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Fabiano Dimatteo

Fabiano Dimatteo

Il Celestiale Bibendum

Eris porta in Italia Le Bibendum Céleste di Nicolas De Crécy, così proseguendo nella divulgazione dell’opera dell’autore in libreria inaugurata da Panini con Salvatore, pubblicato nella collana 9L a gennaio 2014. Di lui, precedentemente, avevamo avuto notizia in Italia soltanto sulle mai troppo rimpiante riviste-contenitore – in particolare su Il Grifo fu pubblicato “Il Folligatto” (Foligatto) e su Comic Art “Leon Lo Strambo” (Leon La Came), entrambi quasi contemporanei. Lunga attesa come lunga fu la gestazione del Bibendum, il cui primo tomo esce nel 1994, per proseguire con il secondo nel 1999 e concludersi nel 2002 con la pubblicazione del terzo, sempre per Humanoïds Associés.

Ma cos’è questo “celestiale” Omino Michelin[1]?
È racconto filosofico, teatro dell’assurdo, satira sociale.
È espressionismo, surrealismo, cinema d’animazione.
È una foca (Diego è il suo nome) che non si sa da dove sia venuta e che tuttavia è prescelta per vincere il premio Nobel per l’Amore; sequestrata da una classe di Professori connivente col Potere a scopo d’indottrinamento, è avversata dal Diavolo in persona, ridicolmente ligio al suo ruolo tutto avvinto nella sua salopette a scacchi biancazzurri ed esagerato turpiloquio. Sgraziata e tenera, entusiasta e succube degli eventi, silenziosa e ingenua. Un personaggio che non fa il personaggio e che vive nel fumetto delle sue relazioni con gli altri personaggi, che suscita ben poca empatia e non troppa simpatia; un vuoto pneumatico (è il caso di dire…) nel quale l'autore fa entrare in corso d’opera persino lo stesso Signore degli Inferi[2]. Una creazione che serve al non ben dichiarato e tuttavia evidente intento di confondere i principi di Bene e Male per come si suppone che manicheisticamente il lettore sia per cultura portato ad intenderli. Provocatorio esercizio intellettuale che satireggia al contempo la percezione di entrambi.

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Confondere: questo è uno degli effetti de Il Celestiale Bibendum. Una storia che gioca con la narrazione intradiegetica di un personaggio-testimone (interno, ma solo fino a un certo punto) che non sa molto e non manca di stupirsi; che si smarrisce per poi vedersi vilipeso e spodestato dal suo ruolo; che viene tacciato d’inadempimento contrattuale e incompetenza drammaturgica da misteriosi datori di lavoro e da essi spedito a ritrovarsi nel proprio passato; e tutto questo, per giunta, passando da morto redivivo, a vivo, a morto-vivo nel regno dei morti, a nuovamente (e doppiamente) vivo. Personaggio singolare il narratore Professor Lombax, tramite il quale De Crécy adempie, pare, ad un programmatico sconvolgimento della drammaturgia classica, ingarbugliando il tutto con piccoli e grandi flashback e flashforward, meschine convenienze del narrante e dei narrati, opportunistiche omissioni e rivelazioni precoci. Una storia (di personaggi) che ricrea se stessa nel raccontare la Storia (degli uomini, o del Celeste). Che è ricca di satira sociale – quella dei Professori citati, quella della Città (una immaginaria New-York sur Loire che pare una Parigi appena più grandiosa, imbellettata, industrializzata in maniera sfacciata e degradante di quella reale), quella di una materialista Congregazione Canina, che intende riscrivere i libri di Storia – e di speculazioni letterarie e filosofiche ardite; di grottesco, di comico e d’assurdo. I Misteri disseminati sin dall’inizio del racconto, le ambiguità prive di una naturale soluzione, il non-detto che si dimentica tra un pagina e l’altra e si fa (forse) comprendere a posteriori restituiscono al lettore non tanto l'appassionarsi ad un whodunit?, quanto la sensazione perdurante di non afferrare mai il quadro complessivo, la difficoltà di collocare i pezzi in un ordine plausibile.

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Giocare con la narrazione, quindi. Giocare seriamente - come seriamente giocherebbe un bambino – poiché c’è, credo, una componente di serioso compiacimento nel gioioso divertimento di orchestrare un’opera tra il rigore dell’architettura di una storia e l’improvvisazione, tra le geometrie di una trama strutturata ed uno svolgimento anarchico, tra il gesto pittorico istintivo e i compromessi di un classico storytelling fumettistico – tutti elementi che si rivelano nelle dichiarazioni sui propri intenti e sul proprio metodo di lavoro dell’autore[3]. Tensioni opposte che diventano armonie di opposti. Per quanto, forse, non sempre con il complesso equilibrio che questa camminata sul filo richiede.

