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Paolo Pantalone

Paolo Pantalone

Fermo

Sebastiano è uno studente universitario alle prese con la leva obbligatoria che decide di adempiere da obiettore di coscienza svolgendo il servizio civile. Sarà trasferito a Bibbiena, una piccola cittadina di 16mila abitanti tra la Toscana e l’Emilia, dove avrà il compito di prestare assistenza a persone con problemi mentali. All’interno della cittadina saranno tanti gli incontri che caratterizzeranno la sua vicenda: si va dagli incredibili personaggi a cui presta assistenza fino a Marta, una vecchia passione liceale a cui non aveva mai avuto il coraggio di rivolgere la parola fino a quel momento. Sullo sfondo invece appare la sua vita passata fatta di poche sicurezze e da un mondo da cui Sebastiano sembra voler fuggire. In particolare Giulia, la sua ragazza storica, rappresenta più di ogni altra cosa quel legame con il passato che mina le certezze del protagonista e lo spinge a rifugiarsi sempre di più nel nuovo contesto e nelle nuove persone che animano la sua vita.

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Dopo L’improvvisatore e Fiato Sospeso, Antonio Vincenti - in arte Sualzo - torna con una nuova storia dal titolo Fermo, edita da Bao Publishing nella collana “Le città viste dall’alto” composta anche da Un Lavoro Vero di Alberto Madrigal e Ogni piccolo pezzo di Stefano Simeone.
Fermo è chiaramente incentrato sulla profonda storia di maturazione personale del protagonista. Il suo è un animo irrequieto che tenta invano di scappare da sé stesso e dagli attacchi di panico che sovente tornano a fargli visita proprio a causa di questo rifiuto di trovare il suo io e capire quali sono i suoi desideri. La fondamentale esperienza di vita in cui si ritrova lo porterà a riscoprirsi e ri-dare il giusto ordine alle priorità della sua vita.
Il grande insegnamento che si può trarre dal racconto è ovviamente la comprensione acquisita da Sebastiano che, talvolta, l’unico modo per andare avanti non è fare i “100 metri in zero secondi”, come gli suggerisce uno dei malati a cui presta assistenza, ma è appunto rimanere fermi. Stare fermi infatti è l’unico modo di cogliere le sfumature, ossia quei dettagli che consentono di rendere completa la visione di insieme e senza i quali questa visione non può avere un senso.
Così Sebastiano ha bisogno di fermarsi per combattere le sue paure e capire il vero valore di ciò che lo circonda, come ad esempio la neve che nella tavola finale si posa su di lui perché finalmente ha la forza di non scappare via.
La figura del protagonista e la sua esperienza vengono arricchite inoltre da tanti personaggi che egli si trova a conoscere; ognuno di essi, a suo modo e con le sue piccole peculiarità, arricchisce la sua crescita ed è un tassello necessario nel suo percorso di consapevolezza.

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La grande forza di Fermo sta soprattutto nella capacità dell’autore di far immedesimare il lettore nella vicenda. Il racconto, infatti, è quello di chi si guarda all’indietro e rivede quel periodo della sua vita in cui si è formato e ha preso quelle decisioni che lo hanno caratterizzato per sempre; un periodo che, arrivati ad una certa età, tutti noi abbiamo vissuto. Così ci si ritrova davanti ad un racconto emozionante nel suo svolgimento e reso ancora più vicino dalla poesia di fondo che pervade in ogni pagina attraverso i personaggi, i dialoghi e i riferimenti culturali ben nascosti tra questi. Sotto questo punto di vista anche l’aspetto illustrativo non fa eccezione: il tratto risulta pulito e semplice, richiamando l’ambientazione a misura d’uomo del paesino in cui si svolge la vicenda, mentre i colori sono tenui e accompagnano bene la trama accentuando l’effetto malinconia che la storia vuole trasmettere.

Sualzo con quest’opera, in parte autobiografica (come ammesso nella post-fazione), riesce a toccare le corde giuste per dare ad un racconto semplice una lettura introspettiva sulle nostre scelte e sul nostro modo di vivere. Il tutto, confezionando una storia che ha il grande pregio di non diventare mai pesante ma, anzi, riesce a diventare parte del lettore, creando un ambiente talmente familiare da lasciare quasi un senso di vuoto alla fine per il fatto che il libro è terminato.

Fables 19

Il diciannovesimo volume di Fables raccoglie gli episodi dal 125 al 129 della serie basata sul mondo delle favole scritta dall’autore americano Bill Willingham.

