irruzione in un mercato cinematografico dominato da logiche commerciali di produzioni in serie devono essere ancora comprese appieno. Si tratta di un film che spariglia le carte, scardina le certezze di una scena cinematografica americana attuale paludata, conservatrice e conformista, appiattita sulla logica del profitto. Al contrario, questo è cinema che nasce da un’esigenza artistica, nobilitato da un titano della recitazione. Come direbbe il vecchio Joker di Jack Nicholson: qui si fa arte, finché qualcuno muore.

Vecchio Occhio di Falco 2 - Giustizia Cieca, recensione: la fine del viaggio

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Nel 2008 usciva nelle fumetterie americane Old Man Logan, pubblicato in Italia col titolo di Vecchio Logan, saga futuristico – distopica di grandissimo successo per i testi di Mark Millar e i disegni di Steve McNiven. Nel futuro desolato immaginato dallo sceneggiatore di Kick-Ass e Kingsmen, i supercriminali si sono alleati tra loro e hanno sconfitto tutti gli eroi, uccidendone la maggior parte, così da spartirsi gli Stati Uniti d’America. Tra i pochi sopravvissuti c’è Logan, l’uomo un tempo conosciuto come Wolverine, che conduce una modesta vita di agricoltore nell’area una volta corrispondente alla California, ora proprietà della terribile gang degli Hulk. Il mutante verrà coinvolto suo malgrado dall’amico ed ex collega Vendicatore Occhio di Falco, ormai cieco, in una ultima avventura on the road attraverso ciò che resta degli USA, in un disperato tentativo di rovesciare il governo del Teschio Rosso, insediatosi alla Casa Bianca dopo la caduta degli eroi. Mad Max in salsa superoistica, Old Man Logan fu una delle “hit” di maggior fortuna della Marvel dello scorso decennio, ispirando in parte uno dei migliori cinecomic mai realizzati, quel Logan vincitore di un Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.

La stessa Casa delle Idee è tornata più volte a visitare la distopia immaginata da Millar e McNiven, prima facendo arrivare nell’universo Marvel regolare lo stesso Vecchio Logan a seguito degli eventi del cross-over Secret Wars, poi con un “prequel” ufficiale dedicato stavolta al vecchio Clint Barton e realizzato dal duo composto da Ethan Sacks e Marco Checchetto.

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Uscito in Italia in occasione della scorsa mostra mercato di Lucca, il primo volume di Vecchio Occhio di Falco aveva stupito i lettori per la disinvoltura dimostrata dal quasi debuttante Sacks nel costruire un western distopico avvincente e nel giocare con la vasta continuity Marvel, riuscendo a sfuggire abilmente al confronto con l’ingombrante prototipo; ma il vero fiore all’occhiello di quei primi sei numeri era costituito dai disegni al fulmicotone del nostro Checchetto, alle prese col lavoro che lo collocava definitivamente tra i più grandi talenti del mercato fumettistico a stelle e strisce. Tavole spettacolari e dirompenti, cariche d’azione, unite ad un restyling ispirato di alcuni tra i più classici eroi e criminali del cosmo Marvel.

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Nel secondo volume della maxiserie ritroviamo il vecchio Clint Barton, l’uomo che un tempo era conosciuto come il vendicatore Occhio di Falco, intento a riprendere il suo viaggio in compagnia della sua vecchia amica ed aiutante Kate Bishop, che in passato aveva sostituito proprio Clint nel ruolo di arciere. Barton, ormai reso quasi cieco da un glaucoma, sta attraversando gli Stati Uniti d’America per andare a caccia dei vecchi membri dei Thunderbolts, squadra di ex-criminali solo apparentemente redenti, che si erano resi responsabili del tradimento e del massacro della squadra di Avengers guidata da Clint, compresa l’amata Natasha Romanoff, la Vedova Nera. Come nelle rese dei conti dei migliori film western, Clint somministrerà una vendetta implacabile ai suoi avversari, fino ad arrivare allo scontro finale col Barone Zemo, il leader dei Thunderbolts. Come se non bastasse, i due arcieri sono tallonati da Bullseye, la spietata nemesi di Daredevil, ora “sceriffo” al soldo del Teschio Rosso, che ha provveduto a  potenziarlo con innesti cibernetici alla Deathlok.