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E gioco pare essere anche il disegno. Linee definite, tratti mossi, inquadrature sghembe e diritte, funzionali al dialogo o più descrittive, frequente uso di primi piani, ricerca del dettaglio negli sfondi, forza caricaturale, atmosfera surreale, ricerca del puro impatto visivo e altro ancora: tanti e diversi sono gli elementi e gli stili grafici che usa l’autore. Cinema d’animazione, dicevamo: una costante anche in altri lavori di De Crécy – lui stesso animatore e compagno di studi alla Beaux-Arts d'Angoulême del regista, animatore e sceneggiatore Sylvain Chomet, con il quale ha lavorato non solo sul Leon La came citato[4]- che rende alla perfezione tanti momenti, soprattutto comici, delle sue storie: la resa grafica delle speculazioni da racconto filosofico, pregno di umorismo intellettuale molto francese, ad esempio, o quella delle azioni sgangherate e poetiche degli strani animali protagonisti. Ed espressionismo, dicevamo anche (sulla scorta dell’autore stesso)[5]: colori oleosi, carichi, immagini poderose che si fanno racconto anche a sé stanti. Una ricerca grafica che si muoveva (e si muove ancora oggi, pur se mediata da una maggiore sintesi espressiva) tra le suggestioni della pittura e la lavorazione dell’artigianato nobile del fumetto e dell’animazione.

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Un fumetto non facile, decisamente consigliato agli appassionati ma in grado di affascinare e divertire chiunque con le sue magie; un volo di fantasia al di sopra e addentro il cielo, la terra e l’umanità. Un regalo agli occhi e al cervello; una torta ricca di strati diversi.

Eris pubblica l'opera in brossura fresata su buona carta e con buona stampa, sacrificando un poco formato e confezione in favore di un prezzo concorrenziale e della raccolta in volume unico. C’è da sperare davvero che il mercato premi la scelta, affinché sia possibile vedere nelle nostre librerie le opere inedite in Italia di Nicolas De Crécy.

[1]  “Bibendum” è il nomignolo originale francese della mascotte del gruppo Michelin, da noi divenuto appunto “l’Omino Michelin”; deriva dal verso di Orazio (in verità una sua traduzione di Alceo) che era motto del gruppo e ne accompagnava l’icona: “Nunc est bibendum”

[2“Diego, c’est le néant. On peut mettre tout ce qu’on veut dedans, c’est un gros sac de graisse, un réceptacle rempli de vide. Ce sont les personnages qui sont autour qui vont exister par rapport à lui, le prendre pour référence, mais lui n’est rien. Il ne parle pas, il n’est rien. J’ai de la sympathie pour sa forme, son apparence grotesque, avec ses béquilles, mais on se demande pourquoi tous les évènements se cristallisent autour d’un nigaud pareil. Ce qui pose un problème d’identification aux lecteurs: il est difficile de s’identifier à une coque vide.” Citato in http://rdereel.free.fr/volBZ1.html.

[3]  rif. vari ad es. http://rue89.nouvelobs.com/2011/10/08/nicolas-de-crecy-je-ne-fais-plus-de-bd-je-ne-peux-plus-physiquement-225350 ; http://www.stripologie.com/download/df8b35f661986269b788a95e354481d75746a47e.pdf; http://www.cuverville.org/spip.php?article43184; http://rdereel.free.fr/volBZ1.html

[4]  Il sodalizio tra De Crécy e Chomet produce anche la bande dessinée Le Secret des libellules e il cortometraggio d'animazione La Vieille Dame et les Pigeons

[5“Les expressionnistes allemands sont ceux qui m’ont le plus influencés, notamment par leur travail en gravure sur bois: un trait noir, avec une ou deux couleurs, et des images très fortes et très narratives. C’est un moyen d’expression très proche de la bande dessinée.” Ancora in http://rdereel.free.fr/volBZ1.html.

