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Emanuele Amato

Emanuele Amato

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Pallonate del destino, recensione: Una società plasmata sul campo da gioco (e biscottini dopanti)

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Edo 900 non è nuovissimo del settore. L'autore ha lavorato su Linus, Motorino, Torazine e Petrolio, tutte riviste di un certo peso (ovviamente in base al target). A un certo punto, posa matite e pennelli e si dedica al collage con lo pseudonimo di King Pritt. Cinque anni fa, ritorna sulla scena col collettivo Brigata RGB. Nel 2019, grazie alla 001 Edizioni, pubblica il suo primo graphic novel: Pallonate del destino.
 
Inizialmente il titolo può trarre in inganno e il volume potrebbe apparire come un’opera dai toni leggeri e avventuristici. Tutto sbagliato. La storia ha un mood completamente diverso, forse quanto più lontano possiate immaginare, e questo non è un male. Solitamente ci si trova a leggere esattamente ciò che si aspetta, niente più e niente meno. Restare spiazzati, ormai, è divenuto un momento raro. Pallonate de destino, già alla partenza, non è così scontato.

In una colonia orbitante, gli adulti hanno dovuto abbandonare la navicella per combattere una guerra sul loro pianeta, che sta cadendo sotto bombe alfa. Partono, così da poter risolvere una situazione e farci ritorno con la propria famiglia. L’astronave, quindi, resta nelle mani dei bambini. Passano i mesi ma non si hanno notizie. La struttura sociale, quindi, viene plasmata secondo regole molto infantili (forse): le cose di vitale importanza vengono regolate secondo partite di pallavolo. Non solo, queste possono finire letteralmente male, tipo con la morte. Alcuni team, inoltre, fanno uso di biscottini dopanti che aumentano le prestazioni fino al paranormale. Sotto gli effetti di queste droghe, riescono a spezzare braccia, spappolare crani e rompere pareti di interi edifici. La leadership, prima sul campo e poi sull’intera colonia, si conquista sul campo. Ebbene sì, quest’opera è molto brutale, senza un minimo di umorismo o ilarità.

Con un ritmo serrato ma mai iper-veloce, Edo 9000 riesce a far divorare il proprio libro al lettore. La sceneggiatura è snella ed efficace, i dialoghi semplici e fulminei rendono quest’opera una perfetta sintesi di ciò che è definibile come Pop-Gore. Nessuna empatia con i protagonisti, nessuna immedesimazione con essi, solo un distacco clinico e cinico. Come un osservatore partecipante, il lettore è con loro ma - al tempo stesso - fuori dalle loro dinamiche, pur essendone immerso. Attenzione, però, non c’è solo brutalità. Man mano che si procede, si inizia ad intravedere un barlume di luce, ma non diremo se sia solo un miraggio nel deserto oppure una speranza concreta.

La strutturazione delle tavole è molto semplice. Per un buon 70% si è optato per due vignette a griglia, salvo eccezioni in cui la composizione diventa più complessa e meno rigida. Il tratto pulito e cartoonesco, racconta una storia violenta e straniante. Atmosfere esasperate si fondono con una distopia che oscilla tra Il signore delle mosche e Mila e Shiro (Attacker YOU!). Citando il primo, notiamo come effettivamente la morale è prerogativa dell’adulto e che il bambino si adatta a ciò che lo circonda, l’infanzia può essere purezza come perversione. Il tutto con la naturalezza della fanciullezza, senza clamori, senza scalpori. Lo stile usato quindi, aumenta e condensa la sensazione dissacrante, creando fastidio. Passando al secondo, invece, immaginate di vedere Mila Hazuki schiacciare su Kaori Takigawa, decapitandola.

001 Edizioni porta a casa un titolo veramente interessante, oltre che inaspettato. Maturo, diretto e senza peli sulla lingua, Pallonate del destino è un’opera forte e disturbante. La prefazione di Maicol & Mirco, centra perfettamente il punto: noi lettori siamo la palla. Rimbalzante nel vuoto cosmico.