Le vicende narrate in questo volume riguardano due distinte sottotrame. La prima parte dell’albo racconta delle avventure nel mondo di OZ della scimmia Bufkin e della sua compagna, la piccola Lily Martanion. I due sono intenti nel condurre la rivoluzione contro il tiranno del mondo di Oz, Re Roquat, che ha deciso di condannare a morte la figura più rilevante del popolo ribelle, ossia lo stesso Bufkin. Salvatosi dall’impiccagione, la scimmia riprenderà la testa della rivoluzione e sfiderà nuovamente il perfido sovrano.
Questa parte del racconto è illustrata da Shawn McManus che riprende uno stile molto vicino a quello delle illustrazioni fiabesche con dei colori fini e un disegno molto pulito, riuscendo ad arricchire una narrazione che già di per sé risulta molto convincente. La vicenda della rivoluzione, infatti, riesce a coniugare in maniera esemplare gli elementi più grotteschi, tipici della serie, con tematiche più profonde legate alla tirannia, alla rivoluzione e alle deviazioni che questa può prendere quando la debolezza dell’uomo supera gli ideali per i quali questo lotta.
Il risultato è una storia piacevole da leggere, con dei personaggi caratterizzati in maniera egregia e un’eccellente gestione dei ritmi della storia anche nelle fasi successive alla lotta per la liberazione del mondo di Oz.

La seconda parte del volume, invece, riprende le vicende principali legate a Biancaneve e Luca Wolf, che negli episodi precedenti erano stati lasciati alle prese con la misteriosa scomparsa dei loro due cuccioli presso il regno dei Balocchi.
Mentre Luca Wolf parte alla ricerca dei due cuccioli, Biancaneve riceverà l’inaspettata visita di un personaggio del suo passato, il Principe Brando. Quest’ultimo, forte di un giuramento di Biancaneve antecedente al matrimonio con Luca Wolf, avanza pretese nonostante il palese rifiuto da parte di lei. Il Prinicpe Brando inoltre ha dei poteri oscuri: ogni danno fisico da lui riportato, infatti, si riflette su Biancaneve stessa, inibendo di fatto qualsiasi tentativo di reazione da parte sua. La vicenda è intramezzata anche da alcuni spezzoni focalizzati sulla figura del perfido Geppetto e l’introduzione della figura della Fata Turchina.
Questa seconda parte dell’albo è disegnata dal disegnatore ufficiale della serie, Mark Buckingham; il suo è uno stile completamente diverso rispetto a quello di McManus. Le sue illustrazioni infatti sono molto più definite ed incentrate maggiormente sulla caratterizzazione dei personaggi in primo piano, risultando sicuramente meno evocative rispetto al mondo ricreato nel primo episodio.

Questo diciannovesimo albo di Fables racchiude in sé tutte le caratteristiche tipiche della serie. La ricchezza della storia è frutto innanzitutto della grande molteplicità di personaggi a disposizione e dalla capacità dell’autore di saltare da una sottotrama all’altra con estrema facilità. Inoltre, la varietà della vicenda e delle singole trovate narrative è arricchita anche da dialoghi sempre vivaci ed efficaci.
Tuttavia, il limite di questo racconto sta anche nel suo forte legame con la specifica storia raccontata. Infatti, se da un lato la suddetta varietà di sottotrame rappresenta il punto di forza della serie, dall’altro questa può rappresentare anche un forte vincolo nel caso in cui l’appeal di una specifica storia sul lettore è più basso rispetto ad altre. È questo il caso della vicenda del Principe Brando il cui personaggio, che dovrebbe essere il fulcro principale di questi episodi,  riesce solo in parte a suscitare l’interesse del lettore a causa della sua eccessiva banalità e della rapidità con cui vengono superate tutti gli impedimenti che la sua figura dovrebbe comportare.
Ovviamente questo aspetto penalizza molto la lettura complessiva del volume che conosce i suoi punti più alti nel racconto di appendice del mondo di Oz e nel colpo di scena finale che suscita grande interesse per il prosieguo della storia principale.

Black Kiss

La Magic Press ripropone a distanza di 25 anni dalla sua prima pubblicazione Black Kiss, opera del 1988 scritta e disegnata dall’autore americano Howard Chaykin. La nuova edizione 2013 presenta una copertina inedita disegnata appositamente per questo volume.

La vicenda è suddivisa in 12 capitoli e ruota attorno alle figure di Cass Pollack e delle due prostitute Dagmar Laine e Beverly Grove. Il primo è un musicista jazz che si ritrova non solo ad avere moglie e figlia sterminate da malavitosi ma anche a essere ingiustamente accusato del delitto. La prostituta Beverly è l’unica persona che può scagionarlo, poichè nel momento in cui avveniva il duplice omicidio era intenta ad avere un rapporto sessuale con il protagonista. L’aiuto da parte sua e della “gemella” Dagmar non sarà gratuito: le due chiedono al musicista di recuperare un particolare filmato pornografico recentemente ri-emerso da alcuni archivi segreti del vaticano.
Tra una vicissitudine e un’altra, si scoprirà che le due non sono in realtà chi si suppone che siano: Dagmar è un trans mentre nel finale si delinea anche la vera natura di Beverly.
Il protagonista, suo malgrado, si ritrova ad operare inseguito sia da coloro che sono implicati nella vicenda della moglie che da una setta legata al misterioso video da recuperare.