Ratolik

Per una volta non è cinema. Il “più grande autore Marvel vivente” (Leo Ortolani secondo l'arguta - ed ormai classica della storiografia ortolaniana - definizione di Andrea Plazzi) si cimenta con una icona del fumetto nostrano in qualche modo agli antipodi dei propri riferimenti fumettistici, o perlomeno di quelli che abbiamo imparato a conoscere finora. Una sfida della quale parla anche l'autore sia nella ricca postfazione al tascabile (identico al sempiterno albo di Diabolik per formato e impaginazione), citando la soddisfazione di essersi misurato con la gabbia a due vignette, sia sul proprio blog, ove racconta del divertimento e della difficoltà nell'utilizzo (rigorosamente manuale, in omaggio ai bei tempi da tempo andati) dei retini. L'impatto della differente impaginazione sulla comicità di Ortolani – quella libera dagli schemi e dalla continuity di Rat-Man – produce gag un po' più statiche, con una forza visiva forse maggiore e più immediata. In chiave umoristica, sono comunque gli elementi più legati all'universo ratmaniano a funzionare meno bene in quest'albo: l'ambiguità di Cinzia-Eva Kant, l'idiozia di Brakko-Ginko o alcune gag un po' lontane dall'atmosfera “diabolika”, hanno quel po' troppo di deja-vu che fa felice il fan di Rat-Man ma rende un poco meno fresco il lavoro. Per contro, gli elementi più parodistici sembrano essere quelli più riusciti; riferendosi quasi esclusivamente al Diabolik delle origini, Ortolani ridicolizza certi aspetti del personaggio e delle ambientazioni in maniera esilarante: dai capelli all'arredamento dei suoi rifugi, dai suoi elaboratissimi piani e trucchi alle conflittualità del suo rapporto con Eva Kant - negli anni oggetto di una lenta rivoluzione sulle pagine della testata – alle rocambolesche fughe. Diverte molto questo Rat-Man dagli occhi a mandorla e dall'espressione tesa, quando agisce come farebbe il geniale criminale.

L'autore lo ha scoperto tardi, Diabolik. Viene da chiedersi cosa avrebbe realizzato – oggi – un Ortolani che fosse stato – ieri - maggiormente provvisto di sense of wonder, in ragione della più giovane età, nella lettura della serie; se fosse stato un amore adolescenziale, immaturo e poi maturato negli anni come quello per i supereroi, invece di uno tardivo, meno intenso, carico della ragionevolezza e malizia di una carriera trentennale nella Nona Arte. La demitizzazione di Diabolik pare a volte di una precisione chirurgica ed è forse per questo che funziona così bene. Così come sono precise, quasi asettiche le ambientazioni e pulitissima la matita, in omaggio alle caratteristiche della testata originale.

L'arte di volare

001 Edizioni porta in Italia uno dei titoli più ammirati e premiati del fumetto spagnolo, El arte de volar di Antonio Altarriba e Kim, subito aggiudicatosi il Gran Premio Romics 2013. Altarriba (Saragozza, 1952) insegna letteratura francese all'Università dei Paesi Baschi, è autore di narrativa e sceneggiatore e studioso nel campo del fumetto. Kim (nome d'arte di Joaquim Aubert i Puig-Arnau - Barcellona, 1942) è un professionista delle nuvole parlanti da quasi quarant'anni, celebre in patria in particolare per la serie umoristica Martinez, El Facha, vista da noi solo brevemente su Totem Comics nei primi anni '90.

L'opera racconta, in una commistione tra realtà e finzione, la vita del padre dello sceneggiatore, Antonio Altarriba Lope (1910 – 2001), dall'infanzia al suicidio all'età di 90 anni, lungo quasi tutto il secolo breve della Spagna: dalla fine della dittatura di Primo de Rivera a quella di Francisco Franco, passando per  la seconda repubblica, la guerra civile e la seconda guerra mondiale. In questo contesto storico, del quale è a volte protagonista ma molto più spesso vittima, scorre l'esistenza di Antonio, comune a molti spagnoli della sua generazione, della quale ripercorriamo ogni evento fino ai più privati.

L'arte di volare è un lavoro potente, complesso, graficamente e narrativamente al livello delle migliori produzioni fumettistiche moderne. Una biografia insieme reale e fantastica che ha il passo del romanzo, un'analisi storico/sociale compiuta attraverso carne e sangue ancora caldi, una riflessione sulla sconfitta esistenziale di tanto genere umano di fronte alla Storia e insieme un inno all'ideale impossibile: l'arte di volare oltre le mura della meschinità umana e del Potere.

