Menu
Andrea Fiamma

Andrea Fiamma

Lupo Alberto - L'integrale 1

;

Dovendo coniare un aggettivo per Lupo Alberto - L’integrale, la scelta più azzeccata sarebbe silveriano, che è brutto da sentire ma rende l’idea di un autore, Silver, in grado di plasmare la materia umoristica a proprio uso e consumo, distillando le influenze più disparate e arrivando a una soluzione nuova, in bilico tra ironia adulta e trovate bambinesche. Come già detto: Lupo Alberto è un fumetto speciale.

Panini Comics, continuando l’opera di inglobamento del fumetto nazionale e non (da Charlie Brown a Topolino, hanno tutti passato almeno una notte nell’harem di Sallustro), dà alla stampe il primo volume dell’opera (quasi) omnia del personaggio, con gli anni 1974-1985. “Quasi” perché qualcosa, da tutto il cucuzzaro, manca.
Va sgombrato il campo da inevitabili equivoci e sgambetti comunicativi: la raccolta inizia con le tavole autoconclusive e lascia fuori le prime mille strisce, pubblicate a più riprese da Rizzoli e Mondadori. Quindi proprio “integrale” non è. Il perché dell’uso del termine “strisce” è probabilmente imputabile alla volontà di non confondere il lettore generalista con un termine troppo tecnico come “tavole”. Ma di questo si tratta, delle tavole.
Di fatto, è l’unico punto critico di tutta l’operazione, che si sperava potesse assurgere a raccolta definitiva e parte invece zoppa. Le decisioni sul perché e sul per come della scelta lasciano il tempo che trovano. Da qui, però, possiamo iniziare a ragionare sul materiale.

lupoalberto1

Il volume mostra in nuce le componenti fondamentali della serie. Il cast, innanzitutto. Per quanto il fumetto sia focalizzato sull’eroe eponimo, grande elemento del testo è la coralità: poche strisce del genere funny animals possono vantare un cast di comprimari così ben caratterizzato o con una struttura così ben definita, non solo nel primo piano ma anche sullo sfondo. Lavori come Mutts o Garfield puntano tutto sui loro protagonisti ed è difficile pensare a un comprimario ben caratterizzato. Anzi, è difficile pensare a un qualsiasi comprimario di questi due titoli - mentre il compito si fa più facile con Lupo Alberto, anche solo a spanne (leggi “il maiale sarcastico”, “il papero stupido”, “la gallina ninfomane”). Ancora, sono presenti assaggi della metatestualità, qui declinata nelle più varie forme: la consapevolezza della fattoria di essere un fumetto, le rare intrusioni dell’autore, il fumetto dentro al fumetto che Enrico cerca di produrre, con scarsi risultati; il doppio livello referenziale è sfruttato spesso nelle tavole di Silver, il più delle volte con fare estemporaneo, altre con intenti più seriosi.

Le trecento e rotte pagine del tomo sono un reperto storico con cui il lettore può ammirare il modo in cui Silver scolpisce nel tempo il proprio personaggio: col passare delle pagine, e degli anni, Lupo Alberto e soci cambiano, tanto di forma quanto di sostanza. Segni di instabilità creativa, ma allo stesso tempo di versatilità dei personaggi. Enrico passa dall’essere un compassato reduce di guerra (non importa quale, tant’è che cambia ogni volta) alla parodia del fumettista tormentato. È il molesto inquisitore di Silvietta, la passera scopaiola, è spalle e aiutante in una striscia e protagonista in quella dopo. Il Lupo, invece, è tra i personaggi più malleabili dal punto di vista estetico. Di solito esistono due vie percorribili: il personaggio dal design immutabile, dalla prima all’ultima vignetta resta quello che è, sufficiente a sè stesso e imperturbabile di fronte al tempo che passa. Ci rientrano Calvin & Hobbes, per esempio, che non sono mai cambiati di una virgola. Poi ci sono quelli incoerenti, instabili per la capacità di adattarsi alla forma del proprio presente, che rischiano di risultare datati ma allo stesso tempo assurgono a testimoni grafici delle fasi di una vita, la propria, quella dell’autore o del lettore. Alberto si situa in quest’ultima categoria, insieme a Charlie Brown e Snoopy. Il tratto da minuto e sottile si irrobustisce, diventa viscoso e spesso, perdendo di definizione ma guadagnandone in voluminosità dei corpi, per poi arrivare a una sintesi delle due opposizioni che è tuttora visibile sul mensile.

