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Giulia Astolfi

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Rat Queens 1 - Chiappa e Spada, recensione: un GDR a fumetti

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Quale desiderio può mai avere un giocatore di ruolo da tavolo? La risposta potrà sembrare semplicistica eppure risulta, alla fin fine, terribilmente efficace. Ciascun giocatore di ruolo cerca un momento per viaggiare utilizzando la fantasia: vuole essere per una sera l’adorato sir Bowen di Dragonheart e farsi come migliore amico il drago più figo della storia, oppure vuole impersonare Rick Deckard di Blade Runner e uccidere replicanti in un’ambientazione futuristica.
La vera speranza però è una soltanto, ossia trovare qualcosa che ti faccia viaggiare con la mente e con la fantasia tanto quanto lo faresti ad un tavolo da gioco con i tuoi amici.

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Per una volta ci siamo riusciti anche noi, sentendo per altro alla perfezione l’atmosfera che si percepisce ad un tavolo da gioco, cosa per nulla da poco. Tutto grazie a Rat Queens – Chiappa e Spada – scritto da Kurtis J. Wiebe e disegnato da Roc Upchurch, serie Image Comics in Italia per Saldapress.
Generalmente, in una storia fantasy avventurosa, che sia un libro o che sia un fumetto - come in questo caso – si possono allargare i fronti della propria immaginazione pensando alle avventure vissute dai personaggi della storia. Davvero però è capitato pochissime volte non solo di immaginare la storia vissuta dai personaggi del fumetto – di cui parleremo a breve -  ma anche di riuscire a collegare ad ognuno di loro un personaggio potenzialmente interpretato da persone che conosciamo e che giocano di ruolo. Come sono riusciti gli autori in questo processo che da leggere – lo ammettiamo – può risultare particolarmente complesso? In realtà alla fin fine è piuttosto semplice.

Ognuno dei personaggi all’interno della storia, quindi non soltanto le nostre Rat Queens, rappresenta appieno uno stereotipo creato all’interno dell’universo del gioco di ruolo. Dalla maga introversa, all’orchessa amante dei combattimenti, perfino arrivando a quel tipo di personaggio che “vorresti tanto provare a giocare però alla fine ricaschi nel temuto cliché perché, ahimè, risulta davvero più funzionale per il personaggio stesso”. Chi, giocando, non si è mai trovato a fronteggiare la temuta definizione del personaggio cliché?

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Per quanto riguarda la trama del fumetto Rat Queens ci troviamo davanti a un fantasy con protagoniste un gruppo di guerriere mercenarie ("Hannah la maga elfa rockabilly, Violet la nana guerriera hipster, Dee l’ecclesiastica atea di razza umana e Betty la ladra un pizzico hippy"), a caccia di lucrose missioni. Forse risulteremo ripetitivi, ma pensare ad un classico dungeon di una partita di un gioco di ruolo può aiutare a capire al meglio il funzionamento e il susseguirsi delle vicende all’interno della storia. Se all’inizio ci si concentrerà sul conoscere i quattro personaggi principali e le loro abilità, nel corso delle loro rocambolesche avventure capiremo sempre meglio ciò che riguarda il loro passato e il loro ruolo all’interno del gruppo delle Regine.

Riguardo i disegni di Roc Upchurch, dopo una presentazione del primo capitolo a dir poco ad effetto con un bellissimo ritratto di Hannah – membro di razza elfica delle Rat Queens e potente maga – l'artista ci mostra un tratto chiaro e di facile intesa, che si sposa a dir poco alla perfezione i colori. Le sfumature di questi ultimi sono precisissime e rendono davvero bene la tridimensionalità di ogni figura e di ogni personaggio, persino nelle scene ad alto tasso di combattimenti e di “scazzottate”.