Viene alla mente, anzitutto, l'abusata definizione della Nona Arte come “letteratura disegnata”; l'opera ha un taglio letterario persino lievemente eccessivo, pur utilizzando in maniera egregia, soprattutto grazie al lavoro di Kim, le potenzialità del medium fumetto. E' di quest'ultimo [1] la scelta di una classica composizione a tre strisce della pagina, con una non grande varietà di soluzioni per quanto riguarda il numero e le relative dimensioni delle vignette all'interno di esse. Unito alla scansione temporale cronologica (solo le tre tavole di prologo fanno eccezione), questo elemento rende lineare l'esperienza di lettura di una sceneggiatura molto densa, fatalmente compressa per la quantità di informazioni, avvenimenti e personaggi presenti e caratterizzata dall'uso frequente di didascalie piuttosto lunghe. Cadenzato sulla maggiore o minore introspezione e ricchezza di eventi dei vari momenti della vita del protagonista, il ritmo rimane equilibrato e scorrevole, privo di eccessi nei cambi di registro e nei punti ove l'azione è più viva. Si mantiene un tono del narratore-personaggio malinconico ma concentrato: come di un uomo che, mentre racconta, riflette cercando di riassumere a se stesso ciò che accadde, più che provare a capirlo, a volte ricercandone il senso generale, la ragione ultima degli avvenimenti [2]. Alcune scene oniriche o surreali, che sono metafore delle situazioni narrative e quindi di avvenimenti/riflessioni della vita di Antonio, fungono da cesura nei momenti salienti del racconto, rimanendo tuttavia nell'ambito di un simbolismo sempre accessibile e proprio l'accessibilità al grande pubblico tramite un medium che racconti e nello stesso istante illustri i fatti e le ambientazioni (doppiamente importanti per il loro essere materia storica e per di più argomento delicatissimo) è del resto una delle ragioni che hanno spinto Altarriba a scegliere il fumetto.

Le tavole di Kim, in toni di grigio, descrivono, collocano perfettamente il lettore nei fatti e la singola vignetta nel quadro generale; con esse si avverte quasi la sensazione claustrofobica di trovarsi imprigionati all'interno delle fitte maglie della storia di Antonio come di quelle altrettanto fitte della Storia e della tragica e mediocre ordinarietà della vita umana. Il suo tratto rimane a metà tra l'underground americano e la pulizia di una BD;  piuttosto dettagliato negli sfondi, nonostante mostri una certa dose di caricaturismo nel disegno dei personaggi nonché qualche tocco d'umorismo grafico qua e là, non allontana mai il lettore dal verismo del racconto: un disegno personale che si fa obiettivo, neutro e un disegnatore, come ha scritto Felipe H. Cava, “partecipante” [3]. La sua matita dona equilibrio nelle proporzioni e fa un uso mirabile dei piani. Anche se posture e movimenti dei personaggi appaiono un poco rigidi, il disegno di Kim non perde nulla in espressività; l'autore spagnolo caratterizza una gamma di emozioni vastissima anche all'interno dello stesso personaggio: seguiamo per esempio l'invecchiamento del protagonista o i cambiamenti del personaggio di Pablo con una immediatezza visiva che ci dà di loro una comprensione anche maggiore del testo scritto. Non si ha quindi la sensazione di una illustrazione del testo quanto di un disegno complementare a esso e ciò conferisce unità e ulteriore spessore all'opera, cosa tanto più notevole se si considera lo spazio ridotto che spesse volte ha a disposizione Kim per via della quantità di testo e dell'affollamento e varietà di luoghi, situazioni e personaggi.

S'impara tanto da quest'opera. Non soltanto su un'epoca che ci sta proprio alle spalle, così vicina nel tempo eppure così lontana dalle vere/false convinzioni del nostro vivere d'oggi, ma sulla vita come esperienza nel suo significato etimologico di prova, tentativo. Scrive Goffredo Fofi nell'introduzione che “L'arte di volare [...] è una metafora, infine, che ci ricorda l'aspirazione di tutti a libertà, pienezza, felicità e la sconfitta di questa aspirazione che è infine di tutti, ma che è molto più dura per chi non ha rispetto a chi ha”. La memoria dei fatti della nuova vita di Antonio una volta rientrato in Spagna contiene tanta lezione quanta se ne può ravvisare nel racconto della sua militanza tra le formazioni repubblicane legate alla CNT o nell'odissea del suo esilio in Francia dopo la vittoria di Franco: avvenimenti che ci possono apparire straordinari (nel senso di non-ordinari) paragonati a quelli che viviamo oggi sono parte dello stesso percorso e della stessa esperienza (nel senso citato) di quelli a noi più comprensibili in termini di normalità. E, proprio come nel grande romanzo di tutte le epoche, diventa secondario sapere quanta verità, quanta licenza letteraria o quanta fantasia abbia scelto di impiegare il figlio-autore nel costruire questa memoria [4].

