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Dracula: Universal Monster, nuova serie per Tynion IV e Simmonds

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Il maestro dell’horror James Tynion IV e il disegnatore Martin Simmonds, mentre si godono una pausa di riflessione dalle indagini del Department Of Truth, edito in Italia da Panini Comics in formato HC e al momento fermo al numero 3 (22 numeri all’attivo nel mercato USA), rivolgono la loro attenzione alla più grande icona pop dell’horror: Dracula.

Nonostante nei decenni sia ormai smisurato il numero di storie raccontate sul personaggio, Tynion è convinto di avere l’idea vincente per narrare qualcosa di diverso e insolito, dalle forte tinte horror.

Dracula:Universal Monster, mini di 4 numeri, è solo la prima parte di un progetto più ampio che Skybound intende dedicare ai film horror targati Universal.

La versione cinematografica Universal Monster di Dracula, fonte di ispirazione del progetto, e passata agli onori della cronaca per le sue tinte urban, è stata interpretata da Bela Lugosi per la regia di Tod Browning, nel 1931.

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Newburn Vol. 1, recensione: il noir secondo Chip Zdarsky e Jacob Phillips

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Fin dal 2014, quando vinse il suo primo Eisner Award (al quale poi ne sono seguiti altri tre, più una pioggia di Harvey Award e diverse onorificenze minori), in veste di co-autore di Sex Criminals - premiata quell’anno come migliore nuova serie - Chip Zdarsky si è imposto come uno dei cartoonist più importanti del comicdom americano. Già pochi mesi dopo quel prestigioso riconoscimento, sono arrivate varie collaborazioni con Marvel e DC, tra le quali – limitando l’elenco a quelle che continuano tuttora – è bene ricordare il lungo ciclo di Daredevil iniziato nel 2019 (e avviato a concludersi negli USA questa estate) e Failsafe, la controversa saga di Batman che sta facendo discutere critici e appassionati da entrambi i lati dell’oceano.
Come molti altri sceneggiatori, però, Zdarsky mostra di dare il meglio di sé quando è libero di muoversi senza vincoli creativi o quando non deve preoccuparsi delle richieste di qualche editor. Ne è un chiaro esempio la recente Newburn, serie Image realizzata in coppia con Jacob Phillips, sbarcata da poco pure in Italia grazie a Saldapress.

Easton Newburn è un investigatore privato di New York al soldo di tutte le principali organizzazioni criminali della città. Temuto e rispettato, gode di una sorta di immunità presso la malavita, garantita dall’assoluta neutralità dei suoi giudizi, tesi a non privilegiare nessuna delle famiglie mafiose coinvolte e a mantenere l’equilibrio necessario a evitare sanguinose guerre tra gang. Una scomoda verità di cui è consapevole anche la polizia, rassegnata a farsi da parte pur di non intralciare le sue indagini.

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Con echi che richiamano serie televisive di successo come l’acclamata The Wire e, ancora di più, Mayor of Kingstown, Newburn possiede tutte le caratteristiche che hanno portato il noir a essere uno dei generi cardine della fiction contemporanea. La New York in cui si muove il protagonista non è la metropoli da cartolina illuminata dai grattacieli di Manhattan, visibile in molte produzioni hollywoodiane, ma una città soffocata dal crimine, che domina indisturbato su bassifondi popolati da un’umanità meschina e senza ideali. Un luogo dove la linea di demarcazione tra bene e male è sottilissima, tanto da rendere quasi naturale venire a patti con chi sta dalla parte opposta della barricata - sia in un senso che nell’altro - pur di ottenere qualcosa per il proprio tornaconto o per evitare che atti sconsiderati sfocino in tragedie peggiori, in cui nessuno sarebbe al sicuro. Di conseguenza, che in un simile scenario il protagonista possa essere un ex poliziotto cinico e disilluso, che ha deciso di arricchirsi mettendosi al servizio della malavita, non appare poi così sorprendente (sebbene non ridimensioni minimamente la brillante idea avuta da Zdarsky per il personaggio). Inoltre, ragionando in termini meramente contenutistici, difficile non prendere in considerazione come punti di riferimento fumettistici di una serie con queste caratteristiche la pluripremiata Criminal di Ed Brubaker e Sean Phillips (padre di Jacob) e diverse opere hard boiled di Greg Rucka.

