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Strange Adventures 1 e 2, recensione: la definitiva decostruzione dell'eroe spaziale Adam Strange

Strange Adventures

Apparso per la prima volta nel 1958 sulle pagine dell’antologica Showcase, Adam Strange fu creato dall’editor Julius Schwartz in un periodo in cui la DC stava cercando di allargare sempre di più la sua offerta per i giovani lettori, che erano tornati in massa a leggere fumetti, grazie al profondo rinnovamento nei contenuti che investì il medium a partire dal 1956, anno nel quale Barry Allen divenne il nuovo Flash, dando il via a una seconda età dell’oro per i comics americani, oggi nota come Silver Age.
 
Dopo che Murphy Anderson ne ideò il costume, il personaggio fu lasciato nelle abili mani di Gardner Fox, con Mike Sekowsky a occuparsi dei disegni. Di lì a poco, tuttavia, Adam Strange venne trasferito su un’altra testata, la fantascientifica Mistery in Space, e le matite passarono al grande Carmine Infantino. Lo spostamento su Mistery in Space aveva una sua ragione ben precisa. Il personaggio, infatti, non possedeva le tipiche caratteristiche di un supereroe - sebbene presto entrò a far parte della Justice League - ma sembrava piuttosto appartenere a quel filone letterario generalmente identificato con il nome di planetary romance, divenuto molto popolare agli inizi del Novecento grazie allo scrittore Edgar Rice Burroughs e ai suoi eroi John Carter di Marte e Carson di Venere e che vide successivamente importanti epigoni nei fumetti come Buck Rogers e Flash Gordon.

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Nella sua prima storia da protagonista, il nostro Adam è un archeologo che – mentre cerca di sfuggire ad alcuni discendenti degli inca, furiosi per averlo sorpreso a trafugare un antico tesoro perduto – viene improvvisamente investito da un’energia misteriosa, che lo trasporta istantaneamente sul pianeta Rann. Qui viene condotto nella città di Ranagar, dove apprende dagli scienziati del luogo che il suo arrivo è stato determinato dal cosiddetto Raggio Zeta, concepito in realtà come un mezzo per comunicare con la Terra, ma poi trasformatosi in un raggio di teletrasporto a causa di interazioni impreviste con radiazioni spaziali sconosciute. Su Rann, Adam vive da subito avventure mirabolanti, che lo vedono spesso contrapposto ad altre razze aliene, sempre intenzionate a conquistare quello che diventerà il suo pianeta adottivo, dove presto – e in maniera alquanto prevedibile - troverà anche l’amore della bella principessa Alanna. L’effetto del Raggio Zeta, tuttavia, tende a esaurirsi e nel momento in cui questo succede, l’eroe viene trasportato indietro sulla Terra, costretto ad aspettare che l’emissione energetica si manifesti un’altra volta, per poter tornare alla sua nuova casa.

Le storie del personaggio vanno avanti fino a metà degli anni Sessanta, ripetendo costantemente lo stesso schema: arrivo su Rann, combattimento contro la minaccia di turno, rientro sulla Terra. Dopodiché, Adam Strange comparirà solo in veste di comprimario, almeno fino ai primi anni Ottanta quando torna a essere protagonista di nuove avventure, che, però, continuano a seguire il canovaccio delle precedenti. Poi, nel 1987, durante la sua celebre gestione di Swamp Thing, Alan Moore decide di offuscare l’alone di purezza di quelle storie, rivelando che il Raggio Zeta aveva avuto fin dall’inizio come scopo il trasporto su Rann dei terrestri, affinché essi potessero sopperire alla quasi totale infertilità della popolazione maschile del pianeta (una sorta di Handmaid’s Tale all’inverso, in altre parole). Tale scomoda verità segna la fine dell’innocenza per Adam Strange, le cui imprese successive verranno di frequente intervallate da avvenimenti più cupi e drammatici. Fino ad arrivare al maggio del 2020, allorché nelle fumetterie americane esce il primo numero della miniserie Strange Adventures (che riprende il nome della collana dove, tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, furono ristampate le apparizioni del personaggio su Showcase e Mistery in Space), in cui la decostruzione dell’eroe spaziale viene portata al suo definitivo compimento.