Quattro ragazzini entrano in una banca, recensione: Heist comic a regola d’arte

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Partiamo dalla fine: vale la pena prendere questo fumetto? La risposta è: assolutamente sì. Eliminato l’elefante dalla stanza, possiamo adesso spendere due parole sul volume con tutta tranquillità.
Kieron Gillen ha sintetizzato nel miglior modo possibile Quattro ragazzini entrano in una banca: “Immaginate che Tarantino scriva e diriga I Goonies. E che lo faccia in maniera eccellente.”. Niente di più vero. Non parleremo della scia (già affrontata più volte) di opere che richiamano gli anni '80 e '90, esplosa da un po’ a questa parte, possiamo però dire che anch’essa si inserisce in quel filone. Cos’ha quindi questa storia da essere così bella? Ci arriviamo subito.

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I protagonisti sono un gruppo di ragazzini amanti dei giochi di ruolo in stile D&D, di videogiochi alla Double Dragon e giocattoli come He-Man o Power Rangers. Il padre di uno di essi, però, ha un conto in sospeso con una banda di criminali appena usciti da galera. L’incontro tra queste due fazioni genererà una serie di eventi che porterà ad avere una cosa in comune: una rapina in banca. Potremmo tranquillamente dire che non ci sia nulla di nuovo in queste premesse, opere recenti come Stranger Things o Paper Girls si basano su eventi di ragazzini che devono affrontare cose al di là della loro portata, eppure negli USA la critica non ha dubbi: questa è una delle migliori produzioni del 2017. Senza spoilerare possiamo dire che da queste premesse Matthew Rosenberg e Tyler Boss dipanano una vicenda ricca pathos e dalla grande freschezza narrativa.

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L’accostamento del genere crime e del caper/heist diversificano l’opera da altre donandole una luce differente. La sceneggiatura di Rosenberg è solida e articolata, l'autore gestisce ottimamente i momenti drammatici con quelli divertenti, rendendo il tutto molto equilibrato e mai noioso. I temi trattati sono vari, creando più livelli di lettura e, di conseguenza, più profondità. Si spazia dall’amicizia, al senso della famiglia e del dovere, fino ai concetti di giusto e sbagliato morale (e penale). Il carattere e l’indole di ogni ragazzino è stereotipico del genere ma non stereotipato. C’è la ragazza ribelle, il ragazzo timido e introverso, il combinaguai e quello razionale e giudizioso, tuttavia nessuno di essi appare scontato scontato, anzi, Rosenberg li tratteggia in maniera sottile e li sfuma egregiamente. Il focus è sulle interazioni del gruppetto, come giusto che sia, ma la caratterizzazione dei personaggi secondari non è lasciata al caso o tenuta in maniera superficiale. Il padre di Paige, per esempio, è strutturato perfettamente e prende lo spazio necessario, pur non apparendo spessissimo. Il fulcro drammatico è dato proprio dal rapporto dell’uomo con la figlia. La maestria di uno sceneggiatore è proprio quella di sintonizzare il lettore ad un personaggio, seppur in pochi dialoghi.

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Merito della riuscita del volume va a Tyler Boss, perché senza la strutturazione delle tavole, così particolari e ricercate, probabilmente questo fumetto non avrebbe avuto lo stesso successo e la stessa potenza espressiva. Inquadrature perpendicolari nella stanza, le trovate in stile David Aja in Occhio di Falco, due tavole da 24 vignette l’una per una scena di comunicazione via radio, sono solo alcune delle soluzioni registiche del disegnatore. Alcune scene d’azione ricordano invece il lavoro di Wes Craig in Deadly Class, quando preme l’acceleratore per dare cardiopalma al lettore. Tutto in funzione della narrazione, sfruttando completamente le peculiarità del medium.

Particolarmente interessanti sono gli inizi dei capitoli. Ognuno di esso è ambientato in un “mondo di fantasia” dei ragazzi, ad esempio la partita a D&D dove ognuno di essi è un personaggio (drago, guerriero etc). Mentre giocano, visivamente vediamo vignette con draghi e guerrieri da loro interpretati: litigando nella realtà fanno discutere i loro avatar creando così due livelli di narrazione sovrapposti.

L’edizione della Panini Comics è sublime. Uno splendido cartonato 18x28 che contiene anche tutte le cover variant che riprendono locandine di film come Fargo, Le Iene, Ocean’s Eleven e molte altre ancora, rielaborate con i personaggi del fumetto.