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Un particolare che ci ha letteralmente conquistato di questo fumetto è la grande presenza scenica che ogni singolo personaggio ha all’interno della storia. Tutti hanno qualcosa da dire, tutti hanno un piccolo segreto da custodire e per di più quel segreto se lo scopri è persino interessante. Gli autori sono riusciti a rendere anche i personaggi secondari terribilmente interessanti semplicemente facendoceli vedere sotto l’ottica dei PNG – Personaggi Non Giocanti – dei giochi di ruolo cartacei, ovvero quelli che, in un tavolo da gioco di ruolo cartaceo, sono interpretati dal Master, ossia da quella persona che non manovra un singolo personaggio – come un normale giocatore – ma che invece controlla tutto l’universo di gioco dei personaggi giocanti e che tendenzialmente tira le fila dell’avventura dei suddetti.

Questa piccola parentesi era necessaria per rendere al meglio la percezione che abbiamo avuto dei personaggi di questo fumetto e della grande personalità che mostrano in ogni scelta che fanno all’interno della storia, tanto grande che sembrano manovrate da singole persone che per una sera vogliono vivere una grande avventura. Attorno a loro ruota tutta la nostra recensione perché è attorno a loro che ruota tutta la storia nel fumetto, una storia fatta di momenti dolci e momenti duri ma, soprattutto, di momenti in cui le quattro protagoniste della storia, le nostre Rat Queens, sapranno farsi valere con enorme forza d’animo e gli “attributi” giusti.

Gli Orchi Dei: Piccolo, recensione: la messa in scena di una fiaba gotica

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Tutti noi da bambini ci siamo fatti raccontare, almeno una volta, una fiaba prima di andare a dormire. Ognuno di noi ha una sensazione diversa collegata al ricordo di quel momento, c’è chi si riscopre nostalgico e chi invece sente nuovamente la paura che provava in determinati racconti, proprio come se il tempo non fosse mai davvero trascorso.
Questa sensazione è - personalmente - quella che ho provato quando mi sono ritrovata a leggere Gli orchi dei: Piccolo.

Edito da BAO Publishing, la storia è scritta da Hubert ed è “messa in scena” e disegnata da Bertrand Gatignol. Nessuna espressione è utilizzata a caso, così viene infatti presentata la storia, anzi, l’opera. Proprio come una pièce théâtrale.

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La prima scena sembra aprirsi letteralmente come il tendone di un teatro, in tutta la sua ricchezza e opulenza, mostrando il re dei giganti intento a divorare con ben poca regalità la sua pantagruelica cena che consiste in svariati corpi umani. Tutto si svolge nella più placida quotidianità almeno fino a quando la regina, una gigantessa di poco più piccola rispetto al marito, dopo un semplice starnuto partorisce in mezzo alla sala.
La sorpresa sta proprio nel bambino che, invece di essere di dimensioni per l’appunto “gigantesche”, è della grandezza di un semplice bambino umano. Questo avvenimento fa letteralmente scattare in tutti i presenti al tavolo reale un raptus di follia, piuttosto che avere un consanguineo di piccole dimensioni, un grande disonore, preferiscono divorarlo. La regina decide però di risparmiare la vita a questo suo “particolare” figlio fingendo di mangiarlo, ma lasciando che siano le domestiche umane ad occuparsi della sua crescita. È da qui che infatti comincia la storia di Piccolo, il figlio del re dei giganti rifiutato dalla famiglia proprio per il fatto di non essere un vero gigante.

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Non daremo altri spoiler, ma questa presentazione della trama si rende assolutamente necessaria per comprendere appieno l’atmosfera in cui è letteralmente immersa la storia.
Aprendo per la prima volta questo fumetto non si deve pensare che si andrà a leggere una delle fiabe tanto edulcorate che ascoltavamo da bambini. Risulta bensì più facile ricollegare la sensazione che si prova, inoltrandosi nella trama, alla prima volta che si va a leggere una delle storie dei fratelli Grimm. Le fiabe, cosiddette, “originali” senza lieto fine e spesso e volentieri molto più crude delle fiabe che noi conosciamo. Spesso invece mostrano solamente la realtà senza fronzoli, la stessa realtà che sempre ci è più difficile da accettare in molti aspetti.