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Autore dei testi è l’ormai lanciatissimo Tom King, che, come in altri suoi lavori, imbastisce una trama poco lineare sebbene, questa volta, riesca brillantemente a contenerne la complessità narrativa, a dispetto di una vicenda sviluppata su due piani temporali differenti. Più precisamente, nel presente vediamo Adam e Alanna abitare sulla Terra, dopo aver guidato, in una guerra lunga e dolorosa, il popolo di Rann alla vittoria sullo spietato Impero dei Pykkt. Nel passato, invece, assistiamo proprio all’arrivo dei Pykkt sul pianeta e alle fasi più importanti del conflitto. Le due storyline procedono in parallelo, scambiandosi lo scenario di continuo, dando l’impressione, all’inizio, di essere solo due momenti diversi del medesimo racconto. Presto, tuttavia, gli eventi del presente cominciano a prendere una piega del tutto inaspettata e molte certezze, anche le più solide, vengono apertamente messe in discussione.

Strange Adventures rappresenta per lo scrittore americano la nuova tappa di un percorso avviato con Omega Men e proseguito – pur con intenzioni e toni differenti – nell‘ottimo Sheriff of Babylon. L’assunto di base è sempre lo stesso: quando c’è di mezzo la guerra, la realtà non è mai come sembra (un’affermazione apparentemente ovvia, ma – pensando alla triste attualità del conflitto russo-ucraino - spesso minimizzata) e per far sì che questo messaggio non possa essere frainteso, King decide di tornare a impiegare ambientazioni di fantasia, perché consapevole che riferirsi ad accadimenti reali – come è stato per la guerra in Iraq in Sheriff of Babylon – potrebbe in qualche modo limitare la sua libertà di azione, con il rischio di non riuscire a trasmettere fino in fondo, le lezioni indigeste apprese durante i suoi anni trascorsi alla CIA. E, in effetti, far apparire così inadeguata la figura classica del supereroe, aiuta a evidenziare con maggior forza quanto sia difficile, in determinate circostanze, tracciare un confine tra buoni e cattivi o a far risaltare, in tutta la loro sgradevolezza, le controverse decisioni da prendere per ribaltare le sorti di un conflitto. In aggiunta, per portare allo scoperto ogni forma di ambiguità e drammi ancora più laceranti, o per cercare di spiegare come alcune scelte deplorevoli siano, a volte, tragicamente inevitabili, l’autore statunitense non circoscrive questo trattamento ai soli protagonisti – tutte figure di secondo piano dell’Universo DC e, quindi, facili da rimodellare – ma lo estende a comprimari di lusso del livello di Batman, Lanterna Verde e Superman. Emblematici, in proposito, due incontri tra Adam e quest’ultimo: uno nel passato, all’inizio dell’invasione, dove l’Uomo d’Acciaio decide pragmaticamente - ma anche con molto cinismo - di restare sulla Terra, invece che andare in soccorso di Rann. Il secondo nel presente, quando Adam rinfaccia all’amico la sua scelta, che lo ha costretto a compiere atti terribili, pur di non lasciare nelle mani dei Pykkt il pianeta di sua moglie.

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Come era logico attendersi, King non manca di sottolineare quanto la percezione di un determinato avvenimento possa sembrare totalmente diversa in relazione al contesto, ai punti di vista, alle persone coinvolte o alle informazioni fatte circolare, denunciando esplicitamente il processo di semplificazione - se non di vera e propria mistificazione - in atto nei media contemporanei. Nei passaggi maggiormente drammatici, la sua prosa è asciutta, schietta e radicale e si manifesta attraverso dialoghi molto realistici, che – Mr. Terrific a parte, dato il suo ruolo all’interno della vicenda - ci restituiscono personaggi più umani di quello che sarebbe lecito aspettarsi da superuomini in calzamaglia (o in tuta spaziale) abituati a ergersi come difensori di interi pianeti. D’altronde, la capacità di saper descrivere con estrema naturalezza i rapporti interpersonali, arricchendoli di poesia o tragicità a seconda delle situazioni, è una delle qualità più importanti della scrittura di King, che in Strange Adventures trova, forse, la sua massima espressione.