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Il viaggio di Vecchio Occhio di Falco arriva alla sua conclusione, purtroppo, circondato da un’imprevista atmosfera di disimpegno: la resa dei conti finale tra Clint, Zemo e Bullseye risulta piuttosto di maniera e non all’altezza delle aspettative suscitate dal primo, ottimo volume. Ma le noti dolenti arrivano soprattutto dal reparto grafico: Checchetto realizza solo tre dei sei numeri contenuti nel volume, in quanto scelto dalla Marvel come illustratore del nuovo corso di Daredevil (dove sta svolgendo un lavoro egregio), e i sostituti scelti non sembrano all’altezza del talento dell’artista veneto. L’episodio chiave, quello contenente il lungo flashback sul massacro degli Avengers da parte dei criminali, viene affidato al brasiliano Ibraim Roberson, un discreto artigiano del tavolo da disegno e nulla più, che con le sue tavole dalla composizione piuttosto semplice non riesce a trasmettere il pathos di un momento così doloroso e determinante per l’intera vicenda. Gli episodi conclusivi sono opera della matita dell’italiano Francesco Mobili, qui al suo primo incarico per Marvel Comics. Pur lasciando intravvedere qualità interessanti per quanto riguarda il  dinamismo e la struttura della tavola, l’artista toscano è al momento un buon prospetto di disegnatore che ha bisogno di crescere e ogni paragone col lanciatissimo Checchetto ci sembra al momento improponibile e ingeneroso. Lo aspettiamo con curiosità alle prossime prove.

Vecchio Occhio di Falco conclude la sua corsa con un secondo volume che non risponde del tutto alle aspettative suscitate, lasciando nella bocca del lettore il gusto amaro di un’occasione sprecata.

Historica 77 Ribelli - L'alba degli Stati Uniti d'America, recensione: Quello che la Storia non dice

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Dopo essersi fatto un nome in Marvel con serie mainstream come X-Men e Moon Knight e in DC, sponda Vertigo, con serie originali come DMZ e Northlanders, Brian Wood si era accasato alla Dark Horse Comics sfornando ottimi lavori, prima di essere travolto dallo scandalo a sfondo sessuale di cui vi abbiamo dato conto qualche giorno fa.

Tra le opere prodotte per l’editore del cavallino nero, sicuramente è l’epopea storica di Rebels quella ad aver ricevuto i maggiori consensi di pubblico e critica. Ripercorrendo la storia della lotta per l’indipendenza delle colonie americane dal giogo della Corona inglese, l’opera di Wood ha il merito di non cadere né nella retorica patriottica di pellicole come Il Patriota, né tanto meno di indugiare in quell’agiografia storica che un soggetto del genere potrebbe ispirare. I protagonisti di Rebels non sono infatti i grandi generali celebrati nei libri di storia (che peraltro appaiono ma in ruoli secondari, vedi George Washington), ma contadini e persone semplici che devono lasciare le proprie famiglie per andare a combattere – e a morire – in guerre per le quali non verranno mai ricordati. Mondadori ha già pubblicato, nei volumi 37 e 63 della collana Historica, i primi due archi narrativi della serie scritta da Wood per le matite del nostro Andrea Mutti.

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La nuova uscita, intitolata Ribelli – L’Alba degli Stati Uniti d’America, si discosta dalla macro narrazione degli eventi che hanno definito la rivoluzione americana mostrati nei capitoli precedenti e ci presenta una raccolta di racconti intimisti, dei veri e propri interludi usciti originariamente tra i due blocchi già pubblicati qui da noi. Pur nella loro brevità, questi brevi episodi autoconclusivi sono paradigmatici della scelta ideologica, da parte di Wood, di raccontare la Storia attraverso gli occhi delle persone comuni anche se alcune tra queste, come vedremo, sono alquanto straordinarie. È il caso, in particolare, dei due ritratti femminili con i quali si apre il volume.

Protagonista del primo è Sarah Hull, moglie di un sergente delle forze armate di George Washington. Sarah sposa totalmente la causa del suo uomo: mentre questi è impegnato nel campo di battaglia, la donna si dedica con impegno a procacciare il cibo per le truppe e a cucinarlo, oltre che a rammendare le vesti. Il destino pretenderà un coinvolgimento ancora maggiore della donna nella battaglia, quando il marito verrà ferito gravemente e Sarah si troverà costretta a sostituirlo nella indispensabile attività di ricarica dei cannoni. Con questo racconto breve Wood omaggia tutte le donne che ebbero un ruolo attivo nella guerra d’indipendenza senza poter ottenere alcun riconoscimento, visto che i loro diritti non erano equiparati a quelli degli uomini, vedi l’accesso allo statuto militare e relativa pensione.