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È pur vero, però, che, tolto il clima torbido che ammanta ogni episodio, il modo in cui Newburn arriva alla soluzione dei casi, spesso contraddice il realismo che, almeno in teoria, dovrebbe improntare la vicenda. Alludiamo al fatto che il protagonista mostra sempre di possedere un fiuto investigativo infallibile e di disporre di continui assi nella manica, anche in situazioni estremamente intricate. È questo l’unico apparente difetto della serie, benché, detto onestamente, Zdarsky non dia mai veramente l’impressione di voler replicare la formula di Criminal o di altre opere simili. Gli omaggi - forse pure inconsapevoli - a Brubaker e Rucka paiono semplicemente un tentativo di portare allo scoperto le inquietudini dei diversi character, al fine di rendere plausibile l’ambigua moralità di Newburn, per quanto essa, a dispetto del fascino che possa esercitare sugli smaliziati lettori di oggi una versione scorretta dei vari Sam Spade e Philip Marlowe, nasconda, con ogni probabilità, molto di più.
L’autore canadese, infatti, si rivela particolarmente abile nel mostrare - almeno per ora - solo i tratti essenziali del protagonista, centellinando le informazioni che lo riguardano in mezzo alle vicende private degli altri personaggi, in primis Emily, l’aiutante di Newburn, della quale, in maniera forse troppo prevedibile, scopriamo presto un passato non meno turbolento di quello dei diversi comprimari.
A ogni modo, al netto di qualche ingenuità, la lettura del volume rimane appassionante dalla prima all’ultima pagina e le scelte fatte fin qui dal buon Chip ci sembrano tutte sostanzialmente condivisibili.

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Passando al comparto grafico, se la scrittura di Zdarsky ricorda a tratti quella di Brubaker, persino più marcate sono le somiglianze tra i disegni di Jacob Phillips e quelli di suo padre Sean, tanto da rendere ancora più verosimile l’accostamento tra Newburn e Criminal. A un’analisi meno superficiale, tuttavia, risulta abbastanza evidente che, benché entrambi operino in maniera convincente sui primi piani dei personaggi, lasciando che siano le espressioni dei loro volti a parlare, piuttosto che l’eloquenza dei dialoghi, Jacob, quando prova a fare sue alcune caratteristiche stilistiche del genitore, a volte sembra mancare di spontaneità. Per esempio, se nelle tavole di Sean i giochi di ombre, il netto predominio dei dettagli e la scelta delle inquadrature concorrono in modo determinante ad arricchire la narrazione, in Newburn gli stessi espedienti “tecnici” appaiono più come una forzatura necessaria a far diventare meno anonima la costruzione delle vignette o a ridurre la staticità dei personaggi. Ciò non significa che il lavoro di Phillips Jr. sia di bassa qualità, ma è innegabile che gran parte dell’atmosfera che si respira nelle pagine del libro derivi soprattutto dall’uso magistrale dei colori, che è sempre stato il vero punto di forza dell'artista britannico (e di cui hanno spesso beneficiato anche le opere di Sean), piuttosto che dal segno essenziale – e inevitabilmente un po’ piatto – che contraddistingue le sue figure.
Probabilmente, il problema di Jacob è solo la giovane età. Il talento c’è e si vede, e con il padre a fargli da mentore non potrà che fiorire rapidamente.

Per finire, ottima, come di consueto, la confezione del volume da parte di Saldapress, per una serie che promette realmente di diventare una delle nuove hit della casa editrice.