Naturalmente, mentre le differenze tra presente e passato cominciano a farsi evidenti, assistiamo anche a un progressivo cambio di stile nella narrazione. E se la guerra su Rann – benché non ci vengano risparmiate le brutalità di entrambi gli schieramenti - continua a essere dipinta come l’eroica resistenza di un popolo contro la ferocia degli invasori, nel presente veniamo coinvolti in una lenta discesa nell’oscurità, che fa emergere ferite profonde, ancora lontane dal rimarginarsi. Alla fine, la separazione è netta: da un lato abbiamo la vittoria sui Pykkt che, nonostante il suo enorme carico di sacrifici e orrori, pare preannunciare - con spirito quasi hollywoodiano - un futuro pieno di speranza. Dall’altro, abbiamo una realtà segnata dall’ipocrisia e dall’inquietudine, che King decide di raccontare seguendo le regole del thriller investigativo, esattamente come aveva già fatto in Omega Man e in Sheriff of Babylon (o nella recente miniserie dedicata a Rorschach), ottenendo, però, un esito ancora più dirompente, determinato non tanto dal registro mutevole dei salti cronologici, ma piuttosto dalla notevole tensione che si crea non appena la cospirazione comincia a palesarsi. King calibra i tempi scenici alla perfezione e il risultato è un autentico pugno nello stomaco del lettore, totalmente impreparato a gestire la scomoda verità che si apprende negli ultimi capitoli.

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Tale contrasto trova una completa corrispondenza anche nei disegni, dove gli stili dissonanti di Mitch Gerards ed Evan Shaner, i due validissimi artisti (entrambi - pur se in misura diversa - già collaboratori dello scrittore americano in altre sue opere) chiamati a dar vita rispettivamente agli eventi ambientati nel presente e a quelli nel passato, esaltano le crescenti divergenze della sceneggiatura. Gerards, rinunciando del tutto a ogni forma di schematizzazione, tarando con precisione le espressioni e facendo un uso magistrale del colore, ci regala personaggi autentici, desiderosi di abbandonarsi alla loro quotidianità, ma pure incapaci di reprimere le ombre che li tormentano o di nascondere il loro vero essere. Shaner, per contro, con il suo tratto pulito e classicheggiante è perfetto nel rappresentare il valore, lo spirito di sacrificio e la determinazione dell’eroe, così come la bellezza di Alanna o le differenze "somatiche" dei vari popoli di Rann. Tutti elementi che, persino nei momenti più intimi, trasportano il lettore all’interno di quell’epopea avventurosa con cui King ha scelto di raccontare il passato.

Anche la costruzione delle tavole rispecchia questa asimmetria: sebbene entrambi i disegnatori utilizzino nella maggior parte dei casi una gabbia a tre vignette orizzontali, Gerards a volte ritorna alla divisione a nove riquadri - che aveva già sperimentato con successo in Mister Miracle – allo scopo di mettere in evidenza i dettagli, di allungare i dialoghi, di raffreddare le emozioni, mentre Shaner fa un largo uso delle splash-page, più idonee per mostrare gli scontri tra gli eserciti, i grandi spazi, la fisicità dei protagonisti o, in generale, per imprimere un ritmo accelerato alla narrazione o per amplificare la drammaticità degli avvenimenti. Il fatto sorprendente, tuttavia, è che spesso la differenza di stile si nota appena perché i due autori sono molto bravi a scambiarsi di ruolo, mantenendo una sorta di continuità nella luminosità e nella gradazione dei colori. È solo la discordanza nei toni a far intuire il mutamento dello scenario, prima che intervenga la trama a darcene una conferma. Il medesimo effetto, benché in forma più estrema, è ampiamente percepibile nelle copertine degli albi, di cui sono state realizzate due versioni – una da Gerards e l’altra da Shaner - per ognuno dei dodici numeri che compongono la serie. Molte ritraggono la stessa scena, ma vista da due prospettive diverse, quasi come uno specchio che riflette un’immagine distorta di quella – almeno in apparenza - reale.