 

[1] A. Altarriba e Kim, citati in “El arte de volar, guìa didàctica”, Edicions de Ponent 2012

[2] E' il “suono” di alcune didascalie come: [“Era il castigo per aver abbandonato gli ideali (...)” p. 172];  [“Dopo tante intemperie e sventure (...) Si, ne avevo bisogno” p. 148 ]; ed altre

[3] Articolo dell'11/9/2009 su El Cultural

[4] “Tuttavia, pur inventando situazioni e personaggi, ciò che racconto è “essenzialmente” vero...E colui che compare nelle vignette, forse non del tutto identico ma assolutamente autentico, è mio padre...” Dalla postfazione di Altarriba (trad. Giliola Viglietti)

Tutta la vita in un abbraccio

C'è una retorica dei buoni sentimenti che è difficile evitare quando si celebra “La Forza Della Vita” e si racconta “Il Superamento Delle Avversità” come in questo romanzo grafico. Il primo pregio del volume di Amitrano, Silvi e Pugliese è quello di non ricorrervi troppo. Il primo difetto è quello, nonostante tutto, di ricorrervi.

Luca Amitrano (soggettista) prende a modello la storia – reale - di Simona Atzori (ballerina, pittrice e scrittrice italiana nata priva di braccia) aggiungendole un inventato pregresso di sanguinaria violenza domestica a seguito di un matrimonio combinato, piaghe entrambe ancora drammaticamente diffuse nella società turca dalla quale proviene Amira, la ragazza protagonista dell'opera le cui fattezze sono ispirate a quelle della vera Simona. Nel libro ci viene raccontata la sua parabola ascendente e la ragazza troverà la propria realizzazione (e l'amore più inaspettato) sia attraverso una ferrea volontà di perseguire i propri sogni, apparentemente impossibili da realizzare nella sua condizione fisica, sia grazie all'aiuto di tutte le persone che la prendono a cuore lungo il percorso dall'espatrio fino alla sua nuova vita in Italia. L'idea di per sé é buona ma troppo poco approfondito è il tema della condizione delle donne turche e, essendo molto complesso e variegato il contesto reale del paese, la scelta di non spingere sul tema, pur se compiuta per esigenze narrative, impoverisce il racconto dandogli in aggiunta un tono stereotipato e lineare da classica storia a lieto fine. Di stereotipi abusa anche la caratterizzazione di quasi tutti i personaggi e dei loro rapporti: il provincialismo e il rapporto padre/figlia nella famiglia italiana che accoglierà Amira, i frati che la introducono a Roma dopo averla portata via dalla Turchia o le vicende personali di Raul Tavares - famoso ballerino caduto nel gioco d'azzardo che funge da contraltare ad Amira quale persona che rovina ciò che ha in dono, proprio all'opposto della ragazza -  risultano ricalcare modelli quasi macchiettistici.

Cristiano Silvi (sceneggiatura e storytelling) dona buon ritmo e respiro all'opera, utilizzando continuamente il flashback e creando alcune sequenze mute di particolare efficacia; l'organizzazione di tutti gli elementi della sceneggiatura, in bilico tra cinema e romanzo letterario è buona e sfrutta bene le specifiche del medium fumetto, anche se a nostro giudizio rimane inferiore ai precedenti lavori dell'autore con Luca Russo per Tunué (Guardami più forte e (In)certe stanze). Questo non riesce a mutare però una sensazione di prevedibilità generale, nonostante l'ovvio impatto emotivo che suscita la vicenda narrata.

Marco Pugliese (disegni) è essenziale, quasi minimale nella realizzazione delle anatomie e degli sfondi; dona però con pochi tratti una buona espressività ai volti e agli sguardi dei personaggi. Non privo di alcune strizzate d'occhio al fumetto orientale, il suo disegno é ricco di luce e primi piani e essenzialmente gradevole, tuttavia potrebbe essere considerato non del tutto adatto alla storia per via di una certa mancanza di dinamicità nelle scene di movimento e di quel realismo che arricchisce l'efficacia di storie di questo tipo.

Tunué propone l'opera in buona veste editoriale e qualità di carta e stampa al solito - ottimo, considerata la foliazione – prezzo low-cost.

In conclusione un lavoro non brutto ma piuttosto frenato; consigliato più per l'indubbia lezione/motivazione che può dare la storia che per la sua realizzazione.

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