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Un altro esempio di straordinaria abnegazione alla causa è quello narrato nel secondo episodio, in cui facciamo la conoscenza di Silence Bright, mezzosangue proprietaria di una tipografia clandestina di Boston, nella quale segretamente produce volantini contro le truppe lealiste che occupano la città, sposando così la causa rivoluzionaria. Quando i soldati britannici riusciranno a trovarla e ad arrestarla, saranno stupefatti nello scoprire che dietro al pericoloso ribelle si nascondeva una donna, oltretutto meticcia, ma soprattutto colta. Come brillantemente sottolineato da Sergio Brancato nell’introduzione al volume, Wood intreccia la storia della Rivoluzione con il ruolo crescente della donna nella società e con l’importanza sempre maggiore della stampa, che proprio con la Rivoluzione Americana diventa protagonista della società industriale di massa.

Concludono il volume tre vicende al maschile: si va da Clayton Freeman, soldato afroamericano al servizio della Corona, da lui ritenuta meno crudele dei suoi “padroni” americani, al pellerossa Stone Hoof, guerriero pellerossa che per fedeltà alla sua tribù si trova a combattere i coloni di origine inglese con cui aveva stretto amicizia di bambino. Nel raccolto finale, dietro la vicenda del soldato semplice Matthew Kilroy, Wood dedica uno struggente omaggio a tutti quegli arruolamenti coatti che hanno fornito carne da macello ai campi di battaglia della Storia.

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Come nei precedenti volumi, Brian Wood rifugge qualsiasi tentazione di celebrazione retorica, prediligendo l’osservazione quasi naturalistica dell’animo umano quando questi si trova ad attraversare un periodo storico complesso e convulso. La sua è una prosa di grande sensibilità, carica di sentimento e compassione. Ad accompagnare lo scrittore in questa terza uscita italiana di Rebels troviamo un comparto grafico ricco e di assoluto valore. Oltre al titolare della serie, il nostro Andrea Mutti che torna nuovamente a collaborare con Wood, si aggiungono per l’occasione alla lista degli illustratori Matthew Woodson, Ariela Kristantina e Tristan Jones. Una lista eterogenea di artisti che consente un cambio di registro grafico interessante: si passa dalle linee chiare di Woodson e Mutti ai pennelli sporchi e carichi di atmosfera della Kristantina e di Jones, che illustrano le vicende di Silence Bright e del soldato Kilroy. Una piacevole continuità cromatica viene comunque assicurata dai colori di Jordie Bellaire, mentre Tula Lotay fornisce un importante contributo con le sue evocative copertine.

Un’uscita notevole, questo nuovo capitolo dell’epopea storica concepita da Brian Wood la cui prosecuzione negli States sembra essere però a rischio dopo la decisione della Dark Horse di chiudere ogni rapporto con lo scrittore a seguito di quanto accennato in apertura.

 

Grandi Eventi Marvel: Atti di Vendetta 1, recensione: la rivincita dei villain

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Se per giustificare la sua esistenza un eroe ha bisogno di un grande cattivo contro cui battersi, la Marvel ha senza dubbio provveduto a questa necessità fin dalla nascita del suo universo fumettistico. Nel concepire delle nemesi all’altezza dei propri campioni del bene, Stan Lee e soci hanno dato vita ad alcuni dei più grandi villain della storia dei comics e non solo. Basti pensare a personaggi dalla psicologia complessa e tormentata, quasi shakespeariana, come il Dottor Destino e Magneto o all’incarnazione del male assoluto, il Teschio Rosso. Una rogue gallery sterminata, che spazia dai grossi calibri dediti a piani di conquista come quelli citati alla semplice manodopera del crimine che si accontenta di rapinare banche. Gente come Melter, che era una spina nel fianco di Iron Man nei suoi primi anni di carriera nonostante la sua unica capacità fosse solo quella di sparare direttamente dal petto un raggio capace di fondere i metalli.