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Affondando le sue radici nel revisionismo che diede un forte scossone al genere supereroistico negli anni Ottanta, Strange Adventures si configura come un’ulteriore evoluzione di quei concetti, oltre a essere una continua fonte di riflessione e un’analisi lucida e spietata dell’incertezza che domina i nostri tempi. Un’opera che si pone ai vertici del fumetto americano contemporaneo, assolutamente imprescindibile per ogni appassionato e che Panini Comics ha degnamente valorizzato con un’elegante edizione in due volumi cartonati.

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The Sheriff of Babylon, recensione: la consacrazione di Tom King e Mitch Gerads

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Prima di diventare lo sceneggiatore di titoli di successo come Batman, Mister Miracle e The Vision, Tom King è stato un agente della CIA. Sull’onda del lutto nazionale e della reazione emotiva seguita alla tragedia dell’undici settembre, King si arruolò nell’agenzia di intelligence per poter offrire il suo contributo. Terminò il suo addestramento proprio mentre gli Stati Uniti stavano per entrare in guerra contro l’Iraq. Partì per Baghdad, dove rimase per pochi mesi prima di fare ritorno a casa. Successivamente, continuò ad operare come agente dell’antiterrorismo sia in patria che in giro per il mondo, fino alla nascita di suo figlio. Come ha lui stesso raccontato, questo evento lo spinse a riconsiderare le sue priorità, realizzando ben presto che non poteva essere contemporaneamente un agente e un buon padre. Ripiegò così sulla scrittura, una sua vecchia passione, con i risultati che ben conosciamo.

L’esperienza alla CIA era stata, però, una tappa fondamentale del suo percorso professionale ed umano così quando la Vertigo, defunta ma indimenticata etichetta dedicata ad un pubblico maturo della DC Comics, gli chiese di scrivere una serie, King pensò subito ai mesi trascorsi a Baghdad. Non potendo adattare quanto vissuto personalmente per ovvi motivi di opportunità, lo scrittore optò per un thriller poliziesco, un genere che ben si presta a descrivere la complessità di un luogo fotografato in un momento storico dominato dall’ambiguità e in cui nulla è come sembra. Nacque così The Sheriff of Babylon, frutto della collaborazione tra King e il disegnatore Mitch Gerads, che Panini Comics ripropone ai lettori italiani dopo la prima edizione pubblicata anni fa dal precedente licenziatario.
“Murder mistery” che mutua i canoni di classici generi americani come il noir o il western ma calandoli in un contesto bellico, The Sheriff of Babylon racconta due mesi nella vita di tre personaggi lontanissimi tra loro come formazione ed esperienze, ma le cui esistenze si intrecceranno in modo indissolubile con uno stile narrativo che ricorda molto quello usato da Alejandro González Iñárritu in pellicole come Babel e 21 Grammi, miscelato ad atmosfere che sembrano uscite da Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow.

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Christopher Henry è un poliziotto americano, arruolatosi nell’esercito per addestrare i cadetti della nuova polizia della Baghdad liberata. Quando era in servizio in America, ha avuto l’occasione di arrestare uno dei terroristi dell’11 settembre facendoselo scappare. Ora è in Iraq per fare ammenda, addestrando il nuovo corpo di polizia. Sofia è una giovane donna irachena che vive in America da quando era bambina, salvo rientrare in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Il nonno è stato tra i fondatori del partito Baath, lo stesso del dittatore, ed è stato fatto ammazzare da Saddam quando quest’ultimo ha cominciato a percepirlo come una minaccia al suo potere. Sofia (o Saffiya, il suo nome iracheno che ricomincia ad usare una volta rientrata in patria) è una donna che porta cicatrici tanto nell’anima quanto nel fisico, che non scalfiscono però la sua forza e la sua determinazione. Essendosi costruita sapientemente rapporti tanto con l’intelligence statunitense quanto con esponenti politici locali, si candida ad un ruolo importante nel futuro del suo paese. Nassir, invece, è un ex poliziotto del servizio personale di Saddam. In questo ruolo ha commesso azioni di cui non va fiero. Ha perso le sue tre figlie durante l’attacco americano a Baghdad. Vive con la moglie Fatima e non si aspetta più nulla dal futuro. Un giorno, uno dei cadetti addestrati da Chris viene ritrovato morto ai confini della zona verde, il settore della città controllato dagli americani. È la miccia che innescherà una trama fitta di mistero, in cui nulla è come sembra, che finirà ben presto per coinvolgere anche Nassir e Saffiya.