lupoalberto2

Ma a evolversi è soprattutto il tono, che dopo un bagno nell’umorismo un po’ beota di Chuck Jones (la finta pubblictà del dentifrico Furbam’s, le esplosioni con la scritta “Fine!”) è stato spurgato dalle tossine dell’influenza creativa dei maestri. Certa roba è un po’ invecchiata, certi trovate appaiono ingenue, ma alcune tavole restano brillanti e incisive. Perché certe cose ancora funzionano? Qual è l’alchimia di scrittura e disegno che rende efficace il prodotto? C’è qualcosa di ineffabile nell’umorismo del Lupo, frutto di scelte che sfruttano tutti i livelli del mezzo fumetto. A volte fa ridere anche solo un’attitudine, un atteggiamento. Non servono battute nelle War memo, strisce in cui Enrico la Talpa rievoca fittizie esperienze belliche. Basta il talpide in posa crepuscolare, disegnato con tratto fluido, e l’onomatopea “Sob!” per creare qualcosa di intrinsecamente comico. Proprio con le onomatopee Silver sfoga il suo estro; l’autore non si accontenta delle canoniche “sigh”, “sniff” o “zzz”, crea e modella il linguaggio a proprio uso e consumo, uscendose con mostruosità lessicali come “Tapum!”, “Sbrenghete!”, “Srabadan-Pum!”. Picco del volume e della produzione generale di Silver è Storia di uccello, che si configura come una reazione di Silver al clima di piombo degli anni settanta: Alberto si fa involontario tutore di un uccellino che deve imparare a volare. Di fronte all’ipocrisia di un fumetto che mostrava le armi ma mai gli effetti del loro uso, l’autore modenese mette in scena una tragedia interrazziale venti anni prima di Sepúlveda, mescolando ironia distaccata a un senso di coinvolgimento emotivo che sconfina nell’incapacità del fumettista di proseguire con la narrazione.

L’edizione, riecheggiante dello studio sulla confezione effettuato da Fantagraphics Books, è minimalista; pur costituendo una buona contestualizzazione al neofita, l’introduzione e l’intervista incipitale a Silver di Aurelio Pasini rimangono nell’ovvio e non aggiungono nulla a quanto già scritto negli anni. Nonostante i lievi difetti, Lupo Alberto - L’integrale è un’ottima occasione per riscoprire - o far scoprire - un personaggio capitale all’interno del fumetto italiano che di italiano ha davvero molto.

unaintervista: Gipi, autobiografismo e processo creativo

Per leggere la recensione di unastoria, clicca qui.

2013-12-26-GipiPrima di Gipi c'era Gianni Pacinotti, art director in un'agenzia pubblicitaria a cui andava solo di disegnare. Nel 1994, finalmente, Gianni inizia a "disegnare male". E quei disegni abbozzati, fatti in rapidità e appiccicati a fianco a pensieri e frasi ispirate dal momento, vennero pubblicati da Cuore, la rivista satirica di Michele Serra, con il nome di Gipi. Da lì, l'artista toscano iniziò le più svariate collaborazioni, disegnando per libri, quotidiani e album musicali.

Da Appunti per una storia di guerra a La mia vita disegnata male, Gipi si è imposto come uno dei più importanti autori italiani in un'ascesa culminata con unastoria. Quest'ultimo lavoro, oltre a costituire il ritorno del fumettista sulle scene dopo un lungo iato (durante il quale ha debuttato come regista con il film L'ultimo terrestre), lo ha fatto conoscere al pubblico generalista e gli è valso una candidatura al premio Strega.