Nemici semplici per tempi più semplici. E in quei tempi più semplici i “cattivi” erano un elemento essenziale delle vicende dei super-eroi Marvel, fino a quando la realtà ha fatto drammaticamente capolino nei colorati albi in quadricromia dell’editore a seguito della tragedia dell’11 settembre. Quella data funesta segna uno spartiacque anche nella produzione dell’editore. Improvvisamente, gli eroi non affrontavano più i loro avversari tradizionali ma un pesante clima di restrizione delle libertà costituzionali, giustificato dalla necessità di garantire maggiore sicurezza alla nazione. Ecco comparire il famigerato Atto di Registrazione dei Super-Umani, con la comunità dei super-eroi drammaticamente divisa in una fazione pro e una fazione contro: la Civil War ideata da Mark Millar e Steve McNiven, che diede il via alla tendenza degli eroi "l’un contro l’altro armato" che ha attraversato il comicdom statunitense per almeno un decennio, lasciando in naftalina intere schiere di “cattivi” classici. Ma questa è un’altra storia. Noi invece torniamo indietro di 30 anni in uno dei periodi di massimo fulgore dei bad guys della Marvel.

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Era l’estate del 1989 quando la Casa delle Idee scelse alcuni tra i più importanti dei suoi villain come attori principali del canonico cross-over del periodo delle vacanze, donando loro un meritato momento di gloria. Dopo anni in cui i riflettori erano stati puntati principalmente sull’universo mutante e sulle testate degli X-Men, campioni di vendite assoluti di quel decennio, si decise di riportare l’attenzione su eroi classici come Vendicatori e Fantastici Quattro, che in quel periodo non si trovavano ai primi posti delle preferenze del pubblico. Serviva un’idea forte per attrarre i lettori e quell’idea arrivò, tanto semplice quanto efficace. Un misterioso e smilzo criminale, dotato della capacita del teletrasporto, invita a far parte di una Cabala segreta sei tra i più letali malvagi dell’Universo Marvel: il Dottor Destino, Magneto, Kingpin, il Teschio Rosso, Wizard e il Mandarino.  Una volta riunitisi in assemblea, il losco figuro suggerisce ai suoi interlocutori un piano della logica inoppugnabile: poiché gli eroi sono ormai abituati alle loro nemesi, che puntualmente sconfiggono, non resta altro che confonderli facendoli attaccare da avversari ai quali non sono preparati. Atti di Vendetta, questo il titolo dello storico evento che in quella lontana estate coinvolse l’intero parco testate Marvel, rappresaglia sapientemente ordita dalle sei menti criminali, denominatisi “agenti primari”, che dietro le quinte organizzavano attacchi agli ignari eroi da parte di nemici mai affrontati prima.

La trama principale si sviluppò principalmente sulle testate legate al mondo degli Avengers, salvo poi spandersi a macchia d’occhio su tutte le serie pubblicate dall’editore, passando dalle serie ragnesche a quelle mutanti, fino a quelle degli eroi urbani come Punisher, Daredevil e Moon Knight e tante altre. Il volume della serie Grandi Eventi Marvel, primo di due, con cui Panini Comics ristampa la saga a venticinque anni dalla prima pubblicazione italiana, contiene i capitoli principali dell’evento, pubblicati sulle collane “vendicative” Avengers, Avengers West Coast, Avengers Spotlight, Captain America, Iron Man, Quasar. È su queste pagine che prende le mosse Atti di Vendetta, con una fuga di massa di criminali dalla Volta, il carcere per superumani dell’Universo Marvel, ordita dalla Cabala e parzialmente contenuta da un intervento di Iron Man e Occhio di Falco. In rapida sequenza, vedremo i piani della malefica congrega prendere forma: dapprima con l’affondamento dell’Idrobase, la stazione acquatica dove in quel periodo gli Avengers avevano stabilito la propria base, qui difesa dal solo Quasar, successore del Capitan Marvel originale come Protettore della Terra appena reclutato dagli Avengers.

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Proprio Quasar sarà uno dei primi Vendicatori a doversi confrontare con un avversario per lui inusuale, Crusher Creel detto l’Uomo Assorbente, mentre Capitan America affronterà un suo tradizionale alleato, Namor il Sub-Mariner, mentalmente manipolato dal Controllore. Iron Man se la dovrà vedere contro il Demolitore, usuale avversario di Thor, e Chemistro, villain minore della scuderia Marvel. La saga prosegue anche in un trittico di Fantastic Four, riproposto nel volume, in cui il Quartetto dovrà affrontare non tanto gli attacchi a ripetizione di alcuni tra i più improbabili cattivi marvelliani, quanto il tentativo del Congresso degli Stati Uniti d’America di far approvare un atto di registrazione dei super-umani, antesignano di quello citato in apertura. Si passa senza soluzione di continuità ad un’avventura in due parti di Wolverine, in cui il mutante canadese in trasferta deve opporsi tanto al regime autoritario dell’immaginaria nazione sudamericana Tierra Verde, quanto allo Squalo Tigre, usuale avversario di Namor, inviato da Kingpin e soci per eliminare l’eroina locale, La Bandera. Ma la ragazza potrà contare sull’aiuto insperato di Logan. Il grande botto, l’acuto qualitativo, il volume lo riserva per il finale, con un episodio di Avengers West Coast scritto e disegnato da John Byrne, il “Re Mida” del fumetto americano anni ’80. Seppur collegato ad Atti di Vendetta, con lo scontro tra la filiale della Costa Ovest degli Avengers e gli U-Foes, controparti malvagie dei Fantastici Quattro, l’episodio è un tassello importante della trama inerente Scarlet Witch e la sua trasformazione in “Scarlet Nera” che il cartoonist stava brillantemente portando avanti sulla collana, ispirando più di tre lustri dopo Brian Micheal Bendis per la sua seminale Avengers: Disassembled.