The Sheriff of Babylon contiene, tanto dal punto di vista stilistico quanto dei contenuti, tutti i tratti caratteristici di un tipico lavoro di Tom King. Per quanto la trama possa apparire quanto di più distante dalle storie di supereroi per le quali lo scrittore è diventato celebre, in realtà ci sono tutti i topoi tipici delle opere di King. Prima di tutto, la difficoltosa analisi di una realtà troppo ambigua e complessa per poterla decifrare con strumenti canonici. La Baghdad mostrataci da King è un limbo inintelligibile, un pantano in cui è impossibile comprendere le reali motivazioni dei personaggi che la popolano. Militari, agenti segreti, politici, terroristi, sembrano pedine di uno schema che non sembrano comprendere appieno, e noi con loro. D’altronde, come potremmo? Dalle pagine emerge tutta la complessità della storia di un paese diviso tra un passato recente relativamente stabile, seppur sotto il giogo di un dittatore, e l’improvvisa libertà ritrovata grazie all’intervento bellico a stelle e strisce. Una situazione politica e sociale del tutto nuova, che stenta però a stabilizzarsi, lasciando il passo ad un caos causato da rese di conti spesso sanguinarie tra partiti e gruppi di potere ancora vivi e vegeti, sebbene appartenenti a un’epoca che non può tornare. Il sentimento dominante è quello di uno spaesamento collettivo, percettivo e sensoriale, che se nelle opere a tema supereroistico firmate dall’autore rappresentavano una metafora dell’esistente, qui diventa caratteristica precipua dell’esistente stesso. Sullo sfondo, la malinconia per un passato mitico, per un’età dell’oro persa ormai nella nebbia della storia che ha visto l’Iraq come la culla della civiltà. Nostalgia evocata a più riprese dalle due straordinarie figure femminili, Saffiya e Fatima, e ben rappresentata dalla sequenza onirica che apre il quarto capitolo, con la narrazione della favola della principessa Saffiya, omonima della protagonista. Di nuovo torna, nel lavoro di King, l’evocazione di un passato glorioso e mitologico a cui fa da contraltare un presente incerto, se non fatto di rovine come in questo caso. Un tratto tipico delle opere dello scrittore che ha caratterizzato i momenti più lirici di opere come The Vision, Mister Miracle e Strange Adventures, ma che qui ovviamente assume una gravitas differente.

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Sheriff of Babylon è un campionario dell’arte in cui King eccelle, ovvero la gestione dei tempi narrativi e dell’approfondimento psicologico grazie a dialoghi efficaci e misurati sulla sinergia con l’artista che lo accompagna. In questa occasione venne inaugurata una collaborazione che avrebbe segnato opere future dello scrittore, come le sopra menzionate Mister Miracle e Strange Adventures, quella col disegnatore Mitch Gerads. All’epoca Gerads veniva da un’ottima sequenza sul Punisher della Marvel, dove aveva dimostrato di sentirsi a suo agio con le atmosfere di genere militaresco, ma non aveva dato ancora sfogo alla sua raffinata abilità di storyteller. L’occasione propizia si presentò proprio con Sheriff of Babylon, dove scattò un feeling artistico immediato con King. Il fumetto è un'arte visiva, e il modo in cui un testo viene tradotto in immagini è decisivo per la riuscita dell’opera. In questo caso, non è esagerato dire che Sheriff of Babylon non sarebbe potuto esistere senza l’arte di Mitch Gerads. La celebre affermazione di Andrè Bazin sulla capacità del montaggio cinematografico di produrre significato trova piena conferma nelle tavole sapientemente organizzate dell’artista. Il formato preferito è quello della griglia a nove vignette, reso celebre da Watchmen, soprattutto nelle scene di dialogo. La scelta compositiva è quella di un’inquadratura fissa, con piccole varianti di postura da una vignetta all’altra che suggeriscono il movimento, evitando un’eccessiva immobilità. I dialoghi di King hanno così tempo di fare breccia nel lettore, e le immagini ne sottolineano il valore introspettivo e psicologico, concedendogli il giusto tempo di fruizione.