Asciutto come le sue figure su carta, Gipi ci ha parlato di cos'è un fumetto, dell'autobiografismo delle sue opere e di come, alla fin fine, non gli interessi nulla di tutto ciò.

Ciao Gipi e bentornato su Comicus. Partiamo dalla fine, unastoria. Ora che è passato un po' di tempo, che giudizio ne hai? Come lo valuti nel contesto della tua produzione?
È la chiusura di qualcosa. È finito qualcosa. I nuovi progetti sui quali sto lavorando, ad esempio, sono tutti di fiction.

L'esperienza autobiografica è una delle fonti primarie, ci sembra di capire, per il tuo lavoro; abbiamo visto lati molto intimi e privati in opere come La mia vista disegnata male, S, Esterno Notte, unastoria stessa. Come procedi nella filtrazione ed elaborazione del materiale autobiografico? Più in generale, qual è il tuo rapporto con la memoria privata?
Diciamo che inizio a raccontare della mia memoria privata solo quando non mi sembra più mia. Infatti, stupidamente forse, non ho mai avuto la percezione di fare lavoro autobiografico. La distanza nel tempo o la trasfigurazione che avviene con il disegno e la struttura del racconto fa sempre in modo che non abbia la sensazione di fare autobiografia. E quando quella sensazione ce l’ho non mi piace.

La componente autobiografica, come dicevamo, nei tuoi lavori è sempre molto presente. Sei dell'idea che un'opera vada fruita senza alcun contesto o credi che fornire delle coordinate al lettore, prima o dopo la lettura, lo aiuti a vivere un'esperienza di lettura migliore?
No, credo che se il lavoro è fatto bene deve stare in piedi senza premesse o la necessità di conoscenze aggiuntive.

Per unastoria il tuo processo creativo è cambiato? Hai steso una sceneggiatura dettagliata o ti sei lasciato andare a un flusso di coscienza visivo?
Mai come in unastoria mi sono sentito perduto nel lavoro. Non avevo una riga, non avevo neppure un’idea se si escludono un paio di immagini che mi ossessionavano e una speranza di ritorno per il protagonista che vive la prima guerra mondiale. Tutto il libro è stato fatto così, pensando sempre di essere fregato, di aver sbagliato, e maledicendomi per non aver iniziato una storia strutturata.

Hai affermato di aver re-imparato a disegnare prima di metterti al lavoro su unastoria, studiando le tecniche su internet. Cosa hai imparato che prima non sapevi?
Ho studiato alcune tecniche di acquarello. Roba da pittori, come l’uso dei pennelli grandi, piatti, per l’acquarello.

Dei tuoi altri lavori che idea ti sei fatto? Ti capita mai di ripensarci e dire "Qui non va bene, avrei potuto fare diversamente" o "Questa parte ora non saprei farla altrettanto bene"?
Sì, diciamo sempre. Vedo sempre le due cose: errori che non rifarei ed energie che non ritroverei.

Secondo te cosa definisce un fumetto? Le nuvolette, le gabbie (torna alla mente l'esclusione di Muttererde al premio Guinigi)? Perché spesso questa demarcazione si fa labile.
Non mi sono mai posto questa domanda. Definisco, ora, il fumetto come un racconto fatto di immagini e parole dove il tempo sia scandito da delle inquadrature, o vignette. Credo che sia la scansione del tempo che lo differenzia da un libro illustrato, per esempio.

GIPI-13I tuoi fumetti si distinguono per i fitti testi delle tavole, spesso incastonati come camei. Da qui l'idea di una prosa lavorata dalle parti del romanzo. L'idea di scrivere un libro senza il supporto delle immagini ti è mai passata per la testa?
Sì. Ma poi lascio sempre perdere, per quanto abbia ricevuto offerte per fare “un libro vero” come usano chiamarlo gli editori di letteratura. Ma poi non ho mai concretizzato niente. I disegni, quando non ci sono, mi mancano e non credo che la mia scrittura sia di una qualità sufficiente a sostenere un romanzo.