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The Complete Cyberforce Vol. 1, recensione: questa forza scatenata

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Il 1992 è un anno spartiacque per la storia del fumetto americano. La nascita della Image Comics è l’evento che cambia per sempre i rapporti di forza tra editori e autori, che acquisiscono un potere mai avuto prima. Quando si parla di Image Comics la mente va a subito agli esponenti allora più in voga di quel roster pazzesco di artisti che si unirono per fronteggiare le eterne “Big Two” del fumetto a stelle e strisce: Jim Lee, Rob Liefeld e Todd McFarlane, le superstar assolute di quel momento storico. In seconda battuta, però, non si può ignorare il contributo che venne portato alla causa della Image da un altro artista, un solido professionista che poteva vantare più anni di carriera rispetto ai suoi più giovani soci: Marc Silvestri.

Silvestri comincia la sua carriera giovanissimo, realizzando nei primi anni ‘80 disegni per collane secondarie Marvel come Shang-Chi, Master of Kung-Fu e King Conan. A metà del decennio, disegna alcuni albi di Web of Spider-Man e il graphic novel Revenge of the Living Monolith, che lo fanno notare al grande pubblico. Ma la grande occasione della sua carriera arriva nel 1987, quando a Silvestri viene assegnato l’incarico all’epoca più prestigioso ed ambito dell’intero settore: le matite di Uncanny X-Men, la collana Marvel più venduta di tutti i tempi. Per tre anni, in coppia con un Chris Claremont al top della forma, Silvestri accompagna gli uomini X attraverso grandi cambiamenti, sia di atmosfere che di formazione: celebri saghe come The Fall of the Mutants e Inferno cementano la reputazione dell’artista come penciler moderno e dinamico, deliziando i lettori con l’abilità con la quale disegna in particolare le ragazze del gruppo. Tempesta, Rogue e le new entry Psylocke e Dazzler guadagnano in sensualità grazie alle matite di un Silvestri che sembra ispirarsi alle seducenti donne di Milo Manara. L’impatto epocale dello stile muscolare di Jim Lee sulla scena fumettistica statunitense alla fine degli anni ‘80 determina, in poco tempo, la nascita di una pletora di imitatori non altrettanto dotati. Anche un professionista affermato come Silvestri non può fare a meno di assistere alla rapida ascesa dell’artista coreano e di esserne influenzato. L’ammirazione per il collega è evidente soprattutto nella seconda fase del successivo incarico di Silvestri, il ciclo di Wolverine realizzato su testi di Larry Hama. I corpi da lui ritratti diventano sempre più muscolosi, le donne di una avvenenza fisica sempre più prorompente, le tavole sono attraversate da azione sempre più esplosiva. Quando Lee, McFarlane e Liefeld cominceranno a pensare ad un “casting” di eventuali soci per l’avventura della Image Comics, quella di Silvestri è una scelta tanto naturale quanto scontata.

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Nei primi anni ’90 i personaggi più popolari dell’industria sono i mutanti di casa Marvel: gli X-Men e le loro collane ancillari sono salde ai primi posti delle classifiche di vendita, esercitando un forte ascendente sulle altre testate della Casa delle Idee e non solo. È inevitabile quindi che anche le prime testate della neonata Image siano fortemente influenzate dal predominio dei mutanti sull’intero settore. Esclusi infatti i “solisti” Spawn di Todd McFarlane e Savage Dragon di Erik Larsen, sia gli Youngblood di Rob Liefeld che i Wildc.a.t.s. di Jim Lee presentano non pochi punti di contatto con gli X-Men della Marvel. Ma se c’è una collana Image dove questa influenza è assolutamente evidente, questa è proprio la Cyberforce di Marc Silvestri.