Death or Glory 1, recensione: una corsa contro il tempo e gli psicopatici

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Il claim è davvero incisivo, ammettiamolo: “Cinquemila miglia, quattro colpi, tre giorni, due psicopatici e una donna che ne ha abbastanza”. Solitamente sono quelle frasi impattanti che servono solamente a vendere, ma qui risulta tutto vero. Rick Remender non ha bisogno di “atti di fede”, ha dimostrato più volte il suo talento, sbarcando anche in tv con la trasposizione del suo Deadly Class, sempre edito in America per la Image Comics.

Siamo a Yuma, in Arizona, ovvero negli Stati Uniti, al confine con il Messico. Quell’estremo sud ovest che più volte ci è stato narrato.
Scena iniziale: in un fast food verso orario di chiusura, due dipendenti sono intenti a finire le faccende per poter tornare alla loro vita. Si presenta un uomo con modi gentili ma palesemente freddi e particolari. Ordina 123 hamburger. I due ragazzi credono sia uno scherzo ma l’uomo insiste in maniere educata, sottolineando il loro dovere. Al rifiuto da parte del personale, l’ultimo cliente rimasto cerca di mandar via l’uomo ma questi estrae un’arma alimentata ad azoto liquido e ammazza i tre disgraziati. Il richiamo, evidente, è a Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen.

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Nella scena successiva siamo in un garage e facciamo conoscenza della protagonista della storia: Glory. Mentre salda pezzi di un’automobile, capiamo subito che è una meccanica bella tosta e Remender ci introduce in maniera brutale in ciò che sta per fare.
Dopo il prologo, l’autore ci fa conoscere il vissuto della ragazza. Un’infanzia a bordo di un camion. Una vita on the road dopo che il padre ha lasciato il lavoro frustrante che aveva. Ora è proprio quest’ultimo che ha bisogno di cure, non avendo assicurazioni sanitarie. Ha bisogno di un trapianto di fegato entro settantadue ore. Glory decide di compiere una rapina ai danni dell’impresa criminale dell’ex marito. Da qui partono le vicende frenetiche della storia, con sequenze adrenaliniche: inseguimenti mozzafiato, sparatorie di ogni genere, morti assurde, che vengono alternate a rallentamenti (anche se brevi) di dialoghi intimi e tranquilli e flashback che cercano di mettere chiarezza su alcuni punti.

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I toni della narrazione sono sopra le righe, il racconto è frenetico ma Remender e Bengal hanno calibrato tutto in maniera minuziosa e precisa. Si nota la maestria nel saper tessere le vicende, arrivando al punto estremo di velocità, ma senza superare la soglia che porta al disordine e caos.
Per quanto riguarda il contesto sociale messo in atto tramite un worldbulding accurato il team punta l'occhio verso il sud degli Stati Uniti. Da Southern Bastards a Redneck, anche Death or Glory contestualizza uno spaccato noto agli americani. Il mondo dei camionisti è il perno migliore su cui far ruotare una vicenda sincopata e veloce, mescolata saggiamente a scene dove si comprende il loro modo di vivere e le scelte di libertà che comportano con i loro pro e contro. Ogni trucker sa che quella è la propria famiglia. Una famiglia che conosce le abitudini, la difficoltà e la bellezza del vivere senza restrizioni. Ci sono ognuno per l’altro, qualsiasi sia la posta in gioco, come quella di Glory.

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I disegni sono affidati al noto fumettista francese Bengal, che infonde dinamismo alle tavole grazie ad inquadrature cinematografiche dal grande impatto. Le scene d’azione sono spettacolari e molto dettagliate e ci catapultano in inseguimenti mozzafiato e sparatorie adrenaliniche. Molto belle le scelte stilistiche delle scene di violenza, che sottolineano la crudezza di determinati atti e soprattutto evidenziano la brutalità del tema.
Il tratto pulito e le linee precise risultano perfette con il mood della storia. La sinuosità delle anatomie e la plasticità dei movimenti dei personaggi entrano in sinergia perfetta con il design dell’altro punto focale del fumetto, ovvero i motori. Auto e mezzi meccanici sono curati minuziosamente.

Il primo volume di Death or Glory ti porta su montagne russe emotive e narrative che ti invogliano a continuare la lettura. L’edizione Bao Publishing è un cartonato 17x21 cm molto curato che presenta, altre al fumetto, gli studi dei personaggio dell'auto di Glory.