Hai lasciato le tue impronte ovunque, tra cinema e fumetto. Come sai qual è il mezzo giusto per raccontare una storia quando ti si presenta davanti? E di solito il processo prevede prima la scelta dalla storia e poi del mezzo o viceversa?
Di solito quando arriva il desiderio di raccontare qualcosa viene immediatamente seguito anche dal mezzo scelto. Come se fosse un pacchetto che contiene già tutto quanto. A volte mi è capitato di scrivere un racconto e poi pensare di tradurlo in fumetto ma di solito il risultato non è stato buono. Le cose migliori arrivano già con il proprio vestito.

Il processo creativo è fatto spesso di rimuginamenti e cambi decisionali, di progetti iniziati ma mai conclusi. Forse non tutti sanno tempo addietro c'è stata la possibilità di vedere su carta una tua collaborazione con Roberto Saviano. Ci racconti questa storia?
Dovevamo fare un libro a quattro mani. Ho lavorato per alcuni mesi, poi mi sono fermato.

Hai acquisito una certa reputazione agli occhi del pubblico generalista che ti vede come un'anomalia rispetto al mondo del fumetto, un qualcosa di più del fumetto. Ne sei conscio, è una cosa che cerchi di combattere o con cui convivi? Credi che la tua casa editrice abbia in qualche modo sfruttato questa caratteristica per importi sul mercato generalista?
Non mi occupo di questi aspetti. Potrei morirne. Cerco di lavorare con sincerità e al meglio delle mie possibilità artistiche. Tutte le questioni che vengono dopo, prima o intorno, non mi riguardano. Anche se a volte alcune discussioni mi fanno incazzare quando sono al tavolino a lavorare ci sono io e c’è la storia. Non altro. Non mi chiedo mai per chi lavoro, se faccio fumetti o graphic novel per intellettualoidi. Non me ne importa nulla.

Il tuo nome è circolato come un potenziale autore ospite di Dylan Dog. Ragionando in astratto, pensi che il tuo modo di lavorare, come sceneggiatore o disegnatore, cambierebbe su un personaggio d'altri?
Penso che non sarei adatto. Mi ha lusingato la richiesta ma non credo che il mio modo di lavorare anarchico si possa adattare ad un personaggio già esistente. Credo che farei del male al personaggio.

Hai in cantiere un film animato. Sappiamo che non puoi rivelare dettagli in merito. Sei un appassionato del mezzo? Perché hai deciso di sperimentare con questo tipo di narrazione?
C’è questa idea nell’aria. Vorrei sperimentare perché nell’animazione ci sono tutte le cose che mi piacciono: i disegni, il ritmo, il sonoro, la musica. Mi sembra un passo naturale, ma non so se riuscirò a concretizzare la cosa.

unastoria

Per leggere l'intervista a Gipi, clicca qui.

L’opera di Gipi è un fumetto, un graphic novel. Eppure è altro. Forse anche perché esce dalla percezione comune di graphic novel, quella stessa percezione a mio avviso sbagliata che tuttavia non impedisce alla gente di scrivere fenomenologie del romanzo grafico.