Le tematiche presenti in Black Kiss sono tante e svariate, ma non sono queste l’elemento che definiscono maggiormente le caratteristiche dell’opera. La forza del racconto infatti è data dalla straordinaria capacità espressiva dell’autore frutto di un linguaggio in grado di essere allo stesso tempo violento e sensuale in ogni sua sfaccettatura: nelle vicende raccontate, nella sceneggiatura, nei dialoghi. Da questo punto di vista anche i disegni non fanno eccezione con uno stile aggressivo e poco pulito in grado di esaltare il ritmo e la sfrontatezza della vicenda; il tutto è condito inoltre da una definizione dei protagonisti molto attenta e funzionale alla narrazione, grazie anche all'uso frequente di primi piani che contribuisce a spiegare al meglio quelle sensazioni e stati d'animo che vengono raccontati dall'autore nei singoli frangenti.
Il risultato è quello di un’opera dal ritmo incalzante con un tono volutamente proibito ed esplicito che colpisce in maniera netta il lettore, sia che esso apprezzi questo stile sia che esso invece ne sia più scosso.
Alla luce di questo, Black Kiss finisce per essere un racconto in cui il genere non ha confini ben precisi: possiede una forte carica erotica frutto di scene fin troppo esplicite, momenti di grande violenza nella migliore tradizione pulp e una vicenda principale degna sia di un grande thriller noir sia di un racconto grottesco per via di alcuni elementi della sua evoluzione.
 
Rileggere oggi Black Kiss non può prescindere dalle considerazioni su come sia invecchiato un fumetto che da poco ha compiuto un quarto di secolo. Ebbene, nonostante il contesto sociale tra la fine degli anni ’80 e oggi sia notevolmente più progredito e pronto a determinate tematiche, la forza del linguaggio narrativo usato dall’autore mantiene ancora oggi la sua vivacità e il sopraccitato impatto sul lettore. Resta infatti viva la capacità di saper usare il tema della sessualità sia per dare trasgressività alla vicenda, per esempio con un numero spropositato di scene di sesso orale, sia per conferire una caratterizzazione sensuale ai personaggi principali. D’altro canto, anche la violenza che caratterizza l’opera in ogni suo aspetto tutt’oggi colpisce ancora per la grande durezza nei dialoghi e la crudeltà nelle scene.
Inoltre, la lettura postuma di questo racconto non può che ingrandirne ulteriormente la grandezza pensando a come esso racchiuda una serie di elementi che caratterizzeranno il genere pulp degli anni a lui successivi.

Black Kiss è senza dubbio un’opera di grandissimo impatto e a distanza di anni ha saputo mantenere il suo voler essere spiazzante e ribelle. Inoltre, particolare non trascurabile, l’edizione proposta in quest’occasione da Magic Press è di ottima qualità e la nuova copertina non fa che esaltare lo stile ed il contenuto di quanto potrà essere apprezzato all’interno del volume.

Le Storie 15: I fiori del massacro recensione in anteprima

Recensione in anteprima. L'albo sarà in edicola dal 12 dicembre 2013.

Il quindicesimo numero della collana Le Storie vede il ritorno del duo RecchioniAccardi alle prese nuovamente con l’affascinante periodo Edo dopo La redenzione del samurai, secondo albo della collana.

I fiori del massacro non è da considerare un vero e proprio seguito del precedente volume, nonostante condividano l’ambientazione storica e la presenza del maestro Ichi che, come ammesso dallo stesso Recchioni in un’intervista concessa un anno fa al nostro sito, ha una funzione di collante tra le varie storie del “ciclo giapponese” dell’autore romano.

La vicenda comincia con la giovane Jun Nagaiama pronta a gettarsi da un ponto per porre fine alla sue sofferenze. Jun infatti è di rango nobile e promessa sposa del signore feudale, il Daimyo, ma è rimasta sola al mondo dopo il suicidio di entrambi i genitori. Il padre era uno dei consiglieri del Daimyo e ha deciso di compiere l’estremo gesto in segno di protesta contro la corruzione nella corte. Tuttavia, di fronte alla drammaticità dell’evento, l’uomo riceve in cambio solo scherno da parte del Daimyo e dei suoi accoliti, tra l’altro proprio sotto gli occhi della figlia.
Il maestro Ichi, il guerriero cieco già protagonista de La redenzione del samurai, salva la giovane e la aiuta ad incamminarsi lungo il tortuoso percorso della vendetta.
Jun sarà dunque condotta ad addestrarsi presso la Casa delle ombre, dove apprenderà le arti del combattimento e dell’omicidio che saranno fondamentali per potersi confrontare con tutti coloro che avevano osato prendersi gioco del padre.