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Rendere la storia come uno spettacolo teatrale rappresenta la cornice perfetta ad un gran bel quadro, per di più. Non c’era modo migliore per presentarla, con un’organizzazione delle “scenografie” assolutamente perfetta. Il calcolo della presenza dei personaggi sulla scena e dello spazio utilizzato è meticolosissimo, proprio come se invece di organizzare la vignetta di un fumetto fosse stato preparato il palco per un’opera. Ed è nelle scene di gruppo in cui viene mostrata la grottesca famiglia reale dei giganti che ci accorgiamo di quanta attenzione è stata data a questo determinato particolare.

La lettura di questa storia è resa ancora più piacevole dalle parti scritte con le singole storie dei personaggi principali, il cosiddetto “Libro degli Avi”.
È necessario aggiungere altro, per consigliare vivamente questa lettura?

Ping Pong 1: recensione: uomini oltre lo sport

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Dà sempre soddisfazione avere una buona impressione su un fumetto a partire solamente dalla presentazione dei personaggi e questa soddisfazione si trasforma poi in appagamento quando si ha un riscontro positivo. Ping Pong, opera di Taiyou Matsumoto edita in Italia da 001 Edizioni, è un fumetto che comincia presentando i due protagonisti principali nel loro ambiente naturale: un centro per giocatori di ping pong gestito da un’anziana signora.
Abbiamo modo di conoscere Peko e Smile, due liceali amici d’infanzia con la passione in comune per questo sport da tavolo ma con due caratteri completamente diversi. Peko si mostra da subito molto estroverso, a tratti strafottente e ben conscio delle proprie capacità. Smile è l’esatto contrario, si presenta come taciturno e riservato, al punto quasi da sembrare solo una spalla per l’amico, per lo meno all’inizio.

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Sarebbe possibile interpretare la volontà dell’autore spiegando quanto uno sport possa avvicinare due personalità così diverse ma è da subito che invece viene spontaneo porsi una domanda:
chi è il vero protagonista, i due giovani oppure il ping pong?
Chiunque abbia letto fumetti del calibro di Captain Tsubasa (Holly & Benji) o Attacker You! (Mila e Shiro) sa quanto possa essere difficile far coesistere nella stessa storia uno o più personaggi dalla personalità convincente e anche uno sport. Il fumetto rischia di diventare un insieme di “passaggi” continui proprio tra i momenti dedicati al personaggio principale e lo sport, in modo che entrambi i focus della storia abbiano il loro momento di gloria.
Con Ping Pong il maestro Matsumoto è riuscito a creare non solo un perfetto connubio tra i due ma anche a rendere lo sport il condimento perfetto per le storie di due personaggi assolutamente interessanti.
I momenti di gioco sono presenti ma una volta che la storia prende una svolta particolare per presentare al meglio il vissuto dei due protagonisti, o dei momenti di dialogo non indifferenti alla trama, il ping pong si fa da parte lasciando ai personaggi e al loro grande carisma tutta la scena.
Non esistono palleggi in questa storia, non ci sono scambi di protagonismo tra i personaggi e lo sport, essi non solo coesistono pacificamente nello stesso ambiente ma si danno pari importanza vicendevolmente. Il fulcro della storia, il focus principale è sempre la storia dei due ragazzi e il ping pong rappresenta il meraviglioso contorno che li unisce e che fa parte delle loro vite.

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Dal punto di vista visivo il fumetto risulta non solo ottimamente disegnata ma anche perfettamente organizzato: la dinamica della storia è facile da seguire, spesso -infatti - nei fumetti sportivi è facile perdere il filo conduttore della trama. Si capisce però che vi è stata grande attenzione nell’ordinare in modo perfetto i dialoghi soprattutto nelle pagine in cui vengono mostrate le partite che risultano sì dinamiche e coinvolgenti ma con una facile comprensione della trama di fondo.

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PingPong di Matsumoto può mostrarsi inizialmente come un manga dalla preponderante presenza sportiva ma, in definitiva, basta leggere i primi capitoli per, non solo, apprezzare proprio lo sport del ping pong ma soprattutto per godere delle belle storie dei personaggi e della loro, davvero ottima, caratterizzazione.

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