Si ha come l’impressione che il graphic novel stia subendo - e in parte abbia già subito - il processo che subisce di continuo l’animazione. Perché sono entrambe creature bastarde, fondate sull’illustrazione, ma poi declinate col cinema da una parte e con la letteratura dall’altra. L’animazione, come il graphic novel, non è un colore con cui dipingere sempre uguale a stesso, vincolante e costrittivo; al contrario, sono mezzi con cui esprimersi, lo scarto è formale, non di sostanza. Alcune strutture, alcune modalità, riescono meglio a uno piuttosto che l’altro, la storia di un divorzio funziona di più in un film dal vivo che non a cartoni, ma ciò non vuole dire che non lo si possa raccontare con quest’ultimo mezzo. L’animazione non è un genere cinematografico che racconta solo storie di alberi parlanti e fatine dei denti. Con l’animazione posso realizzare film di genere, noir, commedie, porno. Lo stesso dicasi del graphic novel. Si parla di graphic novel come genere che è riuscito a innestare nel romanzo linguaggi e strutture del fumetto ma appare evidente come già di per sé il fumetto sia letteratura che si legittimizza senza dover per forza prendere in prestito gli strumenti del novel. L’errore che viene commesso è di scambiare per spie contenutistiche invece che formali determinate convenzioni del mezzo. Il graphic novel è un genere solo nella stessa accezione di “genere” propria del romanzo (forma più lunga, individualizzazione della storia rispetto a una indistinta coralità appartenente all’epica, scenario di crisi e rinascita) e questo perimetro è ampio abbastanza per far pascolare bestie diverse per istinti e dieta. Si tende infatti a cercare stilemi comuni al graphic novel, trattandolo da sottogenere, quando in realtà più di una primordiale idea di romanzo non dovrebbe avere e spesso nemmeno ha. Ci sono romanzi di bassa lega e romanzi scritti bene. Non è che adesso i romanzi alti, considerati “di letteratura”, li chiamiamo “quadri a parole” o “esperienze letterarie”.

unastoria1

Pur restando nell’ambito ristretto - nel senso quantitativo del termine - dell’opera gipiana, Questa è la stanza è tanto fumetto quanto Unastoria eppure sembrano a stento figli dello stesso padre, per contenuti e temi (la delicatezza dello sforzo continuo a cercare un’umanità migliore del primo contro la desolazione interiore di fronte al non potere recepire il Bello che sta attorno – o di recepirlo a costo di accettare il Brutto). Li accomuna il fatto di essere dello stesso autore. E di essere fumetti. Risulta quindi superfluo tentare di incasellare e mettere paletti di sorta a un mezzo che è ibrido e come tale può permettersi il lusso di tenere il piede in più scarpe. Bypassando il problema e andando in giro a piedi scalzi, Unastoria si interessa poco alla querelle e non fa che scardinare le aspettative a ogni pagina, nella sua granulosa consistenza da pellicola filmica, come fosse un rumore che assorda il lettore nelle sue parti più quiete.

Il fumetto di Gipi parla dell’uomo e della natura, finendo per essere dominato da quella stessa logica di dualità che governa la vita; se si vuole trascendere dalla realtà mondana l’uomo deve fuoriuscire dallo schema dicotomico e piantarsi in una dimensione dove gli opposti coincidano, situazione paradossale per la mente umana che rischia di destabilizzarla. Gipi lo fa fin da subito, con il giovane che si scopre vecchio, con le vedute contemplative della natura per frenare il lettore mentre la contessa chiede un modo per velocizzare la guerra, perché tutto deve andare più veloce, e lo fa fino alla fine, con l’immagine di un interno rurale a cui appiccica la didascalia “Ed uscirò”. E nel mezzo c’è tutto il resto, un lungo processo di risemantizzazione preteso dalla modernità, una modernità intesa non come cornice temporale, ma come atteggiamento di tensione verso l’esterno; la modernità esige il cambiamento perché ha deprivato il repertorio di segni della dimensione sacra, ha costretto all’insulto, alla volgarità chiunque lo circondasse, e questi topoi sono degradati e assunti a materiali di racconto. Quello stesso racconto che sarebbe un semplice mito svuotato di tutto (il capitolo “Niente”), ma che grazie alla letteratura ritorna materia narrativa, necessaria affinché l’uomo possa confrontarsi con la sua finitudine. Quindi, prima l’albero, locus consacratus per eccellenza, ove si manifesta il meraviglioso, generatore di vita, conoscenza, non è più nulla di ciò, è indifferente rispetto all’omicidio che viene perpetrato, è il nemico, il combattente della partita a tennis; e poi le armi create dall’uomo (la pillola di Bituprozan, la mitragliatrice Maschinengewehr, la penna), armi che dovrebbero salvarci, si rivelano invece artefici della nostra rovina, della caduta.

