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Il Cap nero prima di Steve Rogers, la recensione di Capitan America: La Verità

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A inizio millennio la Marvel era in piena rivoluzione, dopo alcuni anni di crisi e incertezze. Prima di essere acquistata dalla Disney e prima che esplodessero i cine-comics, Joe Quesada era stato promosso a editor in chief della Casa delle Idee e il presidente Bill Jemas incoraggiava strade alternative e sentieri mai percorsi. Fu in questo clima che autori lontani dal fumetto mainstream vennero coinvolti in progetti più o meno regolari che portarono a diversi risultati interessanti. Fra questi, il compianto Robert Morales (a cui poi venne affidata la serie regolare di Capitan America) e Kyler Baker, diedero vita alla miniserie Truth: Red, White anche Black, pubblicata nel 2003.

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Tradotta in italiano semplicemente con il titolo La Verità, la storia, utilizzando la ret-con narrativa ovvero l’introdurre a posteriori eventi del passato, mette Steve Rogers davanti a una clamorosa scoperta: egli non fu il primo Capitan America. L’esercito americano, infatti, prima di testare il siero del super-soldato sul mingherlino Rogers, sperimentò la formula su una serie di soldati neri, considerati sacrificabili per via del colore della loro pelle. Gli esiti non furono positivi per tutti, e alla fine solo Isaiah Bradley fu l’unico superstite di questa operazione.

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Morales, con una sceneggiatura molto veloce, che adopera pochi dialoghi e nessuna didascalia, senza indugiare troppo in riflessioni o nel voler mettere in scena momenti epici, racconta una storia drammatica e forte, che parla naturalmente di razzismo, mostrando bene come la società civile e l’esercito trattava la popolazione nera, ma evidenzia anche l’ipocrisia che vigeva all'epoca. L’autore, infatti, non crea contrasti netti, crea personaggi sfaccettati e ci mostra un esercito americano senza scrupoli e che non ne esce bene al pari di quello nazista. Lo stesso protagonista Isaiah, è un antieroe, un personaggio finito nell’esercito per scampare al carcere e che in battaglia si mostra pieno di dubbi e insofferenze, anche perché comprende che le azioni del suo esercito non sono propriamente corrette.

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La particolarità de La Verità viene confermata anche dalle tavole di Kyle Baker, assolutamente distante dallo stile non solo Marvel ma dai comics supereroistici in generale. Il suo tratto cartoonesco, a cui lo stesso artista abbina una colorazione accesa e acida, esplode in una gabbia con vignette molto ampie, raramente in numero pari o superiore a sei, più frequentemente 4 o addirittura 3, se non splash-page singole o doppie. A questo si aggiungono linee spesse che disegnano figure di frequente in primo piano o che, anche quando disegnate per intero, appaiano grosse e possenti. Figure che emergono anche in contrasto a una frequente assenza di sfondi. Il tratto grottesco tende a deformare i volti che esprimono molto bene le loro emozioni grazie a espressioni marcate, cartoonisticamente sopra le righe, ma assolutamente efficaci. Solo nelle ultime tavole, quelle ambientate nel presente con Steve Rogers, Baker sembra ridurre gli eccessi, anche a causa di una controparte narrativa più didascalica, con una gabbia più classica e con colori più spenti.
Lo stile dell’artista, ad ogni modo, non depotenzia in alcun modo la storia sceneggiata da Morales, che presenta un alto tasso drammatico. Tutt'al più ne evidenzia gli eccessi amplificandone i toni e risultando, dunque, più efficace nella messa in scena.

Panini Comics raccoglie in un volume cartonato questa acclamata miniserie in 7 parti di inizio millennio, una storia atipica per stile e narrazione, che mescola in maniera convincente il fumetto indipendente a quello più commerciale della Marvel, e per questo caldamente consigliata.

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