La miniserie di lancio datata 1992 dedicata al gruppo di eroi cibernetici, che apre il voluminoso omnibus pubblicato da Panini Comics, è indicativa di quanto all’epoca Silvestri, coadiuvato dal fratello Eric ai testi, fosse ancora immerso nelle atmosfere tipiche delle avventure dei Mutanti Marvel. I componenti della squadra vengono addirittura presentati come mutanti, termine del quale la Marvel non detiene il copyright, braccati dagli emissari della malvagia corporazione Cyberdata che li vuole catturare e trasformare in agenti al proprio servizio tramite l’innesto di componenti cibernetici.

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Con questa prima miniserie Silvestri tastò l’indice di gradimento dei suoi personaggi presso il pubblico, e pur presentando alcune delle tavole più esplosive della carriera dell’artista, la trama è appena abbozzata e la caratterizzazione dei personaggi è solamente accennata. Veniamo catapultati fin dall’inizio in pagine scoppiettanti di azione, che ci danno appena il tempo di capire che c’è una guerra in atto tra due fazioni, la malvagia Cyberdata con i suoi agenti potenziati e la Cyberforce, gruppo di eroi trasformati in cyborg proprio dalla Cyberdata a cui poi si sono ribellati per contrastarne i piani di dominazione planetaria.

I membri del gruppo sembrano modellati sugli stereotipi fumettistici più in voga ai tempi, che sono stati precisati in modo puntuale da Grant Morrison nel suo saggio Supergods. In un team di supereroi degli anni ’90, ci dice lo sceneggiatore scozzese, deve esserci sempre un leader sul campo, l’intrepido capo che dirige la squadra senza sbagliare nulla; il killer artigliato e tormentato il cui passato è avvolto nel mistero; l’indispensabile forzuto; la bad girl, elemento imprescindibile del periodo; la rookie, la giovane inesperta capitata nel gruppo per caso e che funge da punto di vista per il lettore. Se non ci credete, provate a mettere a confronto la Cyberforce con gli X-Men e a sovrapporre Heatwave a Ciclope, Ripclaw a Wolverine, Impact a Colosso, Cyblade a Psylocke, Velocity a Jubilee o a Kitty Pryde. O Striker a Cable, eroi tamarri armati da capo a piedi, figli della nota ossessione per le armi made in U.S.A. sublimata, all’epoca, nei film action di Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger e dei loro emuli.

Altra grande influenza fu il movimento cyberpunk, esploso nella cultura popolare a partire dagli anni ’80 grazie a romanzi come Neuromante di William Gibson, che aveva poi esercitato la sua influenza in ambito cinematografico con film che hanno anticipato i tempi a venire come Il tagliaerbe (datato proprio 1992) e manga come Ghost in the Shell. Di queste influenze, però, Silvestri prende solo la superficie, contaminandola con i sopracitati action americani alla Terminator. Da notare che il secondo capitolo della saga del cyborg assassino venuto dal futuro ideata da James Cameron è il più grande successo cinematografico del 1991, anno in cui Silvestri sta ideando la sua Cyberforce.

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La miniserie di lancio è un grande successo ma l’artista si rende ben conto dei suoi limiti come sceneggiatore, a cui non può certo sopperire il fratello. Per questo, quando si tratta di lanciare la serie regolare, si rivolge a scrittori ben più consolidati come Chris Claremont, il demiurgo indiscusso degli X-Men, che ne firma alcuni numeri. Un'altra mossa di marketing azzeccata è far coincidere la partenza della collana con un crossover con i Wildc.a.t.s. del socio Jim Lee, che rivela il passato comune di alcuni membri dei due team e pone le basi per le trame successive, incentrate sulla lotta tra la Cyberforce e la Cyberdata guidata dal malvagio Emil Zadrok. Le storie della “Forza Cyber” cominciano qui a farsi più interessanti, con importanti rivelazioni portate alla luce, approfondimento dei personaggi, colpi di scena con cliché dal sapore claremontiano come il controllo mentale e il conseguente “salto della barricata” di alcuni protagonisti.