unastoria2

Nel dipingere questo affresco, Gipi recupera un lessico essenziale, ritmico e suggestivo, una sintassi franta, dove tutto è da raccogliere e rimettere insieme, nel tentativo di trovare un cuore, un nucleo a cui abbarbicarsi, una casa a cui fare ritorno. Lo fa tanto con il testo quanto coi i disegni, figli impasticcati di Tavor di Turner e Hopper: da una parte il grande spazio dedicato al paesaggio, un paesaggio che gioca sul cromatismo e sull’indeterminatezza delle forme, dove le luci delle auto si mescolano all’asfalto in un’unica scia di luce, dall’altra il senso hopperiano di solitudine urbana e di gioco con gli spazi inumani (la stazione di servizio è una delle icone statunitensi meglio rappresentate dal pittore newyorkese).
Per quanto Unastoria mostri un Gipi mai quanto prima abile con i pennelli, la sua ultima fatica è avvolta nella scrittura, una scrittura come comunicazione, come ultimo aggancio alla sanità mentale (e, non a caso, Landi è in crisi per un blocco dello scrittore), ma anche come forma di controllo sulla vita, quasi fosse il desiderio realizzato di essere editor della propria esistenza.
In questo senso, volendo scorgere echi al passato si potrebbe guardare alla leopardiana La ginestra che più di tutte le poesie del poeta marchigiano ha portato avanti il discorso complesso sulla Natura e sulla solidarietà umana: la Natura che circonda entrambe le opere è madre indifferente, per questo crudele, e nemico comune contro cui fare gruppo. E allo stesso tempo è bella nella sua potenza e vitalità. La schizofrenia sta in questo: l’uomo non riesce ad apprezzare tanta bellezza per le brutture che ha in sé e sembrerebbe desiderare che non esistesse, che non fosse così bella, per non dover far fronte a un confronto che non può sostenere. Eppure, dove la natura viene a mancare - vedi l’albero secco, morto - anche l’uomo viene meno ai suoi principi, rendendo la prima condizione necessaria perché il secondo mantenga la caratteristica fondamentale della sua specie, l'umanità. Il cortocircuito sembra condurre a un progressivo spegnimento (il quarto capitolo “Niente” non ha l’immagine, il quinto nemmeno il titolo), a uno iato colmabile solo dall’accettazione di quelle stesse brutture: l’età che avanza da una parte, l’uccisione dall’altra. Morte, in entrambi i casi. Venirci a patti, attuare quel confronto con la propria finitudine alla base della letteratura, diventa allora la linea prospettica che conduce all’unico punto di fuga concesso, l’amore. Il sentimento d'affetto è forza vitale che viene legittimata dal suo opposto, il nulla, la morte. La dualità è completa, gli opposti sono tornati a coesistere sotto un'unica sfera di dominio, la perfezione. Una perfezione che non può più avere i connotati di un volto piano e liscio ma è scolpita nel tempo dagli scalpelli affilati dei sentimenti.

Supergods

Wonder Woman paladina del sadomaso, Namor un arrapato Peter Pan e Superman un rigurgito junghiano. Eccole le divinità che Grant Morrison racconta nel suo Supergods, libro crocevia, ibrido tra il saggio, diario personale e manuale di storia, che rappresenta al meglio la personalità eclettica dello sceneggiatore scozzese.

Lasciando da parte gli inutile preamboli sul proprio autore, Supergods pone al centro il supereroe e il suo percorso nel secolo breve, rimodellato dagli stampi dei Gilgamesh, degli Ulisse e dei Lancilotto. Morrison prende le icone del fumetto supereroistico, filone che nessuno come gli Stati Uniti d’America ha saputo rielaborare e proporre al pubblico del XX secolo, le mostra al lettore da ogni sua angolazione, evidenziandone pregi e difetti, le lucida col fiato, se le coccola facendoci leggere persino stralci del suo diario di quando aveva otto anni. Poi prende un martello e le distrugge. Le fa a pezzi, smembrando ogni componente, vivisezionando ogni traiettoria, sia le più semplici direttive autoriali sia i più reconditi movimenti sotterranei che animano Superman e soci. Forse è questo il difetto più vistoso dell’opera: le linee del discorso continuano a infrangersi proiettando sul testo i propri frammenti e diventa difficile ricomporre tutti i pezzi del discorso per figurarsi un’immagine coerente.

