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Ken Parker, il west e il cuore della tenebra

All'interno della complessa mitologia kenparkeriana, La leggenda del generale (numero 32 dell'originale Cepim, recentemente ristampato nel 16° volume dell'edizione Mondadori) occupa un posto di primaria importanza. Originariamente pubblicato nell'agosto del 1980, l'albo segna una svolta nella caratterizzazione del personaggio Ken Parker: egli infatti decide per il definitivo allontanamento dagli ambienti militari, a quali era legato non direttamente come soldato, ma comunque come scout o esploratore. Ken aveva già manifestato un crescente disagio nell'essere parte del complesso militare statunitense, costantemente impegnato nel genocidio sistematico della popolazione indiana, ad esempio in storie come "Lily e il cacciatore" o "Pellerossa". Tale inquietudine trova sfogo nelle battute finali dell'albo che, riveliamo per due o tre che ancora non avessero letto, culminano con la presa di coscienza (“Io ho chiuso con questa sporca guerra”), e l'immediato abbandono delle giacche blu.

Al di là del significato all'interno del disegno più grande della serie (che, ricordiamo, ha una continuity più serrata rispetto al fumetto Bonelli classico, e in cui i personaggi effettivamente invecchiano col passare degli anni), ci sentiamo di prendere il volume scritto da Giancarlo Berardi e illustrato da Ivo Milazzo, coadiuvati rispettivamente da Maurizio Mantero e Carlo Ambrosini, per fare qualche riflessione sulla rappresentazione nel popolare d'autore italiano del processo coloniale statunitense, inteso come l'espansione territoriale ai danni dei nativi. Un genocidio sistematico, come detto prima, quasi immediatamente romanticizzato nella cultura di massa come “epopea del west”. Ci sembra inoltre interessante mettere a confronto Ken Parker con un altro grande testo sul/del colonialismo anglosassone, con il quale condivide alcuni aspetti decisivi: stiamo parlando di Cuore di tenebra (in originale Heart of Darkness) del polacco (poi naturalizzato britannico) Joshep Conrad, pubblicato nel 1898. Non ci possiamo spingere ad affermare che CDT abbia costituto una fonte primaria d'ispirazione per Berardi, autore del soggetto e coautore della sceneggiatura. Le affinità potrebbero essere anche frutto di una sorprendente coincidenza, anche se è interessante notare come la pubblicazione di La leggenda del Generale, avvenuta nell'estate del 1980, sia di qualche mese successiva all'uscita nelle sale italiane di Apocalypse Now, capolavoro cinematografico diretto da Francis Ford Coppola che, come tutti sanno, rilesse in chiave contemporanea il testo di Conrad. A prescindere da questo genere di speculazioni, è impossibile non notare come il fumetto racconti di un viaggio (la prima parte su un battello a vapore!) all'interno di un territorio di scontro fra civilizzati e nativi. Un viaggio volto alla ricerca di grande uomo che è sempre più isolato oltre le linee nemiche, il generale Custer.

Il paragone Kurtz/Custer è forse quello più significativo dal punto di vista tematico e narrativo. La loro presenza-assenza arricchisce il carattere mitico con cui sono discorsivamente costruiti all'interno della diegesi. Due figure enormi e irrappresentabili, che esistono quasi solo all'interno dei narratori secondari (e terziari) che affollano la vicenda. Se Kurtz è “una persona davvero notevole” (53 dell'edizione bilingue Oscar Mondadori), Custer è “una bravissima persona, ma ha un carattere difficile” (114 della nuova ristampa di KP). Entrambi sono lontani, materialmente e moralmente isolati rispetto alle figure minori che cercano di significarne l'esperienza nel processo coloniale. Entrambi hanno da tempo valicato un limite, che in modalità differenti si articola nella contaminazione subita e prodotta (forse, l'ennesima riproposizione della tanto temuta miscegenation) nel rapporto coi nativi.
Kurtz e Custer esistono per lo più all'interno delle parole di chi li conosce, ammira e teme. Eppure anche la loro voce si aggiunge, priva di corpo, al campionario di inaffidabili narratori che si ricorrono nella vicenda. Notiamo infatti come il tristemente noto rapporto sulla “Soppressione dei costumi selvaggi” venga in qualche modo riecheggiato in Ken Parker dall'autobiografia di Custer My life on the plains, il cui contenuto diventa spunto intradiegetico per discutere sulla costruzione reatroattiva della verità storica nonché, indirettamente, sulla statura morale dell'autore (186, 187). E l'altrettanto famoso “Sterminate tutti i bruti!” che conclude l'imperiosa eloquenza di Kurtz? C'è anche quello. In uno dei tanti annedoti-flashback, che raccontano l'assalto delle giacche blu a un accampamento indiano, Custer esclama “Facciamo in modo che non si scordino più di noi” (163), seguito da “Spazzateli via!” (168). E tutto questo poco prima di invitare i propri commilitoni a comportarsi “da gentiluomini” (173).