Sfera: la ricerca e l'Arte: intervista ad AlbHey Longo

Classe 1993, il fumettista torinese AlbHey Longo - dopo La quarta variazione - pubblica per Bao Publishing il suo secondo libro dal titolo Sfera. Come evidenziato nella nostra recensione, i temi affrontati nel graphic novel vanno dal ruolo dell'Arte alla ricerca di se stessi. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con l'autore per saperne di più. Diamo dunque il benvenuto ad AlbHey Longo su Comicus.

Tutta l’opera ruota intorno alla ricerca. Dalle prime pagine, dove Damiano cerca di capire l’origine del suo potere, fino a Chiara, che cerca il modo di esprimere la propria creatività. Se già ne La quarta variazione si parlava di ricerca, Sfera sembra la sua evoluzione concettuale. Cosa è cambiato per te riguardo al tema e rispetto al tuo primo libro?
Ciao, Comicus! Se ne La Quarta Variazione il tema era anche la crescita, insicura, piena di domande su se stessi e su chi ci circonda, in Sfera si parla più di una ricerca personale. Damiano e Chiara sono personaggi più adulti che non possono più “nascondersi” dietro un apparente immaturità, le loro ricerche sono lo specchio di una ricerca di stabilità, ordine e appagamento che tutti noi cerchiamo costantemente, tenendo testa alle mille variabili che la vita ci pone davanti! O almeno, questo è quello che volevo in parte trasmettere!

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Emotivamente, escludendo l’affinità di pensiero, ti senti più vicino a Chiara o Damiano?
Inizialmente mi sentivo più vicino a Damiano e questa cosa mi ha aiutato a scrivere parte del suo personaggio e delle sue scene iniziali. Mentre lavoravo al libro alla fine mi sono reso conto, anche tramite pareri esterni, che ho messo in Chiara molte più cose di me di quanto pensassi! E quindi, ad un certo punto, Damiano è andato per la sua strada.

In Sfera hai inserito elementi paranormali. Come mai questa scelta?
Avevo voglia di staccarmi da una narrazione prettamente ancorata alla realtà. Il fumetto ti offre la possibilità di inserire “senza spese” elementi che in altri media visivi avrebbero un costo elevato, e volevo cogliere questa possibilità. In più mi divertiva trovare una mia declinazione del “superpotere”.

Si sente la critica all’arte moderna, sul suo fattore essenzialmente estetico ma dal contenuto non sempre presente, se non quello dato dai critici. Credi che questi tempi veloci abbiano messo in secondo piano il senso e il significato, puntando più sul design e sull’impatto visivo, rispetto a prima?
In realtà la mia non è proprio una critica, è più un mostrare quali sono gli approcci più diffusi sul mondo dell’arte contemporanea. Ormai l’impatto visivo e la pura estetica sono diventate di per sé dei valori che non hanno bisogno di grandi significati per esistere, che poi se ci pensiamo era la stessa cosa per l’arte classica, pura rappresentazione e tecnica.
Penso anche che la critica del vecchio contro il nuovo, del nuovo contro il vecchio, del nuovo contro il nuovo e via discorrendo faccia parte del gioco. Tornando a Damiano e Chiara, in qualsiasi ambito artistico il proprio operato non sarà mai apprezzato completamente da tutti, e bisogna essere sicuri dei propri intenti per avere le spalle abbastanza larghe per sopportare e accogliere le critiche.

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Il tuo tratto è in evoluzione. Sempre caratteristico ma più deciso e preciso. Senza contare l’uso dei colori. Il tuo laboratorio creativo sono le storie brevi, oppure sperimenti sostanzialmente e soprattutto con i tuoi lavori lunghi?
Grazie! Sicuramente le storie brevi e le illustrazioni sono la palestra che preferisco!
Poi in generale, e penso continuerà così, il tratto in evoluzione è anche dovuto al tipo di storia che voglio raccontare, nel periodo di lavorazione di Sfera avevo bisogno di trovare un mio ordine, una mia pulizia nella narrazione e nel tratto.

Più volte hai dichiarato che intendi spostarti su lidi più action, dalle tinte sci-fi. Cosa dobbiamo aspettarci?
Spero delle figate, ahahah!
Vi ringrazio per l’intervista!

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