supergods 1

D’altro canto, Morrison si rende conto che un tomo di 500 pagine sulla figura dell’eroe sarebbe buono solo per le aule universitarie, ma sa anche che perfino il suo fan numero 1 - se stesso, credo - cadrebbe in catalessi di fronte a un’autobiografia spessa tre dita. E di libri sul fumetto son piene le librerie, lo scozzese non ha la minima intenzione di seguire un filone a cui non avrebbe nulla da aggiungere. Il tomo non vuole essere nessuna di queste cose. Appena la parte storica sta per prendere il sopravvento, Morrison infila a mo’ di cuscinetto un aneddoto risalente al corrispondente periodo della propria vita. E quando il suo privato si fa invadente ecco che ci viene proposto un microsaggio su Il ritorno del cavaliere oscuro, una manciata di pagine che da sole varrebbero l’acquisto del libro. E questo lo fa di continuo, in un perpetuo atto di giocoleria che dura per tutta la lettura del libro (non parla di tutte le sue opere e dalla Dark Age in poi, epoca in cui Morrison è sempre più coinvolto nell’industria come peso massimo, il suo modo di trattare la materia diventa giocoforza meno rigoroso). Non spinge mai fino in fondo nessuna delle parti, mischia tutto e confonde il personaggio altezzoso che s’è cucito addosso con l’autore che lo scrive. Proprio come la grafica alla Pablo Ferro del libro, la prosa di Morrison è chiara ed elegante, scorrevole nelle parti istituzionali, brillante nelle sezioni più concitate. Quasi troppo brillante, perché Morrison si lascia andare a volate stilistiche che distolgono l’attenzione dal discorso. In quei momenti, più che raccontare, l’obiettivo dello scozzese diventa far sentire il suono marcato della propria voce sulla pagina.

Nei confronti della materia che spiega, Morrison è un insegnante sarcastico, di quelli che non sai mai se la prossima mattina sarà cordiale e intrattabile. Lo scozzese è benevolo nel spargere lodi tanto quanto è tranciante nell’affondare il coltello nella carne (tanto per dirne una, non esita a elogiare Wally Wood per essere stato un ottimo “disegnatore, scrittore, editor e alcolizzato”). Nulla di tutto questo sarebbe minimamente divertente se alla base del libro non ci fossero analisi precise, intelligenti che contestualizzano le opere nel flusso della storia fumettistica. Eppure, con il suo fare strafottente, Morrison riesce a essere frivolo e divertente, mandando tutto in vacca con racconti beoti da rockstar; il picco, in questo caso, lo raggiunge narrandoci di una sua ospitata alla fiera di Lucca, passata a stonarsi con Peter Milligan. Più trascurabili le parti di commento sul filone dei cinecomic, una carrellata tutto sommato anonima sui film dei supereroi che avrebbe avuto ragion d’essere in un qualsiasi forum, ma che in questa sede non regge il confronto con il resto del materiale.

supergods 2

Arrivato in Italia grazie alla BAO, Supergods rivela la propria natura solo all’ultimo capitolo: un lungo commento a corollario di All-Star Superman, serie del decennio scorso che racchiude in sé i temi e i nuclei significanti del libro. Più o meno velatamente, il volume imbastisce discorsi che portano a una logica conclusione, la decostruzione della sua stessa opera, uno degli esempi più alti nel genere del “superoe divinizzante” nonché una delle miglior prove del Morrison sceneggiatore. Forse perché, e Supergods lo spiega bene, a dargli una mano c’erano anche il Morrison fan e il Morrison uomo.

Sottoscrivi questo feed RSS