Altre chicche contenute nel volume sono l’interessante Cyberforce #0, disegnato da Walter Simonson, leggenda del fumetto americano le cui tavole spettacolari avevano esercitato una forte influenza sui ragazzi terribili della Image, e il numero 8, disegnato in via straordinaria da Todd McFarlane, nell’ambito di un'iniziativa speciale in cui, per un mese soltanto, i soci fondatori della Image si erano scambiati le loro collane. Il volume testimonia anche il debutto di giovani allievi dello studio di Silvestri che diventeranno grandi star del tavolo da disegno, come David Finch e il compianto Michael Turner.

Se dal punto di vista della scrittura le storie contenute nell’omnibus denunciano gli evidenti limiti degli albi Image degli albori, nulla da dire sul comparto grafico: quando si tratta di realizzare tavole spettacolari, Marc Silvestri è secondo dietro solo al collega e amico Jim Lee. Splash-page  strabordanti che si dispiegano su due ante, eroi dalla bellezza scolpita e impossibile, eroine dal fisico mozzafiato (e stereotipato, direbbe qualcuno oggi), pagine straripanti di azione. Basta sfogliare questo strepitoso tomo per essere storditi dall’adrenalina che ne fuoriesce, dalla costruzione della tavola votata alla grandiosità, all’avvenenza dei protagonisti, elementi ancora più evidenti nei capitoli dedicati al crossover con i personaggi di Jim Lee, che scodella qui alcune delle pagine più iconiche della sua straordinaria carriera (come la famosa splash-page pieghevole a 4 ante di Wildc.a.t.s. #5). Una visione del fumetto che, seppur contestata a posteriori, ha fatto scuola ed esercita ancora oggi la sua innegabile influenza sul fumetto americano.
Panini Comics propone The Complete Cyberforce Vol. 1 in un prezioso omnibus ad alta foliazione dal costo importante, ma imprescindibile per comprendere appieno una stagione dei comics che, nel bene e nel male, ha fatto epoca.

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King of Spies, recensione: la vecchia spia chiude i conti

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Mark Millar è uno sceneggiatore di fumetti che della legittimazione del fumetto tra la cultura alta, ossessione di molti dei suoi colleghi, se ne frega allegramente. Della natura popolare della cosiddetta Nona Arte Millar riesce a cogliere il lato punk e anarchico, usandola come veicolo per le sue idee gioiosamente sovversive, tradotte in script sempre scanzonatamente sopra le righe. Una vena trasgressiva che ha caratterizzato fin dagli esordi il lavoro dello sceneggiatore, passando per il periodo dorato in Marvel ricco di hit come Ultimates, Civil War, Old Man Logan e le serie di sua creazione come Kick-Ass e Kingsmen – The Secret Service, tradotte con successo sul grande schermo.

La facilità di concepire soggetti accattivanti che sembrano fatti apposta per una trasposizione sul grande schermo lo porta sul finire degli anni 2000 ad interrompere la collaborazione con le major del fumetto per creare una propria etichetta, la Millarworld, con cui comincia a sfornare miniserie disegnate dai migliori artisti del comicdom, reclutati grazie alla capacità attrattiva delle sceneggiature di Millar. Nel 2017 arriva un colpo di scena che in realtà è perfettamente coerente con la direzione che Millar ha dato alla sua carriera nell’ultimo decennio: la cessione di Millarworld al colosso dello streaming Netflix, attratto dalla possibilità di poter disporre di un bel pacchetto di storie firmate da uno dei migliori scrittori di comics e pronte ad essere tradotte in immagini. A dire la verità la prima serie tv targata Millarworld/Netflix, Jupiter’s Legacy, non è stata esattamente un successo, né di pubblico quantomeno di critica. Ciò nonostante, Millar continua a sfornare miniserie a raffica. La maggior parte delle opere post-accordo con Netflix scritte da Millar negli ultimi anni, nonostante la confezione scintillante e il coinvolgimento dei migliori disegnatori su piazza, non sembrano altro che soggetti pronti per l’adattamento cinematografico, privi del peso specifico dei lavori che lo hanno reso famoso. A questo destino si sottrae però King Of Spies, l’ultima fatica di Millar, da poco pubblicata nel nostro paese da Panini Comics Italia. Si tratta di una scatenata spy-story, genere che Millar ha già frequentato con successo con la summenzionata Kingsmen, che va però oltre la serie di “pitch” partoriti a ritmi industriali che hanno caratterizzato le ultime opere.