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A differenza dell'albo precedente, nel quale vi erano diverse figure principali, nei I fiori del massacro la focalizzazione è incentrata maggiormente sulla figura della protagonista.
Il tema dell’onore dei samurai lascia spazio a quello della vendetta, denotando delle sfumature molto più violente e rabbiose nel carattere di tutti i personaggi della vicenda.
Tuttavia, è interessante sottolineare che il ruolo della giovane giapponese e la connotazione del suo carattere subiscono una profonda evoluzione nel corso dell’albo.
Nel corso della prima parte della storia la sua figura appare stereotipata in molti aspetti: il passaggio dal dolore alla rabbia e il duro addestramento presso la Casa delle ombre sono elementi molto comuni in racconti ambientati in contesti di questo tipo ( scavallando mezzo, si pensi per esempio all’addestramento di Uma Thurman in Kill Bill). Ciò nonostante, anche in questi frangenti la storia è resa più aspra e forte da alcuni dettagli, come le sevizie a cui Jun è costretta fino al momento in cui acquisisce la forza di opporsi ed allontanarsi dal clan che l’ha addestrata.
È nella seconda parte del racconto che il suo personaggio sale di tono. La sua vendetta assume contorni sempre più sadici: Jun sfigura i suoi avversari con un taglio tale da allargare la bocca e lasciare anche sulla faccia priva di vita un macabro sorriso. Il riso, dunque, da strumento della derisione diventa simbolo della rivincita ed emblema della paura che riesce a instaurare nei suoi avversari. Ovviamente un elemento di questo tipo non può non richiamare la figura di Joker, anche se ovviamente le tematiche in questo caso sono profondamente diverse.
Tuttavia, man mano che si va avanti, ci si può rendere conto che qualcosa sta sfuggendo di mano. La violenza non diventa più solo un fine ma il vero e proprio obiettivo, per un carattere che va via perdendo quell’umanità e debolezza ammirate all’inizio della storia.

I fiori del massacro è un albo che si fa forza della sua ambientazione e della linearità della sua vicenda ma che contemporaneamente riesce a beneficiare in maniera molto positiva dell’evoluzione della sua protagonista.
La prima parte del racconto è buona ma si mantiene su un ritmo costante. La vicenda riesce ad appoggiarsi a un’ambientazione già introdotta nel suo predecessore e a essere molto immediata proprio perché non ha bisogno di spiegare molti elementi, finendo per essere meno didascalico e più scorrevole.
La seconda parte del volume, dall’abbandono della Casa delle ombre in poi, è sicuramente più articolata. La bravura dei due autori sta innanzitutto nel saper accompagnare in maniera eccellente, sia con i dialoghi che con i disegni, un’evoluzione della vicenda che si può intuire sin dalle prime pagine, senza essere banali nel farlo e dando la giusta enfasi ai momenti chiave del racconto. D’altro canto, la conclusione rappresenta il punto più alto dell’albo per la sua capacità di spiazzare il lettore proprio quando sembra essere giunti al punto di arrivo e non ci sia più spazio per ulteriori sussulti. La drammaticità delle ultime tavole, invece, e la profondità con cui si entra nella psiche della protagonista sono tali da lasciare il marchio più incisivo dell’intera storia.

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La riuscita di questo volume è ulteriormente impreziosita dall’apporto dei disegni di Andrea Accardi che riesce a ripetersi dopo la splendida e premiata prova de La redenzione del samurai.
Al di là della perfetta ambientazione giapponese, senza la quale la forza del racconto non sarebbe stata altrettanto incisiva, in molti casi i disegni diventano ancora più importanti perché in grado di essere più comunicativi rispetto ai dialoghi stessi. Va riconosciuto che questa forza è accentuata anche dalla presenza di molte tavole senza dialoghi, dove è l’autore stesso a riconoscere il messaggio visivo come prioritario.

In conclusione, I fiori del massacro è sicuramente un albo più che buono, scritto e disegnato in maniera impeccabile; un’ultima riflessione va concessa anche al format che Recchioni si sta concedendo all’interno de Le Storie: più episodi diversi nei protagonisti e nella vicenda, ma con un fil rouge costituito dall’ambientazione e dalla presenza fissa di un personaggio secondario. L’esperimento per questi primi due numeri ha funzionato e chissà che non possa servire da spunto per la nascita di altre “saghe” all’interno o all'esterno della collana.

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