Dal punto di vista qualitativo, Atti di Vendetta è caratterizzata da alti e bassi dovuti alla differente caratura delle testate e degli autori coinvolti. La punta di diamante, come abbiamo detto, è sicuramente rappresentata dalla presenza di John Byrne, autore che non ha certo bisogno di presentazioni, esponente della nobiltà del fumetto americano degli anni ’80 insieme a talenti come Frank Miller e Walter Simonson. L’artista canadese cura sia i testi che i disegni di Avengers West Coast, realizzando tavole spettacolari improntate alla bellezza delle figure e alla potenza delle immagini. Per Avengers invece Byrne è autore solo dei testi, e confezione un’avventura avvincente per le matite classiche del compianto Paul Ryan, autore anche della storia di Quasar scritta da Mark Gruenwald. Troviamo il rimpianto “Gru”, che aveva fama di essere un’enciclopedia vivente di storia Marvel, anche ai testi di Captain America, testata che curò per un decennio e che lasciò poco prima della sua improvvisa scomparsa. Kieron Dwyer, figlioccio di Byrne, illustra la sequenza dedicata al Capitano con tratto muscolare e deciso. Ottimo anche il trittico di Fantastic Four scritto da un Walter Simonson che stava per iniziare la sua bella run come scrittore/disegnatore sulla testata del Quartetto. Di questi primi tre numeri firmò solo i testi, per i disegni del veterano Rich Buckler e del debuttante e futura star Ron Lim. Da riscoprire per la gustosa ironia dei testi di Simonson, e per l’idea di un atto di registrazione per super-umani subito bollata come una stupidaggine dal suo stesso ideatore (mentre i già citati Millar e McNiven, quasi vent’anni dopo, ci costruiranno sopra uno dei più grandi successi della storia Marvel). Il dittico di Wolverine, oltre che per i testi del grande Archie Goodwin, si segnala per la riuscita collaborazione al tavolo da disegno tra l’onnipresente Byrne, autore degli schizzi e Klaus Janson, autore dei disegni finiti. Il risultato finale è un piacevolissimo ibrido tra la consueta potenza della matita di Byrne e il pennino “sporco” di Janson.

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Le noti dolenti, che contribuiscono ad abbassare la qualità del volume, arrivano dalle pagine di Avengers Spotlight e Iron Man, dove la presenza di autori dal tratto a dir poco incerto come Al Milgrom e Herb Trimpe, onesti e preziosi faticatori del tavolo da disegno che di certo non passeranno alla storia per la qualità del proprio lavoro, pregiudica l’effetto d’insieme della raccolta. La saga, a trent’anni dalla prima lettura, risulta ancora avvincente, per quanto sia la fotografia di un’era più ingenua del fumetto americano: ma la sua forza sta proprio in questo. Sorprendono comunque i tanti spunti (l’atto di registrazione, l’evasione dalla Volta, la Cabala segreta di super-criminali, la follia di Scarlet) che verranno ripresi in seguito da autori successivi, come i già citati Bendis e Millar, con una modalità che non sembra essere casuale.

Atti di Vendetta viene presentata da Panini Comics in un brossurato della linea Grandi Eventi Marvel a cui fa seguito la seconda parte in cui la saga dei villain entrerà nel vivo con momenti entrati nella storia come la rivelazione della vera identità dell’ideatore del piano, lo scontro tra Magneto e il Teschio Rosso, il debutto dei New Warriors, l’arrivo di Scarlet Nera e il coinvolgimento di altri eroi di primo piano come Thor e Spider-Man.

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