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Se il nostro giudizio sull’opera dovesse basarsi solo sulla trama, tutto sembrerebbe già visto. Il protagonista, Roland King, è una vecchia spia in pensione che ha dedicato l’esistenza al servizio della Corona, un James Bond che in nome del bene superiore ha fomentato rivoluzioni o le ha stoppate sul nascere, ha rovesciato governi, insomma ha eseguito senza mai obiettare tutte le missioni assegnategli dai servizi segreti britannici, sporcandosi le mani di sangue. Il prezzo da pagare è stato quello di trascurare la famiglia e di perdere l’affetto del figlio. Quando gli viene diagnosticato un tumore che gli lascia solo sei mesi di vita, Roland coglie l’occasione per riflettere sulla propria vita: e il bilancio non è esattamente positivo. Guardandosi indietro, la vecchia spia si rende conto che, con le sue azioni non hanno favorito in alcun modo la gente comune, ma soltanto favorito gruppi di potere politici e religiosa, o media corrotti. Roland decide quindi che dedicherà il poco tempo che gli resta per cercare di rimediare il più possibile ai tanti errori commessi nella propria vita. E qui comincia il bello, perché la trama assume i connotati di un “revenge movie” in cui King chiude i conti e inizia a far fuori tutti i gangli di questo potere marcio. La sua furia non risparmierà nessuno: premier, presidenti, papi, nessuno sarà più al sicuro. Finché i servizi segreti non decideranno di fermarlo, lanciando una caccia all’uomo in cui coinvolgeranno anche suo figlio.

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La trama di King of Spies non brillerà certo per originalità, ma è il sottotesto anticonformista a dare alla mini una marcia in più che la rende irresistibile. Scagliando la furia di King contro quelli che vengono chiamati i “poteri forti”, Millar interpreta forse furbescamente, ma centrando in pieno il bersaglio, il sentire comune di tanti cittadini che hanno la sensazione di non essere padroni del proprio destino, che viene deciso altrove. Lo sceneggiatore inglese padroneggia al meglio il proprio mestiere, mettendo in scena un plot adrenalinico, avvincente e pieno d’azione, ricco dei suoi tipici dialoghi taglienti e di scene a sensazione che galvanizzeranno il lettore. Ma dietro all’azione esplosiva si nascondono anche riflessioni importanti sulle conseguenze delle nostre azioni e sull’eredità che lasciamo a chi viene dopo di noi.

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Fondamentale per la riuscita di King of Spies è l’apporto dei disegni di Matteo Scalera, in una delle prove migliori della sua carriera. Notevolissimo il lavoro di design dei personaggi (a partire dal protagonista Roland King, ritratto come un invecchiato ma sempre affascinante Pierce Brosnan) e lo storytelling adrenalinico che lascia davvero senza fiato. Il montaggio delle scene d'azione è magistrale, con l'uso di vignette che tagliano la pagina orizzontalmente come uno schermo cinematografico. La scelta delle inquadrature è audace e contribuisce a trasmettere al lettore l'effetto cinetico dell'azione raffigurata. Scalera fa ampio uso di una inchiostrazione molto spessa e carica di nero sulla quale si innesta la palette di colori soffusi di Giovanna Niro, un connubio felice che determina un risultato finale di grande effetto.
King of Spies è un’opera che fa quello che un fumetto dovrebbe fare, divertire e intrattenere, e lo fa ad altissimi livelli.

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