Gerads varia la composizione delle sue tavole pagina dopo pagina, a seconda delle richieste che vengono dallo script: alle nove vignette si sostituiscono così quattro o cinque strisce orizzontali in formato panoramico con elementi che si spostano da destra a sinistra a dare la sensazione del movimento, come nella scena dell’attentato a Saffiya. Le scelte compositive non sono rigide e convivono nella stessa pagina, laddove il “montaggio” lo richieda. Possiamo godere così di una raffinata selezione di elementi del découpage classico, tra montaggi alternati, campi e controcampi, arricchiti di elementi tipicamente fumettistici come onomatopee e le splash page. Quest’ultime però non sono usate gratuitamente ma vengono centellinate, e il loro utilizzo sottolinea momenti solenni ampiamente preparati nelle pagine precedenti.

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Significativa da parte di Gerads è anche la scelta del colore, vero e proprio “commento” visivo alla vicenda. Domina il giallo ocra, colore della terra, che rende bene un setting opprimente tanto a livello climatico quanto a quello psicologico, salvo lasciare il campo a tonalità di verde e azzurro nelle scene notturne, veri momenti di calma prima della tempesta, che assumono una dimensione quasi onirica.

The Sheriff of Babylon viene proposto da Panini Comics in una confezione di altissima qualità, un cartonato di grandi dimensioni che esalta lo straordinario lavoro di Tom King e Mitch Gerads, un lavoro che sfrutta appieno la ricca grammatica loro concessa del medium fumetto.

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DC Comics annuncia l'evento e la miniserie Infinite Frontier

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Se Future State ha offerto uno scorcio del futuro dei personaggi DC, Infinite Frontier #0, ha svelato cosa accadrà nei prossimi mesi nel DC Universe. L'editore ha rivelato che, a partire dal prossimo 22 giugno, partirà una nuova saga di sei numeri intitolata proprio Infinite Frontier.

La miniserie sarà scritta da Joshua Williamson e sarà disegnata da Xermanico con le copertine di Mitch Gerads.

Questo evento esplorerà ulteriormente il Multiverso DC in rapida espansione. Vedremo, riporta la descrizione della DC, Alan Scott, Lanterna Verde della Justice Society of America, alla ricerca di suoi alleati dispersi in azione. Alcuni di loro, però, preferirebbero rimanere nascosti piuttosto come Roy Harper, alias Arsenal, un uomo che dovrebbe essere morto e che ora non lo è più. Inoltre, cosa significa tutto questo per il ruolo del DCU nel Multiverso? Su lati opposti di una spaccatura dimensionale, sia Barry Allen che il Presidente Superman riflettono su questa domanda. Per non parlare del Darkseid! O una squadra di eroi multiversali chiamati Justice Incarnate!

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Mitch Gerads rinnova il contratto d'esclusiva con la DC Comics

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Mitch Gerads ha annunciato su Twitter di aver rinnovato il contratto in esclusiva con la DC Comics:



Il disegnatore di Mister Miracle, non ha specificato la durato del nuovo contratto limitandosi a un generico "qualche anno in più". L'accordo precedente era di due anni

Gerads è attualmente al lavoro sul titolo DC Black Label Strange Adventures scritto da Tom King.

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