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Tra i selvaggi e i bianchi, troviamo le due coppie di donne che affiancano i nostri prodi condottieri: la moglie di Custer, fedele e ottusa nella propria presunzione – “Io sola so com'è veramente” (116) – non può non ricordare la Promessa Sposa conradiana, vestita di nero e fluttuante nel crepuscolo, con il suo “Lo conoscevo meglio di chiunque altro” (241). Se le donne bianche sono speculari nella loro incomprensione (e la chiusura del personaggio in La leggenda del Generale è esemplificativo in tal senso), altrettanto non si può dire delle due donne native. Infatti, alla marginalità esotica della donna africana, “selvaggia e superba” (195), ricettacolo silenzioso dell'indicibile cuore della tenebra, nel fumetto fa da contrappunto la donna indiana con cui Custer ha avuto una relazione e un figlio, entrambi segreti. Donna non più (o forse, non ancora) muta, ma capace di divenire anch'essa narratrice, quando affiancata dal protagonista/osservatore Ken Parker. Madre di quel figlio bastardo che, per la sua natura meticcia, non può trovare collocazione col vecchio o il nuovo mondo. I suoi capelli biondi, ereditati dal padre Custer (ed ecco quindi ribaltato il paradigma del “going native” che informa le visione conradiane) diventano ancora una volta quel significante inappropriato del discorso coloniale, per rubare le parole al filosofo Homi Bhabha (si veda il saggio Sull'imitazione e l'uomo), l'intollerabile ibrido che disturba la dicotomia insanabile tra colonizzatori e colonizzati.

Spostandoci verso nostro protagonista Ken Parker, notiamo come abbia tutta una serie di tratti in comune con Custer e, in parte, con il giovane meticcio Yellow Swallow. Ne condivide infatti la natura liminale, nel caso del generale, e persino ibrida, nel caso del ragazzo, dopo l'esperienza indiana narrata all'inizio della serie nell'episodio "Chemako". Ken e Custer, inoltre, condividono lo status di “eroe d'invenzione”, rispettivamente all'esterno e all'interno della diegesi. Il rapporto fra i due richiama in qualche modo la strana simmetria, ampiamente sottolineata dalla critica, tra Kurtz e Marlow nell'originale conradiano. Una simmetria notata anche da Coppola che, è noto, considerò un finale in cui il Marlow cinematografico, Willard, prende il posto di Kurtz.
Confermando quindi l'identificazione tra Marlow e Ken Parker, non possiamo non notare come sia diverso il rapporto fra questi e la popolazione nativa rispetto all'originale letterario. Se per quest'ultimo gli indigeni restano una massa inintelligibile di inquietanti “forme nere” (47), la cui agognata comprensione  viene ritardata ad libitum, Ken è dall'altra parte in grado di stabilire un rapporto produttivo e paritetico con l'altro, partendo, è il caso di dirlo, dalla comprensione linguistica. Il nucleo formato da lui, la donna indiana e il bambino rappresenta una sorta di trittico familiare che riprende il meticciato – anche affettivo – del protagonista, e che si scontra coi fallimenti affettivi e relazionali di Custer.

Come analizza N. Vallorani nel saggio Gli occhi e la voce, l'“incertezza percettiva” (29) del Marlow conradiano, che si sforza di vedere e ben poco comprende, è sostenuta da una più ampia riflessione filosofica ed epistemologica sulla capacità mimetica della parola e sull'affidabilità dello sguardo, una riflessione stimolata anche dalle recenti scoperte scientifiche e dalla recente introduzione di tecnologie “mediatiche” come la fotografia e il cinema. La pretesa di veridicità porta il marinaio Marlow a sostenere nel prologo di CDT che “per comprendere l'effetto che [il Congo] ebbe su di me, dovete sapere […] che cosa vidi”. Eppure, è noto come tale stimolo sia destinato a scontrarsi con un'aporia percettiva che confonde narratori e ascoltatori/lettori: oscurità, buio, nebbia diventano dominanti tematiche e campi semantici intorno ai quali la narrazione si aggroviglia. Rimane da chiedersi se questa incertezza venga tradotta nel linguaggio del fumetto realistico bonelliano usato da Berardi/Milazzo. Ne troviamo un breve accenno, nelle parole rivolte dai suoi fedelissimi al Generale, alla sua prima apparizione al di fuori delle analessi e dell'aneddotistica. Mentre considerano l'assalto finale a Little Bighorn, commentano come “[...] ora che si è alzata questa foschia, il campo non si vede più.”. Un altro commilitone aggiunge “Abbiamo guardato, e una parte della valle ci sembrava coperta di erba marrone. Poi abbiamo capito capito che si trattava di cavalli. Cavalli a perdita d'occhio”. (190). Quest'idea di progressiva “messa a fuoco” dell'oggetto osservato non può non ricordare, ad esempio, il celebre episodio della lance di CDT, in cui Marlow constata di vedere “bastoncini, dei bastoncini minuscoli”, che solo qualche riga sotto riesce a identificare come “Frecce, per Giove!” (141). Eppure, tornando a La leggenda del Generale, è significativo come l'ambiguità sensoria sia legata a Custer, la cui persona richiama il colonialismo militare statunitense, o meglio la faccia “pulita” di esso.

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Il finale dell'opera ribalta infatti tale paradigma. Ken Parker, giunto a Little Bighorn a battaglia conclusa, è immerso immediatamente in un campo di visibilità assoluta che mostra, in pieno giorno e senza ambiguità di tipo morale e/o percettivo, la metastasi del processo coloniale. Corpi ammassati fino a perdita d'occhio, in una Guernica che lascia ben poco spazio all'immaginazione. Persino il corpo di Custer, ancora intatto, diventa un significante da interpretare tramite il senso della vista. Un indizio che, mettendo tra l'altro in luce le capacità deduttive del protagonista, rimarca l'ipocrisia ideologica di cui l'epopea del west è intrisa. La volontà di non vedere (per i compagni che si tratta di suicida, per la moglie che si tratta di un adultero) si scontra con la presa di coscienza politica di chi, come Ken, riesce ad aprire gli occhi. Non dimentichiamoci infatti come la serie Ken Parker sia sempre stata influenzata dal delicato contesto sociale e politico dell'Italia dell'epoca, e cioè gli anni di piombo, l'intensificazione ideologica, il '77, le grandi lotte sociali. Non è quindi più l'epoca per la nebbia, per il buio e l'incomprensione. Anche se il complesso militare/industriale procede più forte che mai, i singoli individui come Ken possono fare una scelta politica e rifiutarsi di prenderne parte.

Forse il cuore della tenebra c'era allora, c'è oggi e ci sarà domani. Però il viaggio alla scoperta di esso può mutare dalla catabasi esistenziale conradiana verso una maturazione personale e politica, una petit récit che rifiuta le grandi narrazioni e i sogni di conquista. Rimane solo da chiedersi che ruolo abbia l'arte (anche se personalmente preferisco narrativa) sequenziale in tutto questo. Se da una parte il fumetto realistico stempera l'inaffidabilità mimetica della parola mediante la referenzialità oggettiva della macchina da presa e della didascalia, qui  tuttavia ridotta all'osso, dall'altra il popolare d'autore kenparkieriano rappresenta un possibile coronamento implicito del processo di visualizzazione della cultura, iniziato già alla fine del diciannovesimo secolo, mantenendo fertilità concettuale e semiotica per mezzo di una ricercata